PARTE IV

 

UOMO DEGLI UOMINI E PER GLI UOMINI

 

 

 

Mons. Scalabrini volle essere uomo del suo tempo, non sognatore nostalgico di epoche tramontate e irreversibili, ma al passo con la storia, attento ai segni dei tempi, realista conoscitore dei problemi e delle esigenze dei contemporanei, proteso a preparare un avvenire più umano e conforme ai disegno di Dio nella storia.

Affrontò con coraggio, energia e concretezza le principali «questioni» del tempo. L’epoca dell’associazionismo lo vide entusiasta sostenitore delle associazioni cattoliche, per quanto discorde dall’ideologia politica di chi avrebbe voluto monopolizzare l’Azione Cattolica.

La società si andava scristianizzando rapidamente: urgeva «ricondurre Cristo nella società». Condizioni indispensabili erano: l’unione e la compattezza delle forze, l’attività coraggiosa, la dipendenza dai Pastori, in quanto l’Azione Cattolica è apostolato, non politica.

Il grosso ostacolo all’unità era la Questione Romana, che impediva, con la proibizione della partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, un influsso incisivo sui centri di potere e di legislazione: gli anticlericali avevano mano libera nel tentativo di demolire il senso cristiano del popolo. La preoccupazione pastorale dettò al vescovo di Piacenza non un atteggiamento di protesta ma la ricerca della conciliazione tra due sentimenti ugualmente legittimi: religione e patria. La Chiesa deve essere libera, tanto dall’interno quanto dall’esterno, di esercitare il suo potere, che è tutto spirituale, e i suoi diritti, che sono l’evangelizzazione e la carità.

La conciliazione è un ideale che abbraccia tutti gli aspetti della vita dello Scalabrini. Egli concilia il realismo della storia vissuta con l’amore intrepido alla verità, la libertà e la franchezza del dialogo con l’obbedienza, l’amore per quanto di bello e di buono Dio ha messo a disposizione nel creato con l’amicizia degli uomini.

 

 

 

 

1. L’AZIONE CATTOLICA

 

Illuminismo, razionalismo, materialismo e anticlericalismo allontanano Cristo dalla società: occorre promuovere un movimento di ritorno, specialmente fra il popolo. Solo nell’unione sta la forza e solo nell’organizzazione l’unione è efficiente.

L’associazionismo sta per diventare esclusiva dei nemici della Chiesa: invece di piangere, bisogna scuotersi, uscire all’aperto e agire, sotto la guida del Papa e dei vescovi.

 

 

“Gesù Cristo è stato allontanato dalla società”

 

Persuasi oramai i moderni increduli di non potere neppur essi rovesciare, come vorrebbero, il trono di Gesù Cristo, pensarono di confinare questo eterno Re delle anime, questo invisibile Sovrano dell’universo, tra le pareti del tempio, allontanandolo da tutte le apparenze della vita, sia privata sia pubblica. Essi tutte le arti adoperarono, a tutti i mezzi ricorsero pur di raggiungere il diabolico intento; e pur troppo, colpa in gran parte la indolenza dei buoni, vi sono riusciti.

Gesù Cristo è stato a poco a poco allontanato dalla scuola, dai costumi, dalle famiglie, dalla società. Ma (…) quando Gesù Cristo si è allontanato, ci siamo accorti che s’è allontanata l’anima che tutto vivificava, ci siamo accorti che all’edificio scientifico, domestico e sociale è venuto a mancare il fondamento, ci siamo accorti di trovarci sull’orlo di un abisso!

Avevano detto: ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude, e poi non hanno trovato, i nemici della Chiesa, conventi e castelli che bastassero a contenere il numero sempre crescente dei delinquenti. Avevano detto: il catechismo nelle scuole è un’offesa alla libertà del pensiero, e, sostituito al catechismo il manuale dei diritti dell’uomo e poi un libro dei doveri naturali nel quale non si parlasse di Dio, hanno allevato i nuovi Spartachi dalle bombe di dinamite coi quali la società dovrà davvero combattere l’ultima battaglia. Avevano detto: la scienza laica purificherà l’ambiente e immetterà nuovo sangue nelle vene della crescente generazione e le statistiche dei suicidi, dei duelli, degli adulterii, i fallimenti dolosi, i saccheggi delle banche le pubbliche immoralità, i più atroci delitti hanno fatto ben presto morire sul labbro gl’inni festosi sciolti alla nuova morale senza Dio. Nella famiglia le rovine del talamo coniugale, la pace perduta, i figli ribelli hanno dimostrato con troppa eloquenza che solo il Crocifisso poteva proteggere il focolare domestico1.

 

“Ricondurre Gesù Cristo nella società”

 

La vista dell’abisso che ci sta dinanzi ci ha fatto indietreggiare inorriditi, e tutti sentiamo come istintivamente il bisogno di un movimento di ritorno alle tradizioni sante dei nostri padri e delle nostre madri; le scosse dell’edifizio, la polvere delle rovine ci hanno fatto paura, e tutti sentiamo il bisogno di ristabilire l’equilibrio, ricollocandovi a base Gesù Cristo.

Ora è questo appunto il fine dell’azione cattolica; promuovere con una organizzazione rispondente alle esigenze dei tempi, questo movimento di ritorno, entrato oramai nella coscienza di tutti gli onesti; ricondurre Gesù Cristo nella scuola, nei costumi, nella famiglia, nella società.

Il nostro scopo dunque non è quello di fare della politica come vorrebbero dare ad intendere i nostri avversari. Noi vogliamo anzitutto far opera di risanamento morale e provvedere poi ai bisogni d’ordine economico che rispondono alle legittime aspirazioni della classe specialmente operaia. Gli sfruttatori del povero popolo hanno fatto sin qui magnifiche promesse, ma poi a tutte le loro promesse sono venuti meno.

Hanno promesso pane e giustizia, ed oggi al popolo mancano giustizia e pane.

Orbene, noi vogliamo, a vantaggio appunto del popolo, organizzare benefiche istituzioni, allargare il mutuo soccorso, favorire l’industria, agevolare il commercio, fecondare le opere di carità che sono ai giorni nostri più opportune. Vogliamo soprattutto che la Religione dei nostri padri sia rispettata, che sia rispettata la loro volontà, che sia rispettato il giorno del Signore, che siano rispettati i nostri diritti, i sacri diritti della Chiesa e del supremo suo Capo, i diritti di tutti.

Vogliamo che sia tenuto nel debito onore il Sacerdozio, che la gioventù cresca informata a sodi principii e morigerata, che la cosa pubblica sia amministrata da uomini integri e timorati di Dio.

Vogliamo la vera grandezza della patria nostra; perciò vogliamo la libertà del bene e non del male, o almeno quella libertà di cui gode il male; vogliamo che cessi la cattiva stampa dal seminare errori e vomitare bestemmie, che sieno rimossi i pubblici scandali, che il popolo non sia più oltre ingannato e tradito.

Vogliamo aprire al fanciullo quel libro che gl’insegna ad essere cristiano e cittadino; vogliamo dire all’operaio, che egli, anche su questa terra, non sarà mai felice, seguendo le massime del socialismo, ma che della vera felicità godrà per lo meno un saggio anticipato, seguendo le massime del Vangelo; vogliamo dire ai governanti, che se il Signore non protegge gli Stati, si affaticano indarno quelli che  ne hanno in pugno le sorti. Vogliamo in una parola, che la società torni ad essere nelle sue leggi, nelle sue istituzioni, nelle sue costumanze, nella sua vita pubblica quale deve essere veramente, cioè cristiana2.

 

“Dobbiamo organizzarci, dobbiamo unirci”

 

La necessità dell’azione cattolica è dunque urgente e manifesta; ma perché riesca efficace davvero, conviene che sia disciplinata e concorde.

Sì, dobbiamo organizzarci, dobbiamo unirci, perché solo nell’unione sta la forza; solo nell’unione è il segreto della vittoria.

Di qui la importanza e la necessità delle cattoliche associazioni e dei Comitati parrocchiali.

Non starò a ripetere ciò che vi dissi altre volte in proposito e in privato e in pubblico,  e a voce e per iscritto. Dirò piuttosto quello che vuole il Papa, interprete sicuro dei divini voleri (...).

Egli vuole che le parrocchie tutte d’Italia abbiano il loro Comitato cattolico, e questo Comitato deve senz’altro stabilirsi in ciascuna parrocchia della diocesi piacentina, e non solo deve stabilirvisi, ma stabilito che sia deve mantenervisi, e mantenervisi operoso.

La mia parola questa volta non è parola di esortazione, ma di comando, e la indirizzo a voi principalmente, miei venerabili cooperatori nella salute delle anime, perché è a voi principalmente che il Papa rivolge in tono solenne quelle gravi parole: «Nelle odierne condizioni della Chiesa devono i sacerdoti assumersi anche questo ufficio di dirigere le schiere e gli animi dei fedeli colla loro autorità apertamente e coll’esempio».

Io che conosco a prova la vostra filiale devozione e docilità perfetta al Vicario di Gesù Cristo in ogni cosa, non dubito punto che vi metterete, se pure non vi siete già messi, all’opera, con volontà energica e risoluta.

Bando, o miei cari, alle discussioni, alle diffidenze, ai timori3.

 

“L’ora di agire è suonata”

 

I figli del lavoro costituiscono in tutti i paesi del mondo la massa delle popolazioni. Informare pertanto gli operai allo spirito essenzialmente pacifico e salutare del Cristianesimo, è lo stesso che salvar la civil società.

Sono essi, gli operai, i prediletti della Chiesa, che nel fabbro di Nazareth riconosce e venera il proprio Fondatore (...).

Mentre ci rallegriamo vivamente, che in alcuni luoghi della Nostra Diocesi, e specialmente in questa nostra Piacenza, tali Società già sieno istituite, e preghiamo il Signore a benedire gli egregi ecclesiastici e laici che le promossero, ci rivolgiamo a voi tutti, o cari e Venerandi Confratelli, e vi ripetiamo essere nostro vivissimo desiderio che in ciascuna Parrocchia, o, dove il numero dei parrocchiani è assai piccolo, almeno nei punti principali di ciascun Vicariato, la Società degli Operai si formi, si organizzi e fiorisca per operosità, per numero e per concordia (...).

Il socialismo, che impaziente di avventarsi sulla preda, si agita e freme, e coi suoi minacciosi ruggiti fa tremare il mondo, è voce del Cielo, la quale vi avvisa che l’ora di agire è suonata, che indarno vi lusingate di poter salvare voi, i vostri figli e le cose vostre, senza opporre un argine sicuro all’irrompente fiumana. E quale sarà quest’argine se non una lega generale e compatta di tutti i figli del popolo educati alla scuola dell’Evangelo? (...).

Associazione ed azione cattolica: ecco la caratteristica dei veri figli della Chiesa ai tempi nostri; associazione ed azione, che abbiano per scopo di secondare in tutto i desideri del Vicario di Gesù Cristo, di ridonare alla Chiesa e al suo Capo augusto la necessaria libertà, all’Italia la grandezza, la prosperità e la pace, col ritornare cristiane le famiglie, cristiani i comuni, cristiane le scuole, cristiane le leggi, cristiano il popolo, cristiani soprattutto gli operai (...).

A conseguire più facilmente lo scopo giovano mirabilmente i Comitati Parrocchiali, che Noi vi abbiamo altre volte raccomandati, e sui quali torniamo ad insistere di nuovo. Oh, di quanto bene sono essi fecondi! Sia vostra somma premura lo stabilirli nelle Parrocchie, sia vostro proposito il prendervi parte. Non può fallire la benedizione di Dio alle istituzioni benedette dal suo Vicario!

Uniamoci, uniamoci. A che non si riuscirebbe quando si mettessero tutti assieme, tutti d’accordo, quanti italiani hanno conservato la fede?

Oh, se in tutta Italia sorgeranno i Comitati Parrocchiali, ed invece di due sole migliaia, che già se ne contano, ve ne fossero ben dieci mila, quante si calcolano essere le Parrocchie tutte, chi può dubitare della grandezza dei risultati che se ne otterrebbero a pro della Religione e della Patria?4.

 

“Escono i cattolici dal loro ritiro”

 

Escono i cattolici dal loro ritiro serrati in numerose falangi, levano in faccia al sole splendide e riverite le loro bandiere, discutono, propongono, risolvono, combattono, lavorano.

E questo soffio animatore è penetrato, grazie a Dio, anche fra noi. Ancora non è spento l’eco  delle voci che risuonarono nei fraterni convegni di Alseno, di Bedonia, di Chiaravalle. Abbiamo veduto in poco tempo, grazie allo zelo di parroci zelantissimi, sorgere parecchi Comitati cattolici. Abbiamo oramai Circoli della gioventù, Oratori festivi, Società operaie, istituzioni di credito anche noi.

Ma tutto questo, diciamolo subito e diciamolo chiaro, è ben poca cosa di fronte al bisogno dell’ora presente5.

 

“Bisogna che il sacerdote esca dal tempio”

 

Noi dobbiamo ben persuaderci che oggi non basta più quello che bastava una volta. A nuovi tempi, nuove industrie; a nuove piaghe, nuovi rimedi; a nuove arti di guerra, nuovi sistema di difesa. Oggi, come vi dissi altra volta, bisogna proprio che il sacerdote, e il parroco specialmente, esca dal tempio, se vuol esercitare un’azione salutare nel tempio. Però intendiamoci: esca dal tempio, ma dopo aver attinto dalla pietà  e dalla preghiera lume e conforto; esca dal tempio, ma al tempio tenendo sempre rivolto lo sguardo; esca dal tempio, ma come esce il sole dal suo padiglione, splendido della luce di Dio e del fuoco della carità che illumina, riscalda, feconda. (…).

Non odio, o passione, o zelo acre, o inconsulto eccitamento deve erompere dall’anima e dal cuore nostro sacerdotale contro gli uomini, ma la carità che soffre, geme e si attrista sulla colpa commessa dall’uomo e che l’uomo travolge a rovina (…).

È con questi sentimenti, o miei venerabili fratelli, che entrar dobbiamo nel campo dell’azione cattolica. Dobbiamo entrarvi, ripeto, essendo questo oggi compito principalmente, essenzialmente nostro. Chi giudicasse altrimenti, darebbe prova di grande leggerezza e di poca riflessione, per non dire di poca fede.

Non c’illudiamo: se non faremo noi, faranno altri senza di noi e contro di noi. Ci si accusi pure di fini secondi e di scopi mondani. L’accusa, prima che a noi, fu fatta a Gesù Cristo il quale, per quanto insegnasse di rendere a Cesare quello che era di Cesare, tanto fu chiamato seduttore di plebi. Compiere il proprio dovere e stare in pace con tutti è impossibile, persuadiamocene6.

 

“Vi raccomando, quanto so e posso, la gioventù”

 

Soprattutto vi raccomando di nuovo, quanto so e posso, la gioventù.

Allora che con ogni amorevole attenzione e sollecita cura voi avete ammesso i fanciulli alla prima Comunione, avete adempiuto certamente un grave dovere, ma non finisce qui la missione di un parroco, anzi è di qui che incomincia a divenire più grave, perché è di qui che le passioni incominciano a svegliarsi nel cuore del giovane, è di qui che gli errori, i pregiudizi, gli scandali, le seduzioni del mondo incominciano a mettere la virtù di lui a duro cimento. Oh, guai, se il parroco fosse così trascurato e senza cuore, da lasciarlo in balia di se stesso!

Bisogna stargli, per quanto è possibile, al fianco, bisogna illuminarlo, sostenerlo, incoraggiarlo, spronarlo al bene, tenendolo soavemente unito alla Chiesa e alle pratiche religiose.

Il mezzo più facile è quello d’istituire, accanto ad Comitato parrocchiale, la Sezione Giovani. Parecchi, anche tra noi, già ne han fatto la prova e con esito felicissimo. Vi esorto tutti ad imitarne l’esempio.

Dovrete incontrare perciò qualche fatica, ma sarete compensati da grandi consolazioni. Se no, per tacer d’altro, come alimentare da indi innanzi lo stesso Comitato e le altre cattoliche associazioni, pur tanto necessarie?

A mantenerle, come dissi, fiorenti ed operose, gioverà moltissimo che ogni Vicario Foraneo deputi qualche idoneo sacerdote a tener loro, alcuna volta fra l’anno, conferenze familiari, percorrendo le varie parrocchie del Vicariato. Meglio, se volesse questo impegno assumerlo il Vicario Foraneo stesso7.

 

“Dipendenza dai Pastori”

 

Perché la nostra azione sia e possa dirsi veramente cattolica, ricordiamoci di procedere, in tutto e sempre, disciplinati. Non presumano i soldati di andare avanti ai capitani. Nel campo nostro, specialmente, la disciplina è tutto. Senza la disciplina, senza cioè la dipendenza piena, rigorosa, costante dei fedeli dai loro Pastori, il facile soverchiamento dello zelo individuale ingenera malcontento e discordia, divide e fiacca le buone volontà, svia e disgusta i migliori e inquina del veleno dissolvente dell’amor proprio tanto le ragioni del comandare che quelle dell’obbedire8.

 

“Stretta dipendenza del principio gerarchico”

 

Intendo che nulla si operi se non nella più stretta dipendenza dal principio gerarchico. Il laicato cattolico, se vuol essere strumento di salvezza tra le mani di Dio, deve tenersi al suo posto. Egli nella Chiesa non è capitano, ma soldato; non è maestro, ma discepolo; non è pastore, ma pecorella, e i suoi occhi devono esser fissi sui Vescovi e massimamente sul Vescovo dei Vescovi, il Romano Pontefice, in nessun altro. Non conosciamo Paolino, ignoriamo Melezio, non vogliamo né i se né i ma; né eccezioni, né riserve, né sottintesi di sorte alcuna. Dio non benedice mai ad opere che non siano prima benedette dai suoi legittimi rappresentanti. Un comitato parrocchiale che agisse contro o senza il beneplacito del suo parroco, un comitato diocesano che si permettesse di prendere la minima iniziativa, o tentasse il minimo atto indipendentemente dal proprio Vescovo, cesserebbe con ciò stesso di esser cattolico e si avrebbe immediatamente la nostra condanna9

 

 

“217 Comitati parrocchiali”

 

Consigliato dall’Egregio Conte Paganuzzi e persuaso di fan cosa gradita a Vostra Santità, vengo a darVi in breve notizia della IV Adunanza Regionale dei Cattolici dell’Emilia, tenutasi qui, sotto la mia presidenza, nei giorni 14 e 15 giugno corr.

L’adunanza, e per l’intervento di quasi tutti i Vescovi della regione e per numeroso concorso di clero e di popolo, non poteva riuscire più solenne.

In seguito alla mia Lettera Pastorale 16 Ottobre 1896 (di cui ardisco ora umiliarvi copia), si sono costituiti in questa mia Diocesi, oltre le Sezioni Giovani, le Società Operaie, ecc., ben duecento diciassette Comitati parrocchiali e tutti erano in quell’Adunanza largamente rappresentati. Eravi pure rappresentato, assai largamente, il ceto ecclesiastico della città e della Diocesi, in questo, come in tutto il resto, veramente esemplare e degno di ogni encomio.

Tutto procedette con serena calma e col massimo ordine. Le deliberazioni prese intorno alla Organizzazione Cattolica, alla Buona Stampa, alle elezioni amministrative e politiche, alla fondazione e all’incremento delle Casse Rurali ecc. ecc. furono sommamente pratiche ed opportune, e, ciò che più importa, informate a quello spirito di schietta sommessione ai vescovi che, oggi specialmente, è tanto necessaria e che tanto sta a cuore a Vostra Santità10

 


 

2. LA “QUESTIONE OPERAIA”

 

L’avvento del socialismo ateo e anarchico fa tremare Chiesa e Stato: ma è «voce di Dio»!

Al socialismo ateo si faccia fronte con l’azione sociale cristiana, anziché con una sterile condanna, che colpirebbe anche i «giusti postulati»  del socialismo.

Alla propaganda marxista, che alletta le masse lavoratrici, si deve contrapporre la conoscenza dei problemi sociali e delle implicazioni morali e religiose che ne derivano, e porre in atto iniziative rispondenti alle reali e legittime esigenze dei contadini, degli operai, dei proletari. È un’opera di giustizia e di rivendicazione sociale, ispirata dalla carità, da realizzarsi nella concordia di tutte le classi. Salvare la classe operaia è salvare il popolo.

 

 

“Le cause che fecero sorgere il socialismo”

 

Da tempo la società è in preda a forze anarchiche. Scossa ogni autorità, rallentati i vincoli sociali e familiari, negati, derisi o negletti i principii religiosi, che santificano le sofferenze umane, la vita sociale va diventando ogni dì più una selva selvaggia, nella quale ciascuno si muove per suo conto e per suo interesse e il bene dell’uno forma il male e la privazione dell’altro, esplicando così e attuando il ferino programma contenuto nella sentenza del filosofo scozzese: Homo homini lupus.

Di qui la febbre dei subiti guadagni, di qui l’affannosa conquista del potere, di qui appunto quell’invidia del bene altrui che diventa sprone al soppiantare, all’ingannare, al truffare, a quel rompere di ogni freno e sopprimere di ogni ostacolo che si frapponga ai desiderii ed ai godimenti individuali, meta unica di una società atea e materialista.

E a questi mali grandissimi si è aggiunto, e si è andato di anno in anno aggravando l’aculeo del disagio economico, pungente per tutti, insopportabile per il popolo, al quale la perdita dei conforti della fede e della speranza cristiana, e la conquista di nuovi diritti e della coscienza della propria forza, fanno sentire più vivamente l’inopia in cui vive e lo rendono credulo e ardente neofita di ogni novità.

A tanto disagio economico e abbassamento morale, aggiungete la potenza del grosso capitale, così forte e smisurata nella presente organizzazione sociale e industriale, da attrarre, senza rischio e senza fatica, una grandissima parte degli utili del lavoro, quasi albero gigantesco che ruba, coi suoi mille tentacoli e colle sue folte ramificazioni, il nutrimento, l’aria e la luce alle piante minori che intristiscono ai suoi piedi, e avrete le cause che fecero sorgere e rafforzarono il socialismo.

Reclutando i suoi proseliti nelle officine, nei campi, nelle università, tra la nobiltà e il popolo, segnatamente fra il popolo, esso in breve giro di anni ha formato un esercito imponente. Tutti gli umili, gli oppressi, i diseredati vi si sentono come attratti per la speranza del meglio, come tutte le anime ribelli e tutti gli impazienti che vogliono ad ogni costo mutare il presente ordine di cose. A loro poi si vanno aggiungendo (e sono forse i più temibili, e certo i più stimabili) come alleati o come affiliati quelli che sentono più viva la pietà verso gl’infelici, più forte e più repellente la nausea della corruzione, che penetra e pervade gli organismi politici e ne attinge i fastigi; e mal possono tollerare, senza protesta, le ingiustizie sociali, l’ozio pasciuto dei pochi e l’inopia dei lavoratori, e, congiunte in un individuo, la ricchezza, la potenza e la indegnità[1].

 

“Esperienza personale”

 

Quello che vi dirò è frutto di esperienza personale. Prima che dai libri, l’ho imparato dalla vista di tante piaghe sociali e di tante miserie, sulle quali per debito sacrosanto versai il balsamo della fede e i soccorsi della carità. Fino dai primi anni di sacerdozio, nei mesi liberi dalle cure dell’insegnamento, esercitai il sacro ministero in varii paesi della diocesi nativa ed ebbi agio di osservare davvicino la vita dei campi nelle sue svariate forme e nei suoi diversi gradi di benessere, i patti colonici e i loro effetti economici e morali.

Passeggiavo fra quei campi ubertosi (proprietà di un ricco signore, noto nei fasti della beneficenza cittadina), fecondati da una popolazione laboriosa, che però contava un tanto per cento di pellagrosi, ed entravo in quelle capanne umide e senza imposte con un vero stringimento di cuore.

Fui altresì parroco, per anni parecchi, in un sobborgo della mia Como. Contavo fra i miei parrocchiani alcune migliaia di operai in seta, tessitori, filatori, tintori. In quegli anni potei vedere pur davvicino la misera condizione degli operai, misera per sé e per le contingenze alle quali può andare soggetta. Come si ripercuoteva in loro ogni crisi politica o finanziaria, anche lontana, che arrestava o rallentava il movimento industriale! Come sentivano essi ogni più piccolo caso della vita! una malattia, per esempio, una disgrazia accidentale, che diminuisse la loro attività giornaliera! E a queste piccole e forzate soste, che toglievano ciascuna un pezzo di pane al povero desco, sopravvenivano di tanto in tanto le grandi crisi industriali, che sospendevano ogni lavoro. In questi casi era la miseria, la fame nello stretto senso della parola, appena mascherata per qualche tempo dal credito del bottegaio o da un anticipazione di salario dell’industriale. E allora era una corsa affannosa degli uomini in cerca di lavoro, delle donne ad invocare sussidi.

Oh, le tristi giornate, quand’io, visitando gli infermi, non sentivo, salendo per quelle povere scale, il suono secco e quasi ritmico del telaio! Tristi sotto ogni rapporto, perché colla miseria entrava spesso il disordine e il disonore nelle famiglie.

E vedendo tutte quelle miserie, e sentendone i lamenti e conoscendo quegli infaticabili industriali, a torto accusati di sfruttare i poveri, e quel ricco proprietario buono e benefico, il quale aveva i suoi campi appestati dalla pellagra, mi pareva che il male non stesse tanto nella volontà degli uomini singoli, quanto nel modo con cui il lavoro era organizzato, e pensavo che sarebbe stato un bene per tutti il poter trovargli condizioni più eque[2].

 

 “I postulati del socialismo”

 

Se il lavoro avvalora il capitale, perché non dovrà avere più larga compartecipazione agli utili, tanto almeno da assicurare al lavoratore vitto sufficiente e sano e sicuro?

Se il lavoro è una legge fisica e un dovere morale, perché non dovrebbe diventare un diritto legale?

Se l’istruzione è un dovere, perché non si lascia il tempo all’operaio di istruirsi, limitando l’età e le ore del lavoro?

Se l’igiene è un obbligo sociale, perché si permettono, senza le dovute cautele, lavori che avvelenano e accorciano la vita?

Perché non si assicura, contro le eventuali disgrazie, la vita del lavoratore, e non si provvede in maniera decorosa alla sua vecchiaia impotente?

Così pensavo io, e così avranno pensato molti di voi, alla vista e al contatto delle miserie sociali.

Orbene, quelle domande, in parte provvidamente già tradotte in leggi per recente lavoro parlamentare, contengono appunto alcuni postulati del socialismo.

Vi è dunque in quei postulati una parte di vero, di giusto, che tutti i buoni debbono accettare e adoperarsi, quanto loro è dato, di attuare, non solo perché il buono e il giusto non mutano natura per esser propugnati pure dai cattivi e accoppiati al male, ma anche per togliere al male stesso e al falso la loro maggior forza di espansione, la quale consiste nell’essere propinato unitamente alla verità e nell’assumere per ciò solo l’aspetto della giustizia.

Non lasciamoci adunque imporre dai nomi e dalle apparenze delle cose.

Esaminiamo con serenità i postulati del socialismo; opponiamo all’azione sua, colla certezza che ci viene dal possesso della verità, l’azione sociale cattolica, e sia essa il farmaco ricostituente della società [3].

 

 

“La questione economica si trasforma in morale, politica e religiosa”

 

Il socialismo moderno è, in sé stesso considerato, una questione economica; pero, com’è di tutte le questioni che debbono applicarsi all’uomo individuo o alla sua collettività, si intreccia con altre e muta natura e forma, poiché l’uomo è una unità, e tutto quanto riguarda tale unità inscindibile, si intreccia, si fonde e si complica in modo da riflettere i moltiformi aspetti sotto cui ci si può presentare l’uomo stesso.

Così è della questione sociale. Economica nella sua essenza, si trasforma in morale, politica e religiosa nelle sue immediate conseguenze.

Infatti, la formola comune del socialismo, del comunismo e del collettivismo, le tre principali sette nelle quali si dividono i socialisti, è: tutto ciò che produce la ricchezza (cioè capitale, terre, strumenti di lavoro) è proprietà dello Stato il quale ne distribuisce i frutti, secondo gli uni con perfetta uguaglianza, secondo altri a norma dei bisogni di ciascuno.

Ora questa formola sociale, per potersi attuare, deve ferire l’umanità nei suoi più intimi e sostanziali costitutivi e nei suoi affetti più cari, quali sono appunto la religione, la famiglia e la libertà individuale.

Il socialismo moderno infatti, quantunque essenzialmente economico, per quella stretta connessione che vi è tra tutte le questioni teorico-pratiche riguardanti l’uomo, non può prescindere dalla religione.

Ben è vero che i socialisti, sia per indifferenza reale, sia per tattica, non parlano di religione mai o quasi mai, e non di rado invocano l’esempio di Gesù Cristo e dei primi cristiani come precursore il primo e praticanti i secondi delle loro dottrine. Ma tutto questo non deve lasciarci trarre in inganno sui loro sentimenti verso la religione. La loro provenienza rivoluzionaria, il loro fondamento scientifico affatto materialista, li fanno intrinsecamente irreligiosi.

Ni Dieu ni maître, aveva scritto Blanqui in testa al suo giornale, e questi due concetti informano di sé tutto il socialismo[4].

 

 

“Rilevare le cause e trovare gli opportuni rimedi”

 

Lo stato presente della questione sociale e il progressivo diffondersi nella città, nelle borgate, fra i campi, delle idee o prettamente socialiste o affini, deve rendere più attiva e più adeguata al bisogno l’opera vostra anche nel campo sociale.

Ora un tale lavoro, perché riesca veramente efficace e non inasprisca il male che si vuole curare, richiede più che altro prudenza, serenità di spirito, equanimità di giudizio, e misurata conoscenza e coscienza di ciò che si deve combattere, come di quello che è giusto concedere.

Ringiovanite pertanto i vostri studi, fratelli carissimi, e mettetevi in grado di confutare (parlando il loro stesso linguaggio) i sofismi di cui libri, giornali e conferenzieri di propaganda socialista vanno imbevendo le menti degli operai e dei contadini.

Io volli darvene l’esempio con questi ammonimenti che debbono essere per voi un incitamento e un indice.

E siccome non è tutto male quello che dicono i socialisti, e io ve l’ho dimostrato, e l’efficacia della loro propaganda sta appunto nella constatazione di un fatto doloroso, cioè nella invadente miseria dei più, in mezzo a un vero rigoglio di produzioni agrarie e industriali che farebbero supporre un’aumentata ricchezza, così voi dovete porre ogni opera vostra nel rilevare le cause di questo fatto e nel trovare gli opportuni rimedi, accettando e consigliando i più pratici, senza por mente da chi escogitati o propugnati.

Dimostrerete così in effetto, che quel tanto di veramente bene che c’è nel socialismo è conforme alle massime evangeliche ed è attuabile, anche senza la distruzione della società, o veramente è inutile, o sproporzionato al fine che si propone[5].

 

“Forme moderne di fare il bene al prossimo”

 

Dedicate poi ogni vostra cura alle società varie di forma e di intenti che fioriscono fra noi, poiché lo spirito di associazione aumenta e stringe i vincoli di fratellanza umana, supplisce alla debolezza degli individui e ripara i colpi improvvisi della sventura: Il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata. Lungi pertanto dal contrariare questo nuovo spirito di associazione che si spande e penetra ovunque, continuate a secondarlo, e fate il possibile per indirizzarlo sulla retta via, quando la inesperienza o i cattivi consiglieri tentino di deviarlo.

Benedite  altresì tutte le opere di previdenza e di mutuo soccorso, e fatevene propugnatori. Il mutuo soccorso e la previdenza sono due forme moderne di fare il bene al prossimo, che riuniscono ad un’ora i vantaggi della carità e quelli della educazione, in quanto che facendo partecipi dell’atto benefico i beneficandi, li avvezzano a pensare all’avvenire, ad essere provvidenti e previdenti.

Una delle piaghe delle campagne è l’usura esercitata sotto forma di anticipazioni di generi alimentari, di sementi, di denaro per la compera del bestiame, e andate dicendo. Il sovventore viene retribuito o con un interesse fisso molto largo, o in forma per lui più proficua con una data quantità di prodotti.

Ora il buono e il meglio dei profitti dei poveri coloni va ad impinguare tali sovventori, e chi è costretto dalla necessità o da una disgrazia di ricorrere ad essi, vede in poco d’ora sfumare i suoi magri proventi e difficilmente si mette in condizioni di rifarsi e di equilibrare il suo povero bilancio.

Contro un tale stato di cose sono efficace rimedio le società cooperative di produzione, di consumo e di mutua assicurazione, sperimentate già con felice risultato in Italia e fuori, e più di tutto le Banche cattoliche e le Casse rurali che forniscono ai piccoli agricoltori il capitaletto occorrente ad un equo interesse.

Consigliate tali istituzioni e favoritele a più potere ove esistono, e incoraggiate le persone dabbene e intelligenti, poiché, come osservò con giustezza Mons. De Ketteler, l’illustre vescovo di Magonza (che primo studiò, dal punto di vista cattolico, la questione operaia), in altri tempi i signori dotavano la Chiesa di conventi e di pubbliche istituzioni di carità, oggi farebbero cosa a Dio più gradita, mettendosi a capo di associazioni operaie, di produzioni, di cooperazioni e di consumo per migliorare le condizioni degli operai, poiché in sostanza l’opera di beneficenza è opera di carità[6].

 

 

“Ho istituito nei seminari Cattedre agricole”

 

«Ho istituito nei seminari Cattedre agricole»

 

Alcuni di voi sono già intervenuti per appianare le divergenze non infrequenti tra padroni e contadini, e io stesso con voi nelle visite pastorali mi sono adoperato per far sparire usi e oneri di altri tempi.

Continuate su quella via con prudente fermezza e non permettete, per quanto è in voi, che abusi e immoralità vengano a rendere più gravosa e dolorosa la vita dei lavoratori e dei poveri.

Altri vantaggi voi potete procurare ai coloni, studiando per loro conto i nuovi ritrovati e sistemi agricoli che aumentano di molto, quasi senza spesa e senza maggior fatica, i prodotti dei campi (...).

In questo ventennio ho visto molte proprietà parrocchiali, per l’addietro quasi incolte, trasformate in vigneti e campi ubertosi per lodevole iniziativa dei parroci, e, sul loro esempio, intieri territori vivificati e fecondati da un lavoro più intenso e più razionale. Vorrei che quello che fu opera di pochi, fosse per l’avvenire di tutti. A questo fine ho istituito, fra le altre, nei Seminari diocesani, Cattedre agricole, perché possano fornire al giovane clero quelle cognizioni che li metteranno in grado di impartire alle popolazioni, che verranno loro un dì affidate, insieme al pane dell’anima quello del corpo. Intanto non sarà difficile, per chiunque lo voglia, di apprendere dai libri quelle poche cognizioni che occorrono per dare ai contadini, troppo spesso attaccati alle vecchie abitudini, gli opportuni suggerimenti e le indicazioni pratiche, facili a intendersi e ad applicarsi, e che pure sono il risultato di lunghi studi e di esperienze costose. Utilissime a questo scopo anche le Conferenze agrarie, ed io vivamente le raccomando[7].

 

 

«Fate opera di rivendicazione sociale»

 

Vi ho accennato così sommariamente alcuni dei bisogni economici delle nostre campagne e i rimedi relativi, sperimentati buoni in più di un luogo; ma il male è multiforme e i rimedi debbono essere adattati e modificati a seconda dei tempi, dei luoghi, delle persone e applicati sempre con grande prudenza, né mai con fini partigiani. Non dovete dimenticare mai di essere i padri spirituali di tutte le anime affidate alle vostre cure, e il vostro intervento in affari fuori di chiesa, e che voi giudicate di pubblica utilità, non deve rinfocolare ire o partiti, ma unire tutti nel santo pensiero di operare il bene a pro dei miseri.

Postulati del socialismo moderno sono pure i seguenti: limitazione della giornata di lavoro, il minimo delle mercedi ai lavoratori fissato per legge, il diritto di lavoro, il diritto di sciopero e andate dicendo. Ora tutti questi postulati, presi in sé astrattamente, sono buoni  e non contraddicono punto né alle leggi divine, né alle umane. Sono della stessa natura di quelli sui probiviri, sulla pensione agli operai impotenti, sul riordinamento del lavoro per le donne e i fanciulli, sull’igiene negli opifici, che furono già tradotti in leggi anche da noi e che non mancheranno di dare ottimi frutti (…).

L’azione vostra però, o miei amati cooperatori, sarà più utile e più pratica, applicata non ai quesiti di indole generale, ma ai particolari e locali che avete giornalmente sott’occhi; dando cioé l’opera vostra e il vostro consiglio in sollievo della miseria, cooperando a togliere abusi e ingiustizie, insegnando agli ignari molte cose utili e belle, senza stancarvi mai (…).

Il male che affligge la società non è, come dicono i socialisti, puramente economico, ma è anche morale, anzi sopratutto morale, e non consiste soltanto nella organizzazione sociale, ma anche e più negli individui.

Voi pertanto, o miei amati parroci, richiamando gli individui alla osservanza della carità evangelica e dei precetti della religione, fate opera di rivendicazione sociale, poiché la salute della società sta in prima nella rigenerazione religiosa e morale degli individui; il resto verrà da sé[8].

 

 

«Mirabile Enciclica»

 

Ministro di pace fra i popoli e Vicario di un Dio d’amore, che si fece padre dei miseri e dei derelitti, il Papa ha per questi, senza distinzione di razze, di costumi, di religione, le cure più affettuose, le sollecitudini più delicate, perché in essi è maggiore il bisogno di soccorso e di protezione.

Tali purtroppo sono al presente le classi operaie. Prezioso strumento nelle altrui mani, potente fattore delle altrui ricchezze, l’operaio manca talvolta ai dì nostri del necessario per vivere, e, mentre lo sviluppo commerciale e industriale di un popolo, il benessere economico di una nazione è, per metà almeno, frutto del suo lavoro, esso a questo benessere non è chiamato a partecipare. Di qui quel vivo antagonismo tra i proprietari e i proletari, quel minaccioso malcontento delle classi lavoratrici, aizzate nei circoli internazionali dalle passioni politiche, che oggi si traduce in parziali ribellioni ed in scioperi, ma che potrebbe da un momento all’altro divampare in vasto incendio (...).

Il Papa definisce nettamente quali siano in questa questione le diverse responsabilità; denunzia le rovinose dottrine in proposito, addita i mezzi che vanno applicati. Tentare di riassumere questo stupendo tra gli stupendi documenti della sapienza e della carità dell’attuale Pontefice io non ardisco: Leone XIII non si restringe a predicare la carità ai ricchi, la rassegnazione agli operai. Nella sua mirabile Enciclica vi è qualche cosa di più. Col penetrante suo sguardo Egli ha, dissero altri, approfondita la questione operaia, ed ha veduto che se in questa classe ribolle il fremito della rivolta, non è tutta sua la colpa. L’ingiustizia nelle legislazioni, l’avidità dei guadagni, han fatto dell’operaio uno schiavo del lavoro, lottante col presente, sfiduciato dell’avvenire, logorantesi le forze e la vita per procacciarsi un pane che neppure è sufficiente a sfamarlo[9].

 

 

«È un’opera di giustizia che conviene iniziare»

 

Il fanciullo, curvato fin dai primi anni sotto la fatica, vien su triste e sfinito; la donna, occupata dalle prime ore del mattino fino a tarda ora di sera, non trova più tempo di dare le sue cure alla povera famigliuola, che perché cresce senza affetti e senza moralità. È dunque un’opera di giustizia che conviene iniziare se si vuol restituire la fiducia e con la fiducia la tranquillità nella classe operaia. Se gli operai hanno dei doveri, hanno altresì dei diritti, e questi diritti conviene che la società li tuteli ad essi, se non si vuole che abbiano a tutelarsi essi stessi con la violenza (...).

Doverosa missione dei cattolici è quella di studiare la questione sociale e di vivamente interessarsene. Lo stesso Santo Padre, non affralito né dall’età, né dalla diuturnità della lotta, ce ne offre l’esempio.

È un nuovo campo che Egli addita allo zelo ed alla attività dei suoi figli. Si tratta di fare l’opposto di ciò che fa la rivoluzione. Questa diede opera a staccare le moltitudini, e massime gli operai, dalla Chiesa: bisogna ora alla Chiesa riavvicinarli. Bisogna, ripeto, ritemprare le menti ed i cuori alle grandi verità del Vangelo.

Qui unicamente, vogliasi o no, è il rimedio ai mali presenti, ed il preservativo a quelli più tremendi che ci minacciano. Avanti pure colle macchine, colle industrie, colle scoperte, colle conquiste della scienza.

Che a prezzo di lunghe fatiche l’uomo progredisca, che cerchi di migliorare dappertutto, e sotto tutte le forme, la condizione della propria esistenza, sta bene. Io ne esulto e di gran cuore, perché tutto questo, infine, non riesce che a glorificazione dell’opera di Dio[10].

 

 

«Missione di pace e di rigenerazione sociale»

 

Ciò che domandiamo noi uomini di Chiesa è che il Vangelo sia chiamato a dirigere coteste trasformazioni economiche ed industriali, che la pratica sincera della sua legge purifichi e nobiliti i materiali progressi, di modo che non fomentino nelle varie classi gli istinti brutali e non diventino così motivi di discordie e di lotte fratricide.

E spetta precisamente a noi uomini di Chiesa questa missione di pace e di rigenerazione sociale, a noi più che ad altri, come quelli che ne abbiamo da Dio i mezzi ed il mandato. Io vorrei che la intendessero tutti i membri del mio clero. Ai nostri giorni è quasi impossibile ricondurre la classe operaia alla Chiesa, se non manteniamo con essa relazione continua fuori della Chiesa. Dobbiamo uscire dal tempio, o Venerabili Fratelli, se vogliamo esercitare un’azione salutare nel tempio. E dobbiamo altresì essere uomini del nostro tempo. Certe forme di propaganda nuove, o meglio rinnovate, che si adoperano con fortuna dagli avversari, non debbono spaventarci. Dobbiamo vivere della vita del popolo, avvicinandoci a lui colla stampa, colle associazioni, coi Comitati, con società di mutuo soccorso, con pubbliche Conferenze, coi Congressi, coi circoli operai, coi patronati per fanciulli, con ogni opera di beneficenza privata e pubblica.

Combattiamone con vivo ardore i pregiudizi, ma con altrettanto calore sosteniamone gli interessi ed assecondiamone le aspirazioni legittime, guardando però bene dal pascerlo di illusioni, e tanto più dall’eccitarlo al disprezzo delle classi abbienti o dirigenti. Studiamoci anzi di riavvicinare il più possibile coteste classi e di renderle amiche. Sull’esempio dei cattolici di altre nazioni facciamoci padroni dell’odierno movimento, mettendoci alla testa operando, non tenendoci a parte brontolando.

Miei cari, il mondo cammina e noi non dobbiamo restare addietro per qualche difficoltà di formalismo o dettame di prudenza malintesa. Se non si farà con noi, si farà senza di noi e contro di noi: ricordiamolo[11].

 

 

«La concordia di tutte le classi»

 

Miei dilettissimi Piacentini,

E’ col più vivo dolore che io vi indirizzo questa volta la parola.

L’affetto sincero e profondo che mi lega a tutti voi e che in ventitré anni di vita episcopale, nelle vicende ora liete ed ora tristi, non si è rallentato mai, mi dà il diritto di parlarvi come padre ai propri figli.

Ho pianto e pregato per tutti voi in questi giorni; e così mi fosse dato di avvicinarmi a ciascuno, di sovvenirvi nei vostri bisogni, di confortarvi colla parola della speranza e della fede e di ridare ai vostri spiriti la calma che le sofferenze e la eccitazione del momento vi hanno fatto perdere!

Il disagio economico, il rincaro dei viveri, la mancanza dei lavori, vi hanno tolto a quella abituale serenità di vita che è sempre stato vanto della città nostra: e in quei mali avete una scusa.

Ma ora che le vostre domande furono appagate, che le Autorità municipali e politiche hanno fatto quanto era possibile per sovvenire alle più urgenti necessità, e maggiori agevolezze vi promettono per l’avvenire, ora ogni ulteriore resistenza non farebbe che aumentare i mali già troppo gravi e le vittime già troppo numerose.

Miei cari figli! Pensate alle dolorose conseguenze di una lotta cittadina: pensate ai caduti e ai feriti: alle famiglie prive per tanti modi dei loro cari; e tornate, ve ne scongiuro in nome di Dio, alla calma.

La concordia di tutte le classi dei cittadini è il mezzo più sicuro per rimediare a una condizione di cose che tutti concordemente deploriamo.

Nell’amarezza dell’ora presente mi conforta il pensiero che la parola del vostro Pastore, che non vi fu mai sgradita, trovi anche questa volta la via dei vostri cuori e li ricomponga in pace[12].

 

 

«L’Opera pro Mondariso»

 

Nella memoranda adunanza delle Cattoliche Associazioni tenuta in Vescovado il giorno 4 Luglio p.p. io, quasi a perenne ricordo, proposi, assenziente il mio venerato e zelantissimo Confratello di Bobbio, la costituzione di un Comitato, il quale avesse per iscopo l’assistenza dei giovanetti e delle giovanette che in alcuni mesi dell’anno, spinti per lo più dalla miseria, emigrano a torme dalla Diocesi nostra e si recano alle pianure piemontesi e lombarde per la raccolta e mondatura dei risi.

La proposta venne accolta con plauso generale; e persone meritevoli d’ogni encomio, sia della Diocesi piacentina, sia delle limitrofe di Bobbio, Lodi e Pavia, risposero pronte e volonterose alla chiamata.

Si tratta, come ognuno vede, di un’opera di carità insigne e della massima importanza. Molti e gravissimi infatti sono i pericoli e i mali a cui vanno incontro quei poveretti; pericoli e mali morali e fisici, facili ad immaginarsi.

Urge pensare al rimedio; urge provvedere perché non abbiano i miseri a cadere vittime d’ingordi speculatori, perché sieno premuniti contro le insidie tese alla loro fede, perché abbiano tempo e modo di santificare il giorno festivo, perché la loro moralità sia tutelata, perché vengano meglio retribuite le loro fatiche, perché insomma lontani dalla famiglia trovino difesa, protezione, conforto.

A conseguire il nobilissimo intento bisogna anzitutto conoscere quanti siano in ciascuna parrocchia i giovanetti e le giovanette che si trovano nell’accennata condizione.

Favorirà pertanto la S.V. di completare, con la maggiore diligenza possibile, l’unito foglio e di trasmetterlo sottoscritto a me[13]..

 


 

3. LA “QUESTIONE ROMANA”

 

La conciliazione tra «lavoro e capitale, libertà e autorità, uguaglianza e ordine» deve essere operata anche tra la Chiesa e lo Stato.

L’uomo ha il diritto e il dovere di amare la religione e la patria. Il conflitto tra i due sentimenti provoca gravissimi danni alla religione e inquietanti problemi di coscienza. Il «funesto dissidio» deve cessare al più presto, «a bene soprattutto delle anime».

L’usurpazione di diritti legittimi deve essere condannata, l’usurpatore deve riparare, la libertà del Papa deve essere restituita integralmente. Ma in un regime parlamentare non si può sperare dallo Stato riparazione e sanazione, se nel Parlamento non entrano uomini onesti e retti, che abbiano a cuore il vero interesse del popolo e lo rappresentino nella sua identità di popolo tradizionalmente e culturalmente cattolico. Sognare una restaurazione miracolosa è antistorico; invocarla da estranei sarebbe fatale.

Solo la partecipazione dei cattolici alla vita politica della nazione può preparare la conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia e rimuovere gli ostacoli politici alla libertà dell’evangelizzazione. La ricristianizzazione è l’unico movente dell’atteggiamento di Mons. Scalabrini nei confronti delle questioni politiche e sociali dell’epoca.

 

 

 

a) LE RAGIONI PROFONDE DEL CONCILIATORISMO

 

«La ragione riconciliata con la fede, la natura con la grazia»

 

Iddio lo vuole! (...) Vuole la ragione riconciliata con la fede, la natura con la grazia, la terra col Cielo, l’opera delle creature coi diritti del Creatore. Vuole che lavoro e capitale, libertà e autorità, uguaglianza e ordine, fraternità e paternità, conservazione e progresso si chiamino e si aiutino anch’essi come contrapposti armoniosi. Vuole che tutti gli elementi della civiltà, scienze, lettere, arti, industrie, ogni interesse legittimo, ogni legittima aspirazione, abbiano nella religione, nella Chiesa, nel Papato, impulso, norme, soccorso, elevazione, consacrazione divina[14].

 

 

«Religione e patria!»

 

La patria terrena e la patria celeste. Oh, si, amiamo la prima. Essa è un dono di Dio. L’amarla, il procurarne la prosperità e la grandezza entra nel sublime precetto della carità ingiunta dal Vangelo, ma per amarla davvero associamo al suo amore l’amore della Religione che ci guida alla patria eterna.

Religione e patria! Questi due supremi amori dei nostri avi, queste due aspirazioni di ogni cuore gentile, debbono, come figlie dello stesso padre, darsi il bacio di pace, debbono amarsi ed aiutarsi a vicenda: quod Deus conjunxit homo non separet[15].

 

 

«L’Italia sinceramente riconciliata con la Sede Apostolica»

 

Religione e Patria: queste due supreme aspirazioni di ogni anima gentile, si intrecciano e si completano in quest’opera d’amore e di redenzione che è la protezione del debole e si fondono in un mirabile accordo. Le miserabili barriere elevate dall’odio e dall’ira scompaiono, tutte le braccia si stringono calde d’affetto, le labbra si atteggiano al sorriso e al bacio, e tolta ogni distinzione di classe o di partito, appare in essa bella di cristiano splendore la sentenza: Homo homini frater (...). Possa l’Italia sinceramente riconciliata con la Sede Apostolica emulare le antiche sue glorie, ed un’altra aggiungerne imperitura, avviando sui luminosi sentieri della civiltà e del progresso anche i suoi figli lontani[16].

 

 

«Santissimi amori l’amore di religione e l’amore di patria»

 

Dopo il malgoverno che della misera patria nostra hanno fatto coloro, i quali si usurparono il privilegio di chiamarsene amanti, ci vorrebbe davvero una buona dose di sfacciataggine per appellare nemici del paese noi, che ci siamo opposti a tutte le angherie, ai soprusi, alle iniquità, alle spogliazioni, ai delitti, onde fu condotto allo Stato della presente inopia. Sono accuse ridicole queste. Noi sentiamo di meritare tanto più il nome di buoni italiani, quanto meno ci siamo immischiati nelle gesta di chi ha tradito e rovinato l’Italia.

Del resto, santissimi amori l’amore di religione e l’amore di patria.

Sono due grandi e nobili ideali. Tutti e due uniti col nostro primo vagito, tutti e due morranno col nostro ultimo respiro. Ma gli slanci generosi dell’uno non devono soffocare le sublimi aspirazioni dell’altro.

La giustizia non può essere spenta dal patriottismo. Le sorti d’una patria, che si deve lasciare, non possono prevalere sui destini immortali che ci attendono, né questi si possono conseguire senza quei mezzi necessari che la società deve prestarci coll’osservare quelle leggi che Dio ha dato agli uomini pel loro bene presente e avvenire[17].

 

 

«La fede sempre più si estingue»

 

Nessuna coerenza di principi, nessuna cognizione dei tempi, nessuna direzione uniforme e sicura. Una confusione, un bizantinismo da non dirsi (...). Intanto la fede sempre più si estingue, la carità sempre più si raffredda e sempre più cresce l’odio del laicato contro il Clero. Le conseguenze non possono essere che fatali e chi sa per quanto tempo dovremo subirle[18].

 

 

«Una febbre tormentosa»

 

Mi è però rimasta addosso un’altra febbre ed è quella che proviene dal vedere come tanti e tanti si vanno allontanando dalla Chiesa per opera di chi non dovrebbe studiare che di avvicinarneli. Voi sapete quanto questa febbre sia tormentosa (...). Curiosa davvero! I cattolici devono starsene fuori del Parlamento e poi si promuovono e si caldeggiano petizioni da indirizzare al Parlamento! Sarà coerenza questa, io non la comprendo[19].

 

 

«Tranquillizzare la coscienza»

 

Comprendo benissimo, Padre Santo, tutta la difficoltà della cosa, pur tuttavia prego Iddio e lo scongiuro che conceda alla Santità Vostra il lume e la forza necessari per approfittare del momento e di non permettere che abbiate a lasciarvi sfuggire l’occasione che vi si offre ora, naturalissima, di far ciò che presto o tardi dovrà pur farsi, e di tranquillizzare la coscienza di tanti poveri operai, contadini, impiegati, la coscienza vale a dire di tutti coloro, i quali per ragione della condizione loro si troveranno, dirò così, obbligati a trasgredire il divieto della S. Sede, divieto ch’io non so come potrebbe di nuovo pubblicarsi, nell’attuale stato di cose, senza togliere i più da quella buona fede che li rende scusabili in faccia a Dio e senza incontrare molestie d’ogni sorta da parte del potere civile. Taccio che questa, umanamente parlando, è l’unica via che ancora rimare per rivendicare con qualche speranza di riuscita i Sacrosanti diritti della Chiesa e della S. Sede Apostolica[20].

 

 

«Bramiamo veder cessato il funesto dissidio, a bene soprattutto delle anime»

 

Né solamente, Padre Beatissimo, Voi parlate di pace, ma additate inoltre all’Italia i mezzi sicuri per conseguirla. Infatti premettendo Voi che la Chiesa Cattolica, società perfetta e giuridica, la quale ha in se stessa la virtù di rendere felici i popoli e le nazioni di tutti i tempi, non deve sottostare ad alcuna terrena podestà, ma godere della libertà più assoluta, bene a ragione ne deducete che eguale indipendenza e libertà deve godere il supremo suo Reggitore, il Vicario di G. C., il successore legittimo del Principe degli Apostoli.

Tolta questa indipendenza e questa libertà Voi ci insegnate che l’azione della Chiesa viene inceppata in modo da non potere esercitare nel mondo la sublime sua missione, missione di santità, di scienza, di carità; e con accento che dagli occhi ci spreme le lagrime, proclamate, che a questi tempi siete più che in poter Vostro, in potere degli altri: Verius in aliena potestate sumus quam nostra.

Ne soffrite Voi, Beatissimo Padre, e ne soffrono ahi quanti vostri figli! Ma non ne soffre meno l’Italia, questa primogenita delle nazioni, che Voi amate a buon diritto di un amore tutto particolare.

Ad essa infatti, ecco che Voi, degno rappresentante di Colui che volle esser chiamato Principe della pace, Vi fate incontro, studiandovi con affetto più che paterno, di riconciliarla col Pontificato Romano, sorgente invidiata d’ogni sua grandezza, prima e più pura sua gloria. Tale Vostro pietoso divisamento si parve dalla memoranda Allocuzione Concistoriale del 23 Maggio u.s., e più luminosamente ancora dalla lettera del 15 Giugno successivo diretta all’E.mo Vostro Segretario di Stato.

A questi due gravissimi e splendidi documenti, noi Vescovi della Provincia Ecclesiastica Modenese, insieme a quelli delle Diocesi di Parma, di Piacenza e di Borgo S. Donnino, facciamo ora atto di piena adesione, perché ci sta sommamente a cuore la libertà della Chiesa e del suo Capo augusto, e perché ardentemente bramiamo con Voi, Padre Beatissimo, veder cessato il funesto dissidio, a bene soprattutto delle anime[21].

 

 

 

b) LE RAGIONI STORICHE DELLA QUESTIONE ROMANA

 

«Sta per compiersi il XXV anniversario della occupazione di Roma»

 

Sta per compiersi, come sapete, il XXV anniversario della occupazione di Roma, e quell’avvenimento che tanti guai apportò all’Italia ed è cagione di tanto lutto al mondo cattolico, si vuole celebrare con feste clamorose, nonostante che uomini di provato senno politico le abbiano giudicate inopportune.

Noi quanti siamo cattolici ed italiani le diciamo sconsigliate e dannose, com’è sconsigliato e dannoso tutto ciò che semina la discordia, che fomenta le ire di parte, che rende sempre più vivo il fatale dissidio tra la Chiesa e lo Stato, che scinde le forze del nostro paese.

Pensate qual dolore debba provarne il Papa!

E non ci adopreremo noi per rendergli quel dolore meno amaro? Non siamo noi membri della grande famiglia di cui Egli è il Capo? Non è Egli il padre delle anime nostre? Non è a Lui che dobbiamo tutto nell’ordine spirituale? E nell’ordine stesso materiale, se ben si riflette, di quanti benefizi non andiamo a lui debitori? In tanto scompiglio di idee, in tanta convulsione dell’ordine sociale, guai al civile consorzio, guai a noi se il Papa non fosse!

Cattolici ed italiani, no, non possiamo né dobbiamo rimanerci spettatori indifferenti della guerra che si muove a Lui, e in Lui a ciò che vi è di più glorioso, di più nobile, di più grande nella patria nostra. Oh! è bello dichiaraci per Lui, soffrire e combattere con Lui, allora specialmente che questo Papa si chiama Leone XIII.

Circondiamolo pertanto di sempre maggior affetto; e poiché quello che sta ora in cima ai suoi pensieri è l’unione di tutti i popoli alla sua Cattedra, stabilita da Dio come centro di verità sulla terra, cooperiamo noi pure a questo fine santissimo, prestandogli, noi per i primi, quell’obbedienza alla quale egli ha pieno diritto, a motivo appunto della sua suprema Autorità e del suo Magistero infallibile; obbedienza pronta, ilare, generosa, obbedienza ispirata dall’amore, la sola degna di anime grandi e di nobili cuori; obbedienza intera che unisce i fedeli al loro parroco, i fedeli e il parroco al loro Vescovo, i fedeli, il parroco e il Vescovo al supremo Pastore[22].

 

 

«L’orrendo delitto»

 

Parliamo di quell’orrendo delitto onde fu macchiata la nostra patria nell’infausta notte del 13 Luglio scorso. Vi è spirito bennato che non si sentisse per ciò riempire di orrore insieme e di vergogna?

Un grido d’indignazione si levò tosto in ogni angolo della terra da milioni e milioni di cuori, e Noi pure Ci sentimmo in dovere di umiliare, come abbiam fatto, ai piedi del comun Padre le Nostre proteste e come Vescovo e come italiano, facendoci interpreti anche dei vostri sentimenti, o V.F. e D.F., che tante prove di attaccamento deste sempre all’immortale Pio IX e al suo degnissimo Successore.

Noi vi esortiamo a non volere in ciò darvi requie, ma a voler anzi eccitare sempre più in voi medesimi quello spirito di azione e di sacrificio, di zelo e di coraggio, che è tanto necessario ai dì nostri per la difesa dei sacrosanti diritti della Chiesa e del suo Capo augusto.

Non vale più illuderci. Un cattolicismo speculativo e mentale, una religiosa neutralità, non basta; non è più possibile nella presente società, nella convivenza attuale. Bisogna uscir dall’incognito e manifestarci a viso aperto per quello che siamo, cioè interamente, francamente e sinceramente cattolici. A che tante paure, tanti umani riguardi? (...)

È necessità, è dovere di ciascheduno, opporre alla pubblicità del male, la feconda, la salutare, la santa pubblicità del bene[23].

«Libertà, solo questo la Chiesa domanda»

 

Tutte le forme di Governo la Chiesa accoglie e benedice, perché tutte, dalla monarchica assoluta alla democratica più larga, sono per se stesse egualmente legittime; perché sa troppo bene che la tranquillità degli Stati e il vero benessere dei popoli dipendono, non tanto dalle forme di Governo, quanto dalle qualità degli uomini chiamati ad applicarle; perché essa piglia l’uomo prima che il cittadino, e lo considera prima nelle mani di Dio che in quelle dello Stato.

Pellegrina celeste, ella non solo si accontenta di tutte le varietà civili e terrene, ma le abbraccia altresì e le segue, purché non impediscano la via del Cielo. Ella non vuol essere arbitra delle vicende proprie d’ogni ordinamento sociale, ma prescrive che non si offendano le sue leggi, che non si calpesti il suo magistero, che non si creda di far senza Dio, perché senza di Lui non vi sarebbe più altro che la potenza dell’arbitrio e l’impero della forza.

Ella usurperebbe più o meno i diritti del potere politico quando venisse ad intromettersi nei generi di alleanze, che possono meglio convenire ad uno o ad altro Stato, nelle istituzioni degli eserciti, degli scambi, delle imposte, delle finanze, di ciò insomma che si riferisce all’economia, alle armi, alle industrie, al commercio. Ma se in tutte le questioni politiche, economiche, amministrative, la Chiesa, guardando al lato morale, giudicherà che le alleanze fatte per usurpare l’altrui o per opprimere i deboli sono ingiuste; che la partigianeria, il favoritismo e la corruzione nell’amministrare la giustizia è iniquità; che l’insegnare gli errori e le malvagie dottrine alla gioventù è tradimento; che il commercio, l’industria, il lavoro, la proprietà aggravata da soverchi balzelli è grave iattura dei popoli; che lo spergiuro e la ribellione sono orrendi delitti; che i lavori e i traffici nei dì festivi sono scandali esecrandi; che il così detto matrimonio civile senza il matrimonio religioso è turpe concubinato; che il divorzio assoluto è irrito e abominevole, e così di tante altre enormità, ella non fa che tenersi nel campo strettamente religioso, e in questo non eccede punto il suo diritto; compie un suo rigoroso dovere (...).

La Chiesa, è vero, non è tutta la scienza, tutto il progresso umano, tutta la politica civile, ma ha sempre un germe e un alito di vita fecondo per tutte le cose umane, e chi la ripudia, ripudia la vita (...).

Libertà! questo solo essa domanda; quella libertà di cui la volle soprattutto arricchita il divino suo Sposo; quell’augusta libertà, che è naturale sua figlia; quella legittima e santa libertà per la difesa della quale milioni e milioni dei suoi non dubitarono di dare il sangue e la vita. Sì, questa libertà vi domanda la Chiesa! La libertà dei suoi altari e delle sue feste, cioè la libertà di offrire a Dio il culto supremo che a Lui è dovuto, e non solo nel recinto delle sacre pareti, ma alla luce anche del sole; la libertà del ministero e della parola evangelica, cioè la libertà d’insegnare al mondo la verità e la virtù e di vegliare alla loro integrità e purezza; la libertà della sacra gerarchia, cioè la libertà di vocazione dei suoi leviti e della necessaria relazione dei Vescovi col loro Capo supremo; la libertà di tendere alla perfezione e di vivere vita comune; la libertà di proprietà, cioè la libertà di possedere e di amministrare ciò che le venne dalla generosità dei fedeli, e che costituisce il suo legittimo patrimonio; finalmente la grande, la feconda libertà dell’insegnamento e dell’educazione cristiana[24].

 

 

«Libertà e indipendenza del Romano Pontefice»

 

Dite finalmente che il benessere della patria lo volete pure voi, ma che appunto perciò non potete non affrettare coi voti più ardenti la pronta riconciliazione dello Stato colla Chiesa e col supremo Capo di essa, restando pur sempre vero che i tempi di maggiore fede furono per l’Italia i tempi delle maggiori sue glorie; come resterà sempre vero che la libertà e l’indipendenza d’Italia andarono sempre congiunte colla libertà e indipendenza del Romano Pontefice[25].

Non vi è Vescovo, che non deplori amaramente la condizione intollerabile fatta al Capo augusto di trecento milioni di cattolici, e a Lui non si unisca nel rinnovare contro gli antichi e i moderni attentati le più formali proteste; non vi è Vescovo che non proclami con Lui: essere impossibile che le pubbliche cose d’Italia abbiano a prosperare, finché non si sia provveduto, come ogni ragione domanda, alla dignità della Sede Romana, alla libertà e indipendenza del Romano Pontefice[26].

 

 

«L’indipendenza italiana è un fatto ordinato dalla divina Provvidenza»

 

L’indipendenza italiana è un fatto non solamente consacrato dalla volontà degli uomini e dal corso fatale della storia, ma ordinato dalla divina Provvidenza. Non conosco Prelato che contesti la legittimità di tale solenne avvento della Nazione italiana. Risolvete la questione romana e avrete un clero che sarà modello di devozione alle istituzioni patrie (...). La Chiesa non ha mai condannato questi sentimenti. Essa nella sua divina costituzione e nell’equilibrio prodigioso che la governa, mantenendola aperta a tutte le sorgenti di rinnovazione storica che anzi in lei si acquietano e si disciplinano, non soltanto ha seguito passo per passo l’intera evoluzione della civiltà, ma ne è stata la depositaria immanente e il sommo baluardo (...). La Santa Sede è tale istituto da non nascondersi la necessità, la provvidenziale bellezza della nazione italiana risorta; e sa benissimo che il diritto nazionale espresso per i plebisciti e con il dominio effettivo non è cosa da agevolmente sfaldare o infirmare[27].

 

 

«La Chiesa non ha posto il suo amore ai troni»

 

La sua missione è quella di condurre gli uomini al maggior possibile perfezionamento morale, e perciò tutte le questioni nelle quali religione e morale sono interessate, appartengono necessariamente al suo dominio; ma che per questo? La Chiesa, scrive un moderno apologista, si serve anche del trono per la sua necessaria libertà e indipendenza, ma non ha ancor posto il suo amore ai troni ed ai poveri loro diritti. Essa tiene un mandato ben più alto che non è quello delle terrene potestà, un potere ben più augusto che non è il loro. Essa distribuisce ricchezze e tesori, ma non terreni; dispensa diademi e corone ma immarcescibili ed eterne, e dei beni di quaggiù tanto solo ne vuole, quanto è necessario o utile a promuovere con libertà e indipendenza la diffusione dei beni celesti[28].

 

 

c) LE VIE DELLA CONCILIAZIONE

 

«Il Papa ha diritto di libera comunicazione»

 

La Chiesa è il regno di Gesù Cristo, il Vescovo di Roma ne è il Monarca, che per compierne il suo divino mandato, deve comandare a tutti e tutto dirigere liberamente, per mantenere l’unità di fede e di regime. Il Padre non è mai straniero ai suoi figli, in qualunque luogo si trovino ed a qualsivoglia grado elevati, né il Pastore al gregge, né il Monarca ai sudditi suoi (...).

Chiunque pertanto si oppone a che il Pastore comunichi cogli agnelli e colle pecore, coi fedeli e coi Vescovi, si oppone ad un diritto divino: chiunque sostiene la necessità del beneplacito secolare perché abbiano forza e vigore i decreti del Maestro di tutte le genti, coi quali tutela l’integrità del dogma e della morale, la disciplina ed ogni affare ecclesiastico e che riflette il governo delle anime, sconvolge l’ordine del regime della Chiesa, snerva il potere della Sede Apostolica, turba i fedeli e le loro coscienze, sommette un diritto divino ad una podestà umana ed annulla la forza dello stesso Primato[29].

 

 

«Noi il Papa lo vogliamo sovranamente libero»

 

Fra gli insegnamenti del Romano Pontefice facciamo ampia dichiarazione di riconoscere e di aderire specificatamente a quelli che al suo principato civile si riferiscono. Noi il Papa lo vogliamo potente, moralmente grande, sovranamente libero, giudice Egli solo della forma, dell’estensione e della quantità della libertà che gli è necessaria per il governo della Chiesa universale.

Nelle attuali condizioni non v’è altro mezzo di provvedere alla sua autonomia che la sovranità effettiva e reale. Altrimenti il Pontefice dovrà nell’esercizio dei suoi diritti primaziali essere soggetto ad altra autorità, come l’esperienza di questi ultimi anni ha reso manifesto[30].

 

 

«Abbia il Governo il coraggio di affrontare il quesito»

 

Occorrerebbe che il Governo d’Italia facesse direttamente appello alla sapienza e all’amor patrio del Santo Padre. Io credo profondamente che il Pontefice accoglierebbe l’invito e sarebbe forse la maggior gioia della vita gloriosa di Lui. È assurdo supporre che la Curia di Roma voglia mettere la Chiesa in condizioni di doversi un giorno scolpare del non aver salvata l’Italia. Abbia dunque il Governo il coraggio di affrontare il terribile quesito e tutti ne andremo lieti[31].

 

 

«Ragioni di ordine altissimo, dogma no»

 

Il Santo Padre assicura che, per il bene d’Italia, ragioni di ordine altissimo consigliano i cattolici a non accedere alle urne; e sebbene specificatamente queste ragioni non ci sia dato conoscere nell’ispirata interpretazione della Cattedra di Pietro, io, Vescovo, seguo la norma che il Capo della Chiesa detta (...).

Non confondiamo. Dogma no; nessuno di noi accetterebbe sotto altre parole una simile sostanza. In coscienza mia sono padronissimo di discutere l’opportunità e l’efficacia del provvedimento: mi acquieto alla parola papale, perché comprendo, così come compresi in tutta la mia vita episcopale, la stretta necessità dell’osservanza disciplinare, cardine dell’organamento unitario infrangibile della Chiesa[32].

 

 

«L’intervento dei cattolici alle urne politiche»

 

Chiedo, Padre Santo, di essere da Voi illuminato circa un argomento che strettamente si connette col buon governo della mia come di tutte le Diocesi d’Italia, voglio dire: l’intervento dei cattolici alle urne politiche.

Attese pertanto le nuove leggi elettorali, è egli lecito ad essi tale intervento?

Confesso, Beatissimo Padre, che già da lungo tempo vo io facendo a me stesso questa domanda, e che avendo ad uno ad uno esaminati innanzi a Dio gli argomenti che militano pro e contro siffatta questione, parmi giunto il momento di tentar qualche cosa anche per questa parte, ma non debbo dimenticare che spetta a Voi unicamente il decidere.

Ciò per altro, di cui mi credo in obbligo di rendere informata la Santità Vostra, si è, che in questa mia Diocesi tutti, senza eccezione, i proprietari (e sono moltissimi), i capi di negozi, di officine ecc. hanno già fatto iscrivere tra gli elettori tutti i loro dipendenti, e questo mi è forte motivo a temere che il non expedit della S. Sede, come fu pochissimo osservato per lo addietro, così lo sarebbe ancor meno per l’avvenire, con detrimento grandissimo delle coscienze e della stessa autorità della Chiesa.

Permettetemi quindi una nuova domanda: il mutamento avvenuto ora nella legislazione italiana riguardo alle elezioni politiche, non potrebbe nei disegni di Dio essere ordinato a questo fine, di giustificare in faccia a tutti, italiani e stranieri, buoni e cattivi, il mutamento della S. Sede riguardo all’intervento dei cattolici alle stesse elezioni?[33].

 

 

«Far prevalere il candidato cattolico»

 

Quanto all’argomento elezioni, sebbene mi si dicesse che dopo molto esitare erasi deciso di mantenere il non expedit, tuttavia io non mi spaventai per questo e proposi un quesito alla Sacra Penitenzieria col quale chiedeva se, posto il caso particolare non infrequente che si trovino a fronte in un dato collegio elettorale più candidati, di cui qualcuno notoriamente cattolico risoluto di propugnare nei modi possibili la causa della Chiesa, gli altri ostili più o meno alla medesima, potesse approvarsi o almeno tollerarsi che gli elettori bene affezionati alla religione intervenissero con piena tranquillità di coscienza alle elezioni allo scopo di far prevalere il candidato cattolico. Il quesito con una lunga lettera accompagnatoria, che vi comunicherò in seguito, non venne male accolto e ieri a sera venni chiamato e mi si rispose a voce, che dandosi il caso, colle debite riserve, lasciassi fare scrivendo dopo al Cardinal Penitenziere per ottenere all’eletto cattolico il permesso di sedere in Parlamento. Parmi che se altri Vescovi facessero al Cardinal Penitenziere lo stesso quesito ne avrebbero la stessa risposta; il che significa che poco, ma pur qualche cosa, si è ottenuto e quello che vi posso assicurare si è che i nostri scritti in proposito vennero assai apprezzati e il Santo Padre ne fu assai contento[34].

 

 

«Sacrificare la legge divina al non expedit?»

 

Non voglio tediare la Santità Vostra col ripetere il già detto. A Voi son note le mie idee anche in fatto di elezioni politiche, e Dio conosce la purezza delle mie intenzioni.

A questo proposito, sui primi del mese u.s. mi permettevo di indirizzarVi una mia, unendovi due quesiti da me presentati già, d’accordo con altri Vescovi, all’Em.mo Bilio di s.m., e chiedendovi se delle risposte favorevoli avute allora dallo stesso Em.mo, avrei potuto valermi nelle elezioni p.p. L’ottimo Mons. Boccali, in nome di Vostra Santità, mi rispondeva così:

«Come nel 1882 così anche adesso la S.V. potrà valersi dei privati responsi avuti dalla S. Penitenzieria sopra diversi quesiti mossi allora dalla S.V. alla stessa Congregazione, ecc.».

Di tale risposta mi valsi appunto, Beatissimo Padre, nei casi particolari che mi si presentarono. E come avrei potuto non valermene?

In questo Collegio elettorale di Piacenza erano dal partito radicale proposti a deputati uomini notoriamente ostili al Papa e alla Chiesa; uomini che da parecchi anni vanno funestando le città e le borgate principali con discorsi empi e blasfemi oltre ogni dire. Credendo essi di avere ormai corrotta questa mia popolazione, si presentarono stavolta con un programma dei più irreligiosi e sovversivi. Qual maraviglia, che i buoni si allarmassero? Se costoro riuscendo eletti diventassero padroni assoluti del campo e continuassero così a demolire fra noi ogni principio di autorità, ad alienare i fedeli dai loro pastori, a spargere ogni sorta di errori contro la fede, che sarebbe a corto andare della Chiesa Piacentina? Così si dimandarono i più pii e illuminati del clero e del laicato, in molti dei quali sorse naturalmente il dubbio non forse nel caso nostro particolare si dovesse accedere alle urne allo scopo appunto di impedire che riuscissero i candidati sudetti, tanto più che alcuni del partito contrario offrivano, anche per dichiarazioni loro richieste, garanzie abbastanza sicure delle loro buone disposizioni a favore della causa cattolica.

Così stando le cose, Beatissimo Padre, potevo io in coscienza starmene tranquillo? poteva non commoversi l’animo del Pastore alla vista del lupo che minacciava di invadere il suo gregge? Eppure sì, Padre Santo! Facendo violenza a me stesso, sacrificando, dirò così, non senza rimorso, la legge divina al non expedit, mantenni il più assoluto silenzio. Solo, come dissi più sopra, mi valsi della risposta, tanto logica del resto, di Mgr. Boccali nei casi particolari che mi si presentarono.

Alcuni distinti cattolici, prima ch’io partissi per la Visita Pastorale, che (noti bene la Santità Vostra) mi tenne lontano dalla città anzi dalla Provincia di Piacenza dal 7 Maggio a tutto l’8 Giugno corr., vennero privatamente ad interpellarmi se, convinti come erano della necessità di recarsi alle urne, avrebbero potuto farlo con tranquillità di coscienza. Io, avuto riguardo appunto alle circostanze nostre locali, nonché alle ragioni da altri messe innanzi di famiglia, di impiego ecc., mi limitai a rispondere ai singoli e in forma al tutto privata, che l’accedere alle urne per sé illecito non era, che sussisteva però il non expedit, che io quindi né li consigliava a dare il voto né li sconsigliava. Facessero quanto loro dettava la coscienza del maggior bene.

Potevo io come pastore di anime, come Vescovo, come direttore di coscienze rispondere diversamente? potevo anzi dire di meno?[35].

 

 

«Il concorso degli italiani alle urne politiche»

 

Era nostro convincimento che il concorso degli italiani alle urne politiche, ben diretto e disciplinato, darebbe alla Camera legislativa un contingente di Deputati cattolici, che col tempo si sarebbe anche rafforzato, il quale quantunque inferiore numericamente, rappresenterebbe però moralmente la maggioranza della proprietà, dell’onestà e della influenza sopra alcune classi sociali. Quindi la probabilità d’impedire la presentazione o l’approvazione di leggi contrarie alla Chiesa, e la speranza di fare abrogare o derogare alle già esistenti.

Confortavaci in tale convincimento l’esempio del Belgio e del Centro in Prussia. Colà la lotta dei cattolici ha finito per trionfare: costà, se finora si sono riportati parziali miglioramenti, non è a disperare che l’avvenire coroni gli sforzi e le speranze di quella invitta schiera del Landtag e del Reichstag.

I nostri intendimenti erano d’altra parte comuni a personaggi senza eccezione, informati solamente dal desiderio di rendere utili alla religione ed alla patria gli ingegni più eletti, gli scienziati più distinti, gli amministratori più esperti, che militano tra le file dei cattolici.

Ma quando ci fu fatto comprendere che, per motivi di altissimo ordine, le sole elezioni alle quali, per ora, fosse consentito ai cattolici in concorso, erano le municipali, noi c’inchinammo riverenti a quelle auguste parole, e ci ritirammo dalla discussione di una ipotesi che era ritenuta per non espediente.

Alle urne municipali frattanto noi demmo opera costante e laboriosa, adoperandoci di far sedere nei Consigli comunali, almeno in gran parte, quei cittadini dei quali la fede religiosa fosse incontestata, o almeno presentassero sicure guarantigie di non attaccarla. I nostri eletti non poterono sempre impedire il male, ma spesso riuscirono ad attenuarlo per lo meno nelle sue conseguenze. E certamente le presenti e le future generazioni dovrebbero essere loro riconoscenti per aver fatta conservare l’istruzione religiosa nelle scuole elementari[36].

 

 

«Avere i nostri legittimi rappresentanti alle Camere»

 

In risposta alla gentilissima sua del 29 Novembre p.p., ho il piacere di significarle che quanto ella desidera io l’ho già fatto per tutte le opere pie alle quali presiedo e mi sono adoperato perché facessero altrettanto i presidenti delle altre opere.

Debbo aggiungere che nonostante tutto questo non ho speranza alcuna di riuscita; fino a quel giorno nel quale potremo avere i nostri legittimi rappresentanti alle Camere le nostre fatiche saranno un buco nell’acqua.

Certo che ogni cattolico deve rispettare le altissime ragioni che impediscono la partecipazione alla vita pubblica, ma non vi è uomo di senno che non deplori dal profondo del cuore l’esistenza di quelle altissime ragioni che tengono inoperosi questi preziosi elementi, migliori qua in Italia che altrove. Ad ogni modo lavoriamo se non altro per avere il rassicurante testimonio della coscienza d’aver fatto tutto ciò che ci era possibile[37].

 

 

«Ragioni di opportunità e ragioni di sostanza»

 

Ebbi ieri, di sera, dal nostro amatissimo S. Padre l’udienza di congedo (...). Il tema delle elezioni ci entrò due volte. Egli mi disse le sue ragioni di opportunità, ed io le mie di sostanza. Parmi gli facesse impressione l’idea espressagli che il dissidio di Bologna sussisterà sempre vivo sino a che verrà tolto il non expedit. A dire il vero, il S. Padre non mi sembra ancora ben deciso sul da farsi, ma piuttosto propenso all’abolizione, s’intende per un tempo non molto vicino. Io conclusi: Beatissimo Padre, sarò contento se mi promettete di portare la vostra attenzione non sulle ragioni di opportunità, mutabili da un giorno all’altro, ma sulla sostanza del quesito. Ed Egli: Sì, ve lo prometto. E così dicendo mi abbracciò tutto commosso, ed io più commosso di lui me ne andai[38].

 

 

«Preferiamo la politica dinamica a quella statica»

 

È forse consentaneo ai doveri di cattolico e di cittadino lasciare che tutto vada a catafascio, religione, morale, patria, anziché stendere una mano pietosa ed impedire la perdita delle anime, la corruzione di una parte della gioventù, l’approvazione di qualche legge contraria alla religione? Forseché gli ordinamenti politici sono superiori ai diritti della religione, o gl’interessi di quelli devono subordinarsi ai diritti supremi di questa? Agevole cosa e molto comoda è l’assidersi nella politica passiva dell’inerzia e l’aspettativa di cataclismi che, con legge storica ignota ai dotti, ritragga il mondo verso le epoche preistoriche. Codesto sistema dovrà probabilmente attendere fino al giorno del cataclisma mondiale che sarà seguito dalla grande ristorazione o palingenesi. Noi per parte nostra preferiamo la politica dinamica a quella statica, e se ci avvenga di rendere cristiana, nel miglior modo possibile, la società moderna e di avere evitato mali maggiori che minacciano l’umanità, noi siamo persuasi di avere ben meritato della Chiesa e della Patria[39].

 

 

«Ogni lentezza giunge alla meta»

 

E la conciliazione? Parmi s’avanzi lenta lenta, ma inesorabile come il fato, e allora? Avrà ragione chi ebbe il torto. Fiat, fiat[40].

Il cammino delle idee e di una lentezza disperante, massime quando urtano interessi e passioni, ma è continuo quando le idee proposte sono giuste e di vera utilità. Insistiamo dunque, perché ogni lentezza giunge alla meta, a condizione che la stanchezza non vinca chi se ne è fatto banditore[41].

Il mio Istituto, sorto così mirabilmente per mirabile accordo di sentimenti religiosi e patriottici, verrebbe a mancare in parte al suo scopo e non potrebbe superare i mille ostacoli che gli si frappongono, né soddisfare ai molteplici suoi bisogni morali e materiali, senza l’aiuto concorde di tutti i buoni. Ed è per questo, mio buon amico, che io richiamo l’attenzione tua, e per mezzo tuo, del Governo e di tutti quelli che si interessano del pubblico bene, su quest’opera, cara al mio cuore, non solo perché in essa scorgo un mezzo efficace per compiere i miei doveri episcopali verso tanti infelici, ma anche perché religione e patria vi si danno la mano e questo è, a mio giudizio, un mezzo pratico, un inizio di quella pacificazione delle coscienze, che è pur sempre uno del voti più ardenti dell’anima mia[42].


 

4. UMANESIMO CRISTIANO

 

S. Pio X riconobbe nello Scalabrini il «vescovo dotto, mite e forte, che anche in dure vicende ha sempre difeso, amato e fatto amare la verità, né l’ha mai abbandonata per minacce o lusinghe».

Il vescovo di Piacenza infatti ebbe il «santo coraggio di dire la verità» a tutti, ad amici e nemici, e credette suo dovere episcopale non tacerla mai al Papa.

L’amore alla verità porta al realismo, che può provocare amarezza ma non scetticismo, perché la luce della verità è la fede. «La conoscenza pratica degli uomini e delle cose» induce al prudente discernimento del tempo di tacere e del tempo di parlare. Non è lecito prevenire i giudizi della Chiesa: «l’onesta libertà di pensare» si integra con l’obbedienza, che impone il sacrificio anche eroico delle proprie convinzioni, in un atto di fede.

Una mente così aperta apre il cuore a tutti i valori umani. L’amicizia è un bisogno del cuore, è unione inalterabile, è sacrificio di sé per l’amico. L’amicizia «profonda e riverente» è fondata sulla carità, a sua volta basata sulla verità.

Chi è pieno di Spirito Santo, che è Amore, ama non solo gli uomini, ma tutto ciò che è buono, bello, artistico, poetico, armonioso, in una «pienezza d’amore». La sinfonia della creazione ha la sua eco più profonda nella sinfonia dello spirito.

 

a) AMORE ALLA VERITÀ

 

«Un’anima ripiena dello Spirito Santo non teme più il mondo»

 

Lo spirito del mondo è uno spirito di doppiezza e di riserva. Siccome di questo sorgente è l’amor proprio, così egli non cerca la verità se non in quanto la verità può piacergli; non si dichiara per la pietà se non in quanto la pietà trova dei partigiani favorevoli; non si applaude alla virtù se non in quei luoghi dove la virtù è onorata. Ed ecco lo spirito da cui tanti si lasciano governare, uno spirito timido e connivente; si teme di essere di Dio e in tutte le occasioni nelle quali si tratta di dichiararsi per lui, si vacilla, e ove sia necessario esporsi per la gloria di lui alle derisioni e alle critiche degli uomini, si dà addietro; e quella che è viltà d’animo, si chiama prudenza; e laddove si tratta di disgustare per non mancare al dovere, legittima si reputa la trasgressione, e la prima cosa che si esamina nei passi che Dio esige da noi, è se il mondo ci darà il suo voto, e per non perdere la stima del mondo si finge di essere mondano, si parla il linguaggio del mondo, si applaude alle massime del mondo, si studia di accomodarsi alle costumanze del mondo[43].

 

 

«Il culto della verità fino al sangue»

 

Il combattimento più forte in questo mondo è quello di dire la verità di Cristo ai nemici ugualmente che agli amici, e dirla nella prosperità e nel dolore, nelle ombre e alla luce, nelle carceri e nelle corti, alla plebe e ai potenti, in privato ed in pubblico, senza ambagi, senza vergogna, non con trepido cuore, ma piuttosto con un sublime disprezzo dei pericoli, che è il privilegio delle anime grandi.

Questo è il combattimento forte di cui parlò Gesù Cristo quando disse al governatore del popolo romano: per questo io sono nato, e per questo son venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità. Questo è il combattimento che Gesù ebbe dal Padre suo e lasciò ai suoi amici in retaggio: il culto della verità fino al sangue[44].

 

 

«Non potete non amare la verità»

 

Padre Santo, Voi conoscete la schiettezza dell’animo mio, conoscete i sacrifici non lievi fatti per gloria della Chiesa e per mostrarmi qual sento di essere, tutto per Voi e per la Vostra causa che è quella di Dio.

Ebbene, prostrato ai Vostri piedi, una sola grazia vi chiedo: richiamate all’ordine quell’elemento extragerarchico, di giornalisti specialmente (capitanati dall’Osserv. di Milano), che ostentando devozione al successore di S. Pietro, devozione che non ha, si fa di essa mantello e sfogo di idee partigiane e a tutela di privati interessi, offende la somma autorità dei Vescovi, disonora la Chiesa e la rende spregevole in faccia alle persone serie con le sue violente e scandalose polemiche. E rompe quella mirabile unione tra i Pastori che ha formato fin qui una delle sue glorie più belle. E si riduce il cattolicesimo ad un pugno di fanatici, escludendo le più belle intelligenze.

Come venne trattato il celebre Abate Stoppani, gloria della nazione e della Chiesa? Come altre istituzioni, preti e laici? Mio Dio, salvate la vostra sposa sì orribilmente manomessa!

D’ingegno potente qual siete e di cuore modellato su quello di Gesù Cristo di cui siete Vicario, Voi non potete non amare la verità, non potete non desiderare che vi sia fatta conoscere, come lo desideravano i Santi; sono quindi più che sicuro, Padre SS.mo, vi degnerete perdonare alla libertà di questa mia, dettata solo dall’affetto vivissimo della gloria del Vostro immortale Pontificato, macchiato e impicciolito dalla baldanza impunita di un partito cieco e petulante[45].

 

 

«Il santo coraggio di dire la verità»

 

Continui, D. Luigi carissimo, a venire coi suoi scritti in soccorso della Chiesa, che troppo ha bisogno, massime ai dì nostri, di chi richiami le menti appunto allo studio dell’Evangelo e della cristiana dottrina e intenda a ricondurre così Gesù Cristo nelle famiglie e nella società.

Per me ritengo sia questo il bisogno maggiore, il mezzo più sicuro, anzi unico, per arrivare ad ottenere ciò che indarno si è creduto e si crede di poter ottenere con altri mezzi. Di venditori di ciarle, come S. Agostino chiamerebbe certa gente, ne abbiamo anche troppi... Dico questo, perché sono pochi oramai gli uomini che abbiano il santo coraggio di dire la verità, secondo il detto evangelico: est est, non non. Troppo facilmente alcuni veramente dotti e meritevoli si tengono in disparte per gl’insipienti clamori di chi altro non ha di mira che il proprio interesse[46].

 

 

«Guai alla religione quando i Vescovi sono costretti a tacere!»

 

Qui assolutamente o debbo giustificarmi o debbo esser giustificato.

Venire a consigliarmi il silenzio in questo caso sarebbe un aggiungere oltraggio agli oltraggi del sacrilego diffamatore; sarebbe come dire: importar nulla che l’Autorità Episcopale sia gettata nel fango; sarebbe un accreditare la voce corsa, che si ha timore del governo occulto di certi uomini scaltri e che si è impotenti a dominarli. Guai, esclamerebbe un Dottore della Chiesa, guai alla religione, quando i Vescovi sono costretti a tacere!

Eminentissimo: sono io nell’errore? Dica al S. Padre che mi corregga, e mi avrà, come sempre, figlio sottomesso, obbedientissimo a tutto. Ma se mi trovo invece dalla parte della verità, della giustizia, del diritto, come si permetterà che un Vescovo, sia pure l’ultimo e indegnissimo dei Vescovi, abbia ad essere pubblicamente trascinato al tribunale di un prete, che non ha di prete fuorché l’abito e l’apparenza?

Per concludere: invoco di nuovo con ogni ardore quella favorevole testimonianza, cui mi credo in diritto e in dovere di chiedere, la invoco e l’attendo.

Perdonerà, Eminentissimo, se le torno importuno, ma creda, torna ancor più importuno a me, l’esser stato costretto a importunarla di nuovo.

Spero si degnerà esaudirmi questa volta, sicché non frastornato da altro, io possa attendere quieto e tranquillo a cose di maggior rilievo che queste non sono, e possa indirizzare tutte le mie deboli forze alla salvezza delle anime affidatemi, e alla difesa dei sacrosanti diritti della S. Sede, che sono le due cose, le quali più di tutte mi stanno a cuore[47].

 

 

b) REALISMO E COERENZA

 

«Fatti ci vogliono»

 

La vostra desiderata del 1° corr. venne a raggiungermi assai lontano da Piacenza, ove mi trovavo per la S. Visita Pastorale, unico conforto del nostro formidabile ministero, perché si può dimenticare per qualche istante la penosa situazione della Chiesa e della società, alla vista di una fede viva, che non sembra possibile ai nostri giorni.

Mi rallegro con voi e partecipo di cuore alle vostre consolazioni; ma sapete che io non prendo troppo sul serio documenti, tanto meno le belle buone parole. Fatti ci vogliono e pubblici e solenni. Quella gente ha compromesso religione, episcopato, S. Sede in faccia alle anime serie non partigiane, ed è quindi di ungente ed estrema necessità che si sappia da tutti, che non ha missione alcuna, che non è approvata nelle sue insipienti e scandalose esagerazioni[48].

 

 

«Ormai non credo che ai fatti compiuti»

 

Se dovessi guardare ai complimenti che mi si fecero anche di laggiù dopo il mio ritorno da Roma, dovrei credere molte belle cose, ma che volete? Ormai non credo che ai fatti compiuti. Lessi che gli uomini di talento sono ordinariamente assai ingenui; una volta dovevo aver anch’io qualche talento, perché ero facilissimo a prestar fede, ma ora devo averlo sciupato interamente perché sono quasi scettico, salva fide, s’intende, la quale, per grazia di Dio, sempre più mi irraggia e mi rallegra vivamente lo spirito spesse volte conturbato alla vista di tante malvagità. E voi, caro amico, come vi trovate in questo proposito? Già, voi avete troppo talento e per quanto ne perdiate, ne avrete sempre abbastanza per conservare una sufficiente dose di, che debbo scrivere?, di buona fede e di sapiente ingenuità, che forma il decoro della vostra austera persona[49].

 

 

«Politica di piccoli espedienti»

 

Rispondo tosto alla vostra di oggi ringraziandovi assai, assai delle liete novelle che mi ripetete: mi proverò adunque a mettere in pratica il credidit in spe contra spem, sebbene non abbia fiducia alcuna nella politica di piccoli espedienti, che domina laggiù, e tema di patire disillusioni sempre amare. Spero rifare i miei giudizi, un po’ scettici, dopo di avervi udito in lungo e in largo[50].

 

 

«La politica del Vangelo»

 

Mi ha recato dolore ciò che in essa mi dite ma non sorpresa. Quando l’uomo si regola in tutto secondo l’umana politica e non secondo la politica del Vangelo, quando colla stessa facilità si dice e si disdice, si fa e si disfà, si loda e si biasima nel medesimo tempo, quando si dà maggior peso ai faziosi clamori di scandalosi privati, anziché alle solenni testimonianze di Vescovi non da altro animati che dal desiderio del bene, quando si considerano gli stessi atti più solenni dei Vescovi quasi atti di fanciulli inconsiderati, Monsignore carissimo, che cosa non è possibile?

Dobbiamo però confortarci pensando che abbiamo in Leone XIII tal Papa, il quale saprà certo tenere alto il prestigio della sua e nostra autorità e non permetterà sicuramente sieno col fatto annullate le sapienti sue prescrizioni private e pubbliche a questo riguardo. È troppo illuminato.

Le arti di certa gente non possono vincerlo. Le vincerà Egli tutte, ne sono sicuro. Ricordo assai bene ciò che Egli mi disse a voce in proposito. Appoggiato quindi alla sua parola posso accentarvi che appena Gli sarà possibile, rimedierà ai mali gravissimi dell’alta Italia. Oh, fiat, fiat! Allora sì potremo gridare con verità: Vicit Leo de tribu Juda![51]

 

 

«L’opera vostra è benedetta da Dio, e basta»

 

Ciò che mi confidaste colla vostra del 18 corr. mi ha recato vivo dolore, prima per voi, che io amo tanto, poi per la piaga di cui è sintomo; è cosa davvero che strazia l’anima il vedere le opere più sante osteggiate da quelli che si vantano campioni della fede!

Caro D. Giuseppe, voi siete ancor giovane, preparatevi a vederne delle peggiori. Conosco il mondo e so quel che dico. Mi convinco sempre più che bisogna fare il bene per il bene, per solo amore di Dio, senza cercare l’approvazione degli uomini né curarsi della loro disapprovazione. È l’unico modo di riuscire nelle imprese, credetelo. Io spero bene dell’opera vostra appunto perché osteggiata (...). L’opera vostra è benedetta da Dio, e basta. Checché si faccia o si dica, trionferà[52].

 

 

«La conoscenza pratica degli uomini e delle cose»

 

Giorni sono il mio Vicario Generale in viaggio per l’Italia ebbe un’udienza privata dal S. Padre, che gli chiese con molta premura di me della mia salute, esternando desiderio di parlarmi e di conferire intorno, disse, ad una interpellanza assai ragionata che mi ha fatta; gli potreste scrivere che venga, se gli è possibile. Ma, assicurato dal mio Vicario Generale che sarei andato a Roma sulla fine del mese, ebbene, soggiunse il Papa, se di ciò mi assicurate, allora non gli scrivete.

Che ne dite, caro amico? Si avrebbe il coraggio di invitare un Vescovo a fare il viaggio di Roma per significargli che è mantenuto il non expedit? O forse si vuole cambiare strada e il Papa desidera qualche schiarimento? Il buon senso mi inclina verso la seconda parte, ma l’esperienza, la conoscenza pratica degli uomini e delle cose attuali, non mi lasciano sperar nulla.

Porto meco due grossi volumi di documenti, un vero arsenale di armi potentissime, ma se dopo questo sforzo gigantesco per far rientrare le questioni religiose, politiche, filosofiche, giacché voglio occuparmi di tutte col S. Padre, nei loro giusti limiti, non si riesce a nulla, il che è probabile, allora, piangendo i mali della Chiesa, mi darò interamente all’orazione ed all’esercizio del sacro ministero, facendo da me ciò che stimerò opportuno al bene delle anime e non mi curando di altro che di prepararmi alla morte, combattendo da forte i conosciuti nemici della pace, della carità, della religione[53].

 

 

«Le idee camminano... lasciatele camminare»

 

Voi mi venite fuori con certe idee fratesche... So bene che scherzate!

Ma che celle d’Egitto! Vada a seppellirsi chi è causa della rovina di tante anime, non un vescovo che, come voi, ha detto, ha scritto, ha fatto tanto per impedirla. Che, che! Dio vi ha posto sul campo di battaglia e bisogna starvi, fioccassero pure da ogni parte le palle nemiche. Siete un ferito glorioso voi. Del resto le idee camminano. Sono idee di verità, di carità e di pace. Tiratevi indietro e lasciatele camminare. La vittoria non può fallire e voi potrete dire d’averle aperta la strada[54].

 

 

c) “DEVOTO SENZA MISURA E SENZA MISURA LIBERO”

 

«I partiti intolleranti sono la piaga più crudele della Chiesa»

 

Divido pienamente i vostri timoni intorno agli effetti di una condanna di Rosmini; io, non rosminiano, ora la temo con immensa ansietà; se accadesse avremo molti apostati segreti e moltissimi ribelli pubblici.

Rosmini diventerà davvero un’appendice di Giansenio e i turbamenti portati nella Chiesa dai seguaci di questo, saranno rinnovati con forza maggiore dai seguaci di quello. Si è persuasi e, sventuratamente, se ne diede occasione, che è tutta opera di un partito, che trae in inganno il Papa in materia, che non tocca né il dogma né la morale e che la resistenza sia doverosa (...). La Chiesa è minacciata di una grande sventura; i partiti estremi, intolleranti ne sono la piaga più crudele. Io prego ogni giorno e mi impongo speciali cose, affine di implorare da Dio, che susciti un altro Francesco di Sales, che sappia dar termine a questa malaugurata questione filosofica, come quel Santo impose fine alla focosa questione de auxiliis.

Io conto fra i miei preti più di 200, i quali studiarono Rosmini; il mio studio, in previsione appunto di una condanna, in questi anni, si fu di impadronirmi dei loro animi e, lasciando loro quell’onesta libertà che loro consente la Chiesa, prepararli alla sommissione, quando il Papa avesse a decidere.

Coll’aiuto di Dio credo di esservi riuscito. Moglia che è il capo dei rosminiani, me lo ha assicurato più volte e per sé e per tutti. Ma non è così ovunque. Nell’autunno passato, quando fui a Como, intesi discorsi sconfortantissimi in proposito e specialmente in certe diocesi, ove si spinsero inconsultamente le cose, secondo le norme del giornale, filo regolatore delle intelligenze. Basta, ne parleremo per vedere quali passi possiamo fare col S. Padre. Intanto io ho scritto a parecchi rosminiani riprovando il soverchio ardire degli ultimi opuscoli[55].

 

 

«Tempo di tacere e tempo di parlare»

 

Non dobbiamo confondere la viltà d’animo colla prudenza. Vi ha un tempo di tacere e tacqui per ben sei anni; ma vi ha un tempo altresì di parlare ed ho parlato, come ne sentivo il dovere. Assicuri pure il S. Padre, Eccellentissimo Monsignore, che l’effetto di averlo compiuto è stato più esteso e salutare di quello che si possa credere, tanto nella Diocesi mia che fuori. L’accasciante silenzio dell’Episcopato intero, o terrorizzato o mistificato, di fronte ai continui attacchi di una stampa atteggiata a profonda venerazione del medesimo e soprattutto della S. Sede, era considerato ormai dalle anime più serie e ben pensanti, come un segno di estrema debolezza e di connivenza ai disordini che ne erano la conseguenza. Tornava necessario che alcuno facesse udire la sua voce e le circostanze portarono ch’io fossi quel desso.

E qui, Monsignore Carissimo, farò notare una cosa. Si volle fare di un atto semplicissimo e privato una questione rosminiana, ecco il segreto di tutto il baccano voluto sollevarsi. Che di più falso però? lo non seguo, lo dico schiettamente, il sistema del filosofo Roveretano; direi altamente il contrario, se fosse la verità. I miei pochi scritti e le disposizioni da me prese circa l’insegnamento nella mia Diocesi, prima assai che apparisse la mirabile Enciclica Aeterni Patris, parlano troppo chiaramente. Confesso però che io stimo, venero ed amo nella carità di Gesù Cristo tutti gli uomini di buon volere, che lavorano con purità d’intenzione per la santa causa di Dio e della Chiesa, qualunque sieno le opinioni da loro professate e lasciate ancora libere alla discussione dalla Chiesa.

Sono più che persuaso che tante anime nobilissime, le quali gemono ineffabilmente sotto l’accusa di esser nemici di quella Chiesa, per la difesa della quale darebbero sin l’ultima stilla del loro sangue, che tante elette intelligenze, le quali onorano il ceto ecclesiastico e il laicato cattolico, spezzerebbero le loro penne ad un tratto e darebbero esempio edificante e bellissimo sottomettendosi di buon grado a qualsiasi decisione finale che il S. Padre credesse bene di prendere, sebbene riluttino e giustamente, di sottomettersi ad autorità mentite, che con inqualificabile audacia tentano d’imporsi su tutti.

Dei Sacerdoti almeno della mia diocesi neppure ne dubito. Intanto, domando io, perché si vuol rendere tirannico il giogo da Gesù Cristo chiamato soave? Perché non si dovrà lasciare agli ingegni quella onesta libertà che loro accorda la Chiesa, la quale ne fu sempre custode gelosa?

Una discussione calma, seria e dignitosa, che salva la carità anche fra il cozzo delle varie opinioni, ecco ciò che dobbiamo volere. Non è questo forse che costantemente raccomandarono i Romani Pontefici e il glorioso nostro S. Padre medesimo nel sapientissimo Breve all’Arcivescovo di Malines? Oh quanto desidero ch’Egli sia ascoltato!

Ma purtroppo, siamo in un tempo in cui uomini audacissimi e scaltri, hanno imparato il modo di guadagnansi l’impunità, col gridare a più non posso contro autori e persone che credono sospetti al Sommo Pontefice, al quale si vantano pubblicamente di far pervenire le loro insinuazioni e pretese a mezzo di un noto religioso, rendendo così impotente l’Episcopato, che non può sempre mettere in pubblico le ragioni del suo operato contro taluni che si coprono furbescamente del mantello tomistico, e che tanto più pretendono protezione quanto più sono insolenti e pieni di orgoglio (...).

Era perciò ch’io intendeva pubblicare un piccolo volume, intitolato La rivoluzione nella Chiesa. Il concetto è semplicissimo. La rivoluzione è essenzialmente demolitrice e tutto ha ormai demolito colle sue arti nell’ordine civile, cominciando dal principio di autorità. Lo stesso, a chi ben mira, avviene ora nella Chiesa per opera di un partito, che adoperando, talvolta con maggior slealtà, le stesse arti di quella, si è preso e si prende l’incarico di denigrare astiosamente individui e Comunità, Prelati e Vescovi, secondoché gli è più o meno opportuno a conseguire l’intento, vale a dire il privato interesse. Lo stesso Santo Padre, neppur Esso, mi addolora pensarlo! venne risparmiato, quando dava a conoscere di non essere punto disposto a favorirlo (...).

Riguardo alle disposizioni da Esso prese relativamente all’Osservatore di Milano, io sempre più le ammiro e son sicuro avrebbero riscosso l’universale applauso con sommo vantaggio della S. Sede, ma chi le conosce? Nessuno di coloro che più ne potrebbero profittare, tanto è vero che anche adesso si continua a credere ed a far credere che io con altri abbia avuto da Roma, non so perché, i più acerbi rimproveri, sia poco meno che scomunicato! con quale vantaggio e decoro dell’Episcopale carattere e del mio sacro Ministero, lascio a lei, Monsignore mio Carissimo, indovinarlo.

Era appunto perciò ch’io domandavo candidamente alla somma benignità del S. Padre una parola almeno di conforto. Egli non ha creduto bene, almeno finora, di accordarmela; adoro sottomesso i giudizi di Dio e andrò innanzi per infamiam et bonam famam, a procurare la salvezza dell’anima mia e quella del gregge che mi venne affidato.

Io la prego, Eccellentissimo Monsignore, di far noti anche questi miei sentimenti al nostro S. Padre, giacché a lui, come debbono i figli, non voglio tener nascosta neppure l’ultima piega dell’animo mio. Così se in qualche cosa mia sbaglio potrà correggermi, e le sue correzioni io sempre le accetterò con quella stessa gioia, con quella riconoscenza medesima, con la quale ne accetterei le approvazioni, perché Egli è il mio Pastore, il mio Padre, ed io gli sono tenerissimo figlio[56].

 

 

«La libertà in fatto di filosofia»

 

Ella desidera conoscere da me quanto siavi di vero in ciò che affermavasi avermi detto di presenza il S. Padre in ordine alla questione filosofica rosminiana. Eccomi a soddisfarla. Io che la norma del mio agire l’attingo sempre e in ogni cosa, non dal giornalismo, sia pure cattolico, ma da Chi solo ha l’autorità di regolare in un modo piuttosto che in un altro la disciplina della Chiesa universale, volli appunto anche su questo argomento della libertà in fatto di filosofia, interrogare personalmente il Sommo Pontefice. Padre Santo, — Gli dissi — nella mia diocesi quelli che seguono il sistema filosofico di A. Rosmini sono molti, celebre fra tutti il Prevosto di S. Anna D. A. Moglia il quale avendolo per anni e anni studiato, lo sostiene, quel sistema, e lo difende vigorosamente anche con pubblici scritti. A sentire certuni, sempre corrivi a farla da maestri e a sentenziare in Vostro nome su tutto e su tutti, costoro, appunto perché rosminiani e sostenitori del sistema di Rosmini, si dovrebbero avere in conto poco meno che di altrettanti ribelli ai Vostri insegnamenti: e io, non che interdir loro ogni discussione in proposito, dovrei, come Vescovo, metter mano alle ecclesiastiche censure...

«Oh, no! — mi rispose Egli, il S. Padre, con quel suo accento grave e pieno di tanta bontà — no, Monsignore! Dica pure ai suoi preti che Noi non abbiamo inteso mai di togliere a chicchessia la libertà di discutere intorno a dottrine opinabili. Anche riguardo a Rosmini possono benissimo i sostenitori di lui continuare le loro dispute con tranquillità di coscienza, purché, s’intende, osservando costantemente le regole della moderazione e della carità da Noi più volte inculcate e purché mantengano nell’animo la disposizione di sottomettersi a quella qualsiasi decisione che questa S. Sede credesse bene di emanare al riguardo».

Testuali parole che io chiesi ed ottenni di fare, occorrendo, di pubblica ragione e che subito registrai, perché non avessi a dimenticarle, mutarle, scemarle, o in qualsiasi altro modo alterarle[57].

 

 

«Non è lecito prevenire i giudizi della Chiesa»

 

Mentre il Ministero del Romano Pontefice domandava che fosse presentata e indicata la dottrina di S. Tommaso come la più adatta per la tutela della vera fede e religione contro le affermazioni dilaganti di una scienza eterodossa, esigeva anche che i fedeli fossero premuniti contro quelle dottrine che, attinte a fonti non pure, potessero impedire il raggiungimento dello scopo voluto, tanto più che un nome illustre per integrità di vita e altezza d’ingegno conferiva ad esse una certa autorità. Celebre infatti e il nome di Antonio Rosmini, sebbene in parte prigioniero dei difetti della sua epoca.

Nessuno si meraviglierà che un uomo insigne per dottrina e per pietà abbia potuto affermare alcune tesi che discordano, a giudizio della Chiesa, dall’analogia della fede. E nemmeno qualcuno si meraviglierà che molti abbiano potuto aderire alla sua dottrina, finché la Chiesa lo permetteva. Che altri si raggruppino attorno a un uomo illustrissimo, è un fatto che avviene per provvidenza di Dio e per la natura degli uomini, per cui anche in ciò c’è bisogno di un legislatore, Secondo il detto: «Costituisci, o Signore, un legislatore su di essi, affinché sappiano... che sono uomini».

Tutti i maestri sono bandiere intorno alle quali si radunano i minori, che di una bandiera hanno bisogno. Perciò vige nella Chiesa la consuetudine che permette a chiunque, senza che sia riprovato, di aderire alle idee dei dottori moderni, finché essa non pronunci un giudizio.

Agli altri, che sono di idee diverse, è parimente lecito, rimanendo piuttosto sulle tracce degli antichi, propugnare, dentro i limiti della moderazione, la dottrina opposta, trarre conclusioni da un retto raziocinio, e confutare e respingere i nuovi dottori; ma non è mai stato permesso ad alcuni di denunciare un avversario come prevaricatore della verità o infliggergli una nota di diffamazione; non è infatti lecito prevenire i giudizi della Chiesa. Si deve presumere che tanto i favorevoli quanto i contrari in buona fede, lo facciano con retta intenzione.

Ma nessuno che abbia retto sentire milita sotto una bandiera senza la dipendenza implicita dalla S. Sede, che è l’unico vessillo inalberato da Dio, al quale tutti i fedeli, specialmente i sacerdoti, devono sempre e in tutto dire: «Non mi sono ingannato nel seguire il tuo insegnamento».

Ora, quando la Chiesa si pronuncia, dichiarando che una certa bandiera è meno sicura, non è più lecito ai figli dell’obbedienza militare sotto quella bandiera, ma devono accettare senza restrizioni i giudizi della Chiesa[58].

 

 


«Ho sempre lasciato quella onesta libertà di pensare che è consentita dalla Chiesa»

 

Veni, vidi..., potessi soggiungere il resto! Chiamato a me il Prof. Stoppani cercai di espugnarlo di tutti i lati e con tutte le armi possibili, ma non ci fu verso. Veramente le ragioni ch’egli oppose furono tali e tante che io, lo confesso, non saprei personalmente come ragionevolmente si potrebbe non tenerne conto.

Mi dichiarò, a tacer d’altro, che il periodico il «Rosmini» non è cosa sua e che non è quindi in suo potere di sospenderne la pubblicazione; che fondatori e collaboratori del medesimo sono per la massima parte laici credenti di tutte le città e principali università d’Italia, riuniti nell’intento di cristianizzare la scienza e difendere la religione dagli attacchi del moderno razionalismo; che anche quando si ritirasse tutta la parte ecclesiastica, non per questo cesserebbero essi da un’impresa che stimano oggi più che mai utilissima e necessaria e della massima importanza; che godendo egli, lo Stoppani, di una certa influenza su loro, credette conveniente, anzi doveroso, di accettare, come accettò, l’invito di collaborarvi, per moderare e tenere entro i giusti limiti le discussioni; che riuscì di fatto ad impedire si pubblicasse uno scritto violento contro una Lettera Pastorale del Vescovo di Concordia; che avendo lo stesso Sommo Pontefice Leone XIII° dichiarato più d’una volta e in pubblico e in privato che, anche riguardo alla questione filosofica, non aveva mai inteso d’impedire una moderata discussione tra i dotti, questi non possono supporre che ora abbia Egli ad offendersi della comparsa di una Rivista, la quale mira appunto a tale scopo; che non possono finalmente tollerare in verun modo che una stampa, la quale vantasi l’organo fedele della Santa Sede, continui liberamente a vilipenderli come ribelli al Capo Supremo della Chiesa, come liberali, come fedifraghi, e peggio.

Mi venne poi assicurato da altri che, ove duri il brutto giuoco, essi intendono denunziare al mondo cattolico l’enorme ingiustizia, pubblicando in proposito una solenne protesta.

Come vede, Eminenza, le cose sono a tal punto che è ben difficile mettervi riparo. Si è esagerato, diciamolo pure, da una parte e dall’altra, e ora si comincia a vederne le conseguenze. Dio ci scampi dal veder peggio! Io per me, anche dal colloquio avuto con lo Stoppani, presagisco, se non si provvede, seri guai per l’avvenire della Chiesa.

Non già che lo Stoppani siasi mostrato di sentire meno che rispettoso e sacerdotale, tutt’altro; ma è che dietro lui ho potuto scorgere tale un malumore, tale un fermento che davvero impensierisce.

Quanto ai preti rosminiani della mia diocesi io vivo perfettamente tranquillo. Sanno che non divido, in fatto di filosofia, le loro opinioni, ma sanno altresì che ho sempre lasciata loro e che voglio sempre rispettata, quella onesta libertà di pensare che è consentita dalla Chiesa. Tanto basta perché si pieghino docili e rispettosi anche al minimo dei miei desideri, come appunto è avvenuto ora, a proposito della rivista in parola. Tutti egualmente mi hanno promesso che non vi scriveranno sillaba (...).

Io farò quanto Ella, a nome del S. Padre mi dirà di fare, certo che non si vorrà mettere i Vescovi nel pericolo di scostarsi da quella sapiente linea di moderazione che ha formato e formerà sempre una delle più belle prerogative della Chiesa[59].

 

 

«Forse anche noi Vescovi abbiamo ristretta di troppo la libertà individuale»

 

Il periodo che stiamo attraversando è più triste di quello che sembra.

Nel Clero fermenta qualche cosa di maligno, non ancora ben determinato, e per ora sono soltanto i più audaci che si vanno manifestando con esplosioni di delitti inauditi. Forse anche noi Vescovi abbiamo ristretta di troppo la libertà individuale e ormai la disciplina pillolizzata ha perduto quel senso di grandezza austera che aveva una volta e quindi quel prestigio che esercitava sulle anime: forse si vollero tutti ottimi e l’ottimo è nemico del bene: tutti perfetti e non tutti hanno i doni per esserlo.

La Filosofia poi, l’azione cattolica e sociale, che pure hanno tanto valore, servirono agli uni di tabarro, agli altri di difesa, a parecchi di esaltamento ecc. ecc. Sono quesiti gravi intorno ai quali si potrebbe scrivere un libro e ai quali io penso sovente nel governo della Diocesi.

Ma pur troppo coloro che dovrebbero provvedere hanno imparato nulla, dimenticato nulla, perdonato nulla. Dio ce la mandi buona. È proprio tempo di pregare molto e di star preparati a tutto.

Quanto a me, mi sono proposto di non pensare ad altro che alla Diocesi mia, alle Missioni, agli amici che scemano ogni giorno né mi curo di farne di nuovi. Se potessi santificarmi! farmi Santo! hoc est omnis homo.

Beato voi che lo siete sempre stato; io tento diventarlo, ma temo di non potervi giungere, neppure col treno delle merci[60].

 

 

«Sapemmo fare il sacrificio delle nostre convinzioni»

 

Per noi l’ossequio all’autorità del Pontefice non fu iattanza o ipocrisia, ma il criterio fondamentale della nostra azione.

Nelle questioni opinabili e lasciate libere disputationi hominum, seguimmo le soluzioni razionali, e che meglio rispondessero al vantaggio religioso e civile dei popoli. Seguire l’indirizzo che il Pontefice, nella sua scienza illuminata e nella assistenza particolare promessagli da Cristo, ritiene più confacentesi al bene della Chiesa, fu nostra divisa. E quando ci fu noto che qualche nostra opinione particolare non incontrava 1’approvazione dell’autorità ecclesiastica, noi sapemmo fare il sacrificio delle nostre convinzioni proprio in omaggio ad essa e in forza dei nostri principii[61].

 

 

«Mi si impose davvero un eroico sacrificio»

 

Ed ora una parola, Eminentissimo, intorno alla guerra che mi si mosse (...). Si fa a cuore aperto e pel solo amore del bene ciò che permettono o consigliano di fare, e poi non solo abbandonano le povere sentinelle avanzate, ma si uniscono ai nemici a bastonarle, a schiacciarle se fosse possibile, e felice notte. Che ne dice, Eminentissimo? Dal canto mio né stupii né meravigliai delle mene, dei raggiri, delle calunnie del noto partito, né di ciò, come di cosa aspettata, mi dolsi punto; sì mi dolsi e fortemente, anche col S. Padre, ch’essi abbiano trovato ascolto, là ove trovare non dovevano che disprezzo. Avevo in animo di difendermi e scrissi perciò la breve pastorale qui unita. La spedii al S. Padre, il quale dai segni in rosso si vede che la diè da esaminare a non saprei chi, e poi me la rimandò con preghiera di non pubblicarla. Mi s’impose davvero un eroico sacrificio, che accettai unicamente, lo confesso, per amor di Dio[62].

 

«Dio sa quanto farei per riavvicinarti al Vescovo»

 

Non puoi immaginare quanto mi dolga la tua posizione e Dio sa quanto farei per riavvicinarti al nostro Vescovo. Non ti posso dare che un parere solo: recati da lui, che ti accoglierebbe a braccia aperte e mettiti nelle sue mani. Il resto verrebbe dopo senza difficoltà. Credo che egli voglia il tuo bene, quello della Diocesi, divisa e scissa pel dissidio tra te e il vescovo, e della Chiesa. Fatti coraggio: dimentica ogni cosa ai piedi di Gesù Sacramentato: buttati colla faccia per terra innanzi al tabernacolo e son convinto che di là ti verrebbe la luce confermatrice del parere che io ti do[63].

 

 

d) L’AMICIZIA

 

«Omnia mea tua sunt»

 

L’aria, la quiete, la vista, le passeggiate libere e senza soggezioni di sorta gioveranno a me ed anche a voi. Suvvia adunque, non vi lasciate vincere dagli ostacoli: omnia mea tua sunt, e sapete che io vi amo non solo come confratello, ma come un fratello tenerissimo[64].

La vostra lettera scrittami da Milano, sì bella e appassionata, non so per quale inavvertenza rimase unita ad un carteggio che presentai al Papa il quale, leggendo tutto, lesse anche la vostra lettera che gli fece non sgradita impressione, sebbene sì forte. Nella seconda udienza mi parlò del carteggio e della lettera stessa e siccome temevo io che qualche frase lo avesse ferito, presi la parola dicendogli: «Padre Santo! voi avete in Mons. Bonomelli un vescovo veramente dotto, zelantissimo e tutto consacrato al bene della religione non solo, ma un figlio devotissimo e affezionatissimo, che parla schietto quanto gli sembra vero, conservando sempre profondissima sottomissione a Voi...».

Oh sì, interruppe Egli, lo conosco bene il bravo Mons. Bonomelli! e qui si fermò a fare elogi della vostra pietà e dottrina, del vostro zelo, ecc. ecc. la qual cosa quanto mi abbia rallegrato potete immaginarlo[65].

Non ho voluto scrivervi in questi giorni per rispettare il vostro dolore filiale, che sentii nell’intimo del cuore come si trattasse di mio padre. Quanto vi appartiene mi tocca vivamente e celebrando la S. Messa a suffragio del vostro defunto genitore, che ogni giorno ricordo all’altare, non mi dimenticai mai di pregare per voi, il che farete voi pure per me poveretto, che ne sento grandissimo bisogno[66].

In questi due anni ci siamo scritte tante lettere che ormai non si sa più cosa dire. Sapete quante ne ho io delle vostre? 62, sì, dico sessantadue, una più bella dell’altra e tutte coordinate, come le carne di un organo un po’ monotono, a dir vero, perché è quasi sempre la stessa nota che dà il segnale[67].

Il fuoco della nostra amicizia è tanto vasto che nec flumina obruent illum; la legna di cui si nutre venne in questi anni accumulata in tale quantità, e di tale qualità, che per un secolo almeno, ha di che nutrirsi e mandare la più bella vampa del mondo. Però fate bene a svegliarmi, giacché a dirvi la verità, io tratto i miei amici molto, ma molto alla buona. Qualche volta ne ho un po’ di rimorso; il mio segretario di tanto in tanto mi chiede: ha scritto a Cremona? Sicuro, bisogna che scriva, scriverò e intanto volano i giorni, le settimane, e i mesi... Abbiate dunque un po’ di pazienza. Nel resto quando non scrivo dite pure senza tema d’errare: quel povero uomo di Piacenza è in preda alla febbre dell’attività, conviene perdonargli 1’apparente noncuranza del suo più caro amico[68].

Scrivo due righe per augurarvi felicissime le SS. Feste, ricolme d’ogni più eletta benedizione. Gli auguri sono per moltissimi un complimento, un atto di convenienza; ma i miei fatti a voi sono un bisogno del cuore, un’espressione di altissima stima, di profonda e riverente amicizia, d’inalterabile unione[69].

Pensate tutto ciò che vi ha di bello, di buono, di tenero, di sincero ecc. e sottintendetelo come espressione dell’animo mio a vostro riguardo.

Iddio vi accompagni, vi assista, vi benedica e faccia paghi i vostri desideri che sono pure i miei[70].

State tranquillo. La fase che comincia è dolorosa sì, ma piena di luce. Lasciamo fare alla Provvidenza. Quanto a me è inutile vi dica che farei per voi quello che non farei per me stesso. Dà noia quel certo turbamento che è naturale in simili circostanze, ma innanzi tutto la giustizia e la verità[71].

I primi e migliori voti del mio cuore per le sante feste natalizie sono per voi, dimidium animae meae. Le anime nostre sono unite con vincoli misteriosi, ed anche di lontano si parlano e s’intendono sempre.

Avrete pertanto già compreso quanto vi sia riconoscente per il dono del vostro prezioso libriccino. Di salute sto perfettamente bene, sono guarito quasi per incanto, sicché ho ripigliato la mia vita consueta, tenendo però presenti le raccomandazioni degli amici e prima le vostre.

Il Signore vi conceda florida salute, lunghissima vita, ogni più desiderata prosperità, trionfi diplomatici di prima qualità e in grande quantità[72].

L’aver contribuito, benché tanto meschinamente, alle splendide feste del vostro Giubileo, era già per me una delle più grandi soddisfazioni, ma voi avete voluto questa volta farla da principe con un dono veramente magnifico. Esso mi è doppiamente caro, e perché dono vostro, e perché ricordo di uno dei giorni più belli della vostra vita e anche della mia.

Ve ne ringrazio dall’intimo del cuore commosso[73].

Se l’anno scorso di questi giorni, come dite benevolmente, io fui tutto per voi, potete bene esser sicuro che tutto per voi io sono e sarò anche per l’avvenire, anche quando certe sviste pratiche non mi piacciono[74].

 

 

«Le anime non conoscono distanza»

 

Va bene: veniam damus petimusque vicissim. Ma anche questo non istà, poiché io, non tu, ho bisogno di qualche scusa per non averti ancora ringraziato come faccio ora cordialmente e del dono e degli auguri pel mio 25° anno di consacrazione episcopale.

Dico di qualche scusa, perché tra animi legati, come siamo noi, nella carità di Gesù Cristo, molte cose si devono sottintendere e io le sottintendo molto facilmente e così devi fare anche tu. Le anime non conoscono distanza locale, poco abbisognano di lettere, giacché, anche senza di esse, si parlano, si intendono e si aiutano[75].

 

 

e) L’AMORE DEL BELLO

 

«Si conservino le opere di pregio artistico»

 

In questa Diocesi Nostra esistono chiese ed Oratorii di antichissima e pregevole costruzione; quadri, pitture, ed ornati di affreschi bellissimi; monumenti preziosi che si sarebbero dovuti conservare infatti colla massima cura, ma che vennero invece a soffrire non lieve danno, sia per difetto delle necessarie riparazioni, sia per ampliamenti o restauri operati da persone inesperte.

A fine pertanto d’impedire nuovi guasti di simili edifici, mentre si raccomanda ai MM.RR. Parroci ed alle Fabbricerie di nulla omettere di quanto richiedesi per la diligente conservazione dei medesimi, si ordina loro colla presente che, d’ora innanzi, occorrendo bisogno di praticarvi innovazioni di qualche rilievo, invochino prima l’assenso di questo Ordinariato, il quale non sarà per accordarlo se non dietro il giudizio di persona dell’arte e per cui si venga a conoscere con certezza, che i nuovi lavori da eseguirsi non siano per recar danno né all’ordine architettonico del tempio, né ai dipinti pregevoli che potesse contenere.

Si ricorda altresì il principio, che gli oggetti di belle arti esistenti nelle Chiese o negli stabilimenti Ecclesiastici, entrano coi sacri arredi a far parte del patrimonio sì delle une che degli altri, e che perciò nessuno può farsi lecito di vendere o d’alienare tali oggetti, senza prima averne ottenuto speciale permesso dall’Ordinario Diocesano, pena le ecclesiastiche censure.

Si fa quindi caldo appello a chi di dovere, perché con ogni cura si conservino le opere di pregio artistico e rigorosamente si vieta che sotto qualsiasi pretesto si abbiano ad alienare o a trasportare altrove cotesti gloriosi testimoni della pietà e grandezza dei nostri Padri[76].

 

 

«Accrescere decoro alla religione, ma anche all’arte»

 

La festa del mio glorioso antecessore Savino (...) mi porge favorevole occasione di richiamare l’attenzione di lei, M.R. Sig. Prevosto, intorno alle celebre Cripta, che va ormai deperendo, di codesta sua chiesa, affinché vegga, nell’attività del suo zelo, di trovar modo di ridonarla al culto, e così accrescere decoro alla religione non solo, ma all’arte pure, di cui essa Cripta è preziosissimo monumento.

Quell’ipogeo è un monumento preziosissimo, degno di essere riaperto al pubblico, o almeno di essere sottratto al completo scadimento ond’è minacciato. Bisognerebbe perciò, siccome ella vede, ripararlo dall’umidità, ricondurvi l’aria e la luce, e impedire che si sconnettano maggiormente le pietruzze dell’insigne mosaico che osservasi nel pavimento (...).

Io per me non ho parole che bastino per esprimerle, signor Prevosto, l’interesse che m’ispira cotesta sua Basilica.

Allorché, mesi or sono, Iddio ci consolava col farci rinvenire le ossa venerate di S. Savino, circondate dalle piccole, ma antichissime urne contenenti reliquie dei martiri e degli Apostoli, per collocar le quali S. Savino medesimo aveva fatto erigere la detta Basilica degli Apostoli a Le Mose; allorché trovai nel sepolcro stesso del Santo Vescovo il vasetto con l’iscrizione: de sanguine Sancti Antonini Martyris, un senso di stupore e di gioia io provai dentro di me arcano e soavissimo (...). Qual migliore e più propizia occasione per ridonare al culto quella Cripta, ove il glorioso Patrono riposò per tanti secoli, circondato di tanti tesori?

Io non dubito, sig. Prevosto, che in una città come la nostra sì colta, sì gentile, e che sì vivamente s’interessa delle cose patrie, non saranno per mancarle incoraggiamenti, consigli ed aiuti, per parte specialmente di coloro ai quali è affidato il nobilissimo incarico d’invigilare alla conservazione dei pubblici monumenti.

Le dico schiettamente il mio parere. Sarebbe un vero disonore per noi e per tutti lasciar deperire un gioiello sì prezioso quale noi possediamo, e al quale sono legate memorie tanto care per la religione e la patria[77].

 

 

«Il Duomo è la casa di Dio e la casa di tutti»

 

Il Duomo è la casa di Dio e la casa di tutti. Esso forma il vanto e la gloria della nostra città, come ha formato il vanto e la gloria dei padri nostri, che, dopo averlo decretato in un sublime slancio di fede e di orgoglio cittadino, vi profusero tesori per innalzarlo, per conservarlo e per abbellirlo, quantunque, ripeto, non sempre ispirati a quel severo gusto dell’arte che lo aveva pensato.

Il Duomo è il compendio della vita cittadina. Di qui partivano le insegne del nostro libero Comune; qui ritornavano, vincitori o vinti, per ringraziare il Dio delle vittorie, o per attingere nuove forze nella sventura; qui sorgevano i Vescovi difensori e vindici dei comuni diritti; qui da ormai nove secoli i popoli della città e dell’agro piacentino ascoltano la parola dei loro Pastori e ne ricevono la benedizione; qui più frequente e più solenne che altrove si eleva al Cielo l’inno del giubilo e la preghiera espiatrice; qui fra gli archi e le colonne, come tra le braccia della madre, ci sentiamo tutti doppiamente fratelli.

Io non saprei concepire una città italiana senza il suo Duomo; peggio una città che, avendone uno bello e maestoso, lo lasciasse in abbandono, lenta, ma sicura preda del tempo, dappoiché l’una cosa vorrebbe dire che quella città non fu mai viva alla storia, l’altra che in lei è spenta ogni scintilla di quell’ardore religioso e civile che infiammava i padri.

Di Piacenza non può dirsi la prima cosa e non si dirà la seconda. La sua storia è nobile quanto antica, e il suo culto dell’arte e delle memorie patrie è scolpito aere perennius nei suoi monumenti e nei molti pregiati scritti di piacentini che posero l’ingegno ad illustrarli[78].

 

 

«L’arte, figlia della natura, è a Dio nipote»

 

Avete, d’accordo con me, stabilito che questa mostra si tenesse in questo tempio magnifico, quasi a significare che l’arte deve stare nel luogo sacro come in casa propria, perché vi è nata e cresciuta.

Se la religione è figlia prediletta di Dio, l’arte anch’essa è a Lui intimamente congiunta. L’arte, secondo la bellissima espressione dell’Alighieri, come figlia della natura, è a Dio nipote; né senza profonda ragione un’opera d’arte, quando raggiunga i supremi ideali artistici, nel linguaggio comune si chiama divina. L’arte che non si irradia della luce di Dio, non è arte, non rappresenta il bello, che è splendore del vero.

Così pensava lo stesso Alighieri quando con divina mente scriveva: Lume non è se non viene dal sereno che non si turba mai... Raffaello Sanzio, in un momento di sublime ispirazione, dipinse appiè della nostra mirabile Madonna di S. Sisto, ahimè non più nostra, quell’angioletto che, sporgendo da una piccola nuvola, quasi fanciullo affacciato al verone, col bellissimo viso levato in alto, sta immoto e pensoso contemplando il cielo.

Ebbene, quella stupenda creazione adombra anch’essa maravigliosamente la verità che in questa fausta occasione io godo di ricordarvi: cioè l’arte, per essere vera ante, deve tener l’occhio sempre rivolto al sole della bellezza eterna, infinita. Al pari di quell’angelo, l’arte poggiando sulla materia, da lei innanzi purificata e resa lieve come bianco velo di nuvola, guarda rapita il cielo, e al cielo solleva i pensieri e gli affetti dell’uomo, maestra di virtù, fautrice potente di civiltà e di ordine, ispiratrice di candidi e miti costumi, angelo che nei sentieri del bello scorge le anime alla sorgente dei più puri e dei più sublimi ideali[79].

 

 

«L’impronta di Dio»

 

O madri! parliamo ai nostri figli di Dio, prendendo occasione da tutto quello che li può impressionare.

Parliamo ai nostri figli di Dio nel silenzio contemplativo di una notte serena, in mezzo al fragore del tuono, e sulle coste solitarie del mare.

Parliamo loro di Dio quando al finire di un giorno d’autunno, noi vediamo per gl’interposti vapori, quasi a traverso un sottil velo apparir le colline, i boschi, le valli e tutti gli oggetti, al riflesso di quella melanconica luce, prendere vari colori e molte forme.

E allorché sulla sera il suono delle campane, il lontano rumore delle acque cadenti e il mormorio delle foglie, dolcemente ne invitano alla mestizia, parliamo loro di Dio.

E se vediamo le loro menti commoversi ed intenerirsi ai prodigi dell’arte, alle melodie della musica, all’udire qualche fatto glorioso, qualche prova d’altra virtù, ah, non lasciamo di parlar loro di Dio!

Mostriamo ad essi in tutte le cose l’impronta della bontà, della grandezza, della onnipotenza di Lui; e dall’armonia che insieme lega e congiunge le varie parti dell’universo, facciamo loro dedurre l’obbligo imposto all’uomo di vivere in armonia col fine per il quale fu creato (...).

Ricordatevi però che nel cristianesimo il vero culto non si restringe ad un sentimento vago, ma si palesa e si mantiene colle pratiche esteriori.

Dovete pertanto precederli coll’esempio nell’esercizio di ogni opera buona[80].

 

 

«La musica è un’arte divina»

 

Non è l’uomo soltanto che dalla Cattedra parla all’uomo di Dio; ma tutto ciò che in questo universo si agita, si vede, si tocca e si ascolta, ha una missione divina e sovrannaturale per elevarci all’intelligenza e all’amore delle cose celesti. Ciò che faceva esclamare a S. Leone: E che vi ha al mondo che non serva di strumento all’eterna Verità? Quid est, per quod Veritas nobis non loquitur?

E ancor più le arti belle, creazione ed opera del genio dell’uomo, ci rivelano l’Eterna Bellezza, da cui ritraggono i loro ideali e riscuotono i loro trionfi. Ma più di tutte è la Musica, che il Cristianesimo sollevò in alto e la rese una leva potente per innalzare le anime gentili a Dio, portandole nelle regioni dell’infinito.

La Musica è un’arte divina, perché Dio è una melodia eterna fra le tre Persone dell’adorabile Trinità. Ogni nota, ogni accordo di musica è un’eco dell’armonia cosmica, che sembra avere la sua sorgente nel Cielo e nella eternità. Essa raccoglie gli slanci, i palpiti, le aspirazioni, le gioie e i dolori delle anime e li espone, li interpreta, li rende sensibili, li riassume in forma eterea. I deliri della vittoria e le vergogne della disfatta, le esplosioni della collera e le tenerezze dell’amore, il gemito degli sventurati e i tripudi dei gaudenti, le lacrime delle cose e il grido dei derelitti, tutto riassume ed esprime la musica in un linguaggio ineffabile purissimo[81].

 

 

«Vivendo la vita dei Santi: symphonialiter»

 

Minate quest’organo, è l’immagine della vita cristiana, quale Iddio l’ha costituita. Nell’organo esistono mille suoni diversi: ciascuna canna ha la sua forma, ciascuna linguetta ha il suo timbro, ciascuna apertura ha la sua grandezza, ciascun giuoco ha la sua variazione e quando tutto è mosso da un principio intelligente, ne risultano meravigliosi accordi.

Così ciascuno di noi abbiamo la nostra vocazione, il nostro carattere, i nostri doveri; adempiamoli secondo il volere di Dio e tutte le nostre opere formeranno un’armonia celeste, che ci farà lieti di grazie superne.

L’universo intero a ciò ci invita: egli è un’armonia infinita, un concento e sarà tale quando saremo in pace perenne.

Sia l’anima nostra un’armonia vivente con Dio, coi fratelli, con noi stessi, vivendo così la vita dei Santi: symphonialiter.

Gesù Cristo è appellato l’arte sovrana del Padre, la fonte e la sorgente d’ogni armonia, ed e in nome di G.C. che io benedico a questo novello musicale strumento, facendo voti che come udiremo a momenti le sue armonie quaggiù nella Gerusalemme terrena, così siamo tutti ammessi alle eterne armonie della Gerusalemme celeste[82].

 

 

«Sia l’anima symphonialis»

 

Abbiamo sentito delle poesie stupende e della musica più stupenda ancora. Ebbene che i fiori della poesia si convertano per tutti noi in frutti sempre più copiosi di opere buone; che l’anima nostra sia piena sempre dell’armonia che scende dall’alto, sia l’anima symphonialis, di cui parla un antico Padre; che tutta la nostra vita sia come una musica, un inno di gloria all’Altissimo[83].

 

 

«Si dia al popolo la più larga parte nei canti»

 

Diasi al popolo la più larga parte in quei canti che la Chiesa a lui permette, anzi desidera che da lui si eseguiscano. Si lasci, oh, si lasci che esso manifesti e sfoghi così la sua pietà e la sua fede! che trovi così un sollievo, un conforto ai suoi affanni nelle miserie della vita! E quale canto più spontaneo, più imponente e più sublime che il canto unissono di tutta una moltitudine radunata nel medesimo luogo, animata dal medesimo spirito, partecipe dei medesimi divini misteri?

Le splendide nostre cattedrali, dirò con un’anima fervente, le nostre più umili chiese parrocchiali, dove vive Gesù Sacramentato, reclamano gli antichi canti, i canti della fede a cui si univano le mille voci; il popolo dei nostri tempi ha bisogno di abbandonare i falsi tumulti, le grida briache e sediziose dei giorni festivi, per tornare al pacifico, consolante e puro canto della Chiesa; il popolo sente il bisogno che lo si istruisca a lodar Dio e gli si spieghino i sublimi sensi degli inni che per lui furono composti; ha bisogno che gli si insegnino le dolci melodie della Chiesa, per partecipare agli onori e alle adorazioni che devonsi a Gesù, chiuso prigioniero nel santo Tabernacolo per amore del popolo (...).

Allora le chiese non saranno deserte, allora le funzioni religiose e solenni non saranno abbandonate, allora i fanciulli e le fanciulle impareranno presto le melodie ecclesiastiche e, con esse, il perché dei riti e il senso dei cantici della Chiesa; allora non vi sarà necessità di gravi spese per musiche troppo frequentemente lunghe e indevote; ma tutti, tutti (come si usa in varie parrocchie e cattedrali di Francia ed anche della nostra Italia), possibilmente col proprio libro in mano, uomini, donne, magistrati, nobili, soldati, fanciulli e verginelle, riuniti in un sol coro, alterneranno coi ministri dell’altare le lodi, le benedizioni, le preci, le adorazioni a Gesù Sacramentato in quel canto approvato dalla Chiesa, modulato secondo i propri sentimenti, studiato da fanciulli nelle scuole di canto della parrocchia e facente parte di quel patrimonio di tradizioni dolci, soavi e care, per cui sono grandi e benedetti i popoli[84].

Torna all’Introduzione

 

 

 

 

 



1 Azione Cattolica, Piacenza 1896, pp. 5-6.

2 Ibid., pp. 6-8.

3 Ibid.,pp. 12-13.

4 Associazioni Cattoliche. Discorso del Santo Padre, Piacenza 1885, pp. 4-7.

5 Azione Cattolica, Piacenza 1896, pp. 3-5.

6 Ibid., pp. 13-14.

7 Circolare del 7.2.1898, Piacenza 1898, pp. 23-24.

8 Apertura IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 11.6. 1897 (AGS 3028/18).

9 Seduta I annuale dei Comitati parrocchiali (1882?) (AGS 3018/18.

10 Lett. a Leone XIII, 18.6.1896 (ASV-SS. Rub. 100/1899, fasc. 4, Prot. N. 52038).

[1] Il socialismo e l’azione del clero, Piacenza 1899 (I edizione), pp. 3-4.

[2] Ibid., pp. 6-8

[3] Ibid., p. 8.

[4] Ibid., p. 13.

[5] Ibid., p.41.

[6] Ibid., pp. 42-43.

[7] Ibid., pp. 43-44.

[8] Ibid., pp. 45-47.

[9] Centenario di S. Luigi - Enciclica del S. Padre - Obolo dell’amor filiale, Piacenza 1891, pp. 6-9. Lo Scalabrini presenta l’Enciclica Rerum Novarum.

[10] Ibid., pp. 9-10.

[11] Ibid., pp. 10-12.

[12] Lettera ai piacentini, pubblicata sui giornali locali del 4 maggio 1898, in occasione dei «moti del 1° maggio» del 1898, che a Piacenza si avverarono tra il 2 e il 4 maggio e provocarono tre morti (cfr. Biografia, pp. 826-833).

[13] Circolare del 22.8.1903. Per l’Opera pro Mondariso cfr. Biografia, pp. 847-852.

[14] Discorso per l’VIII Centenario della I Crociata, 21.4.1895 (AGS 3018/26).

[15] Ibid.

[16] I conferenza sull’emigrazione, 8.2.1891 (AGS 5/3).

[17] Unione, azione, preghiera, Piacenza 1890, p. 8.

[18] Lett. a G. Bonomelli, 1.11.1886 (Carteggio S.B., pp. 188-189).

[19] Id. 16.8.1887 (ibid., p. 220).

[20] Lett. a Leone XIII, agosto 1882 (ibid., p. 66). Per lo Scalabrini l’unica via per sciogliere la «questione romana» e allontanare i danni che essa provoca alla Chiesa in Italia era la conciliazione tra la S. Sede e lo Stato italiano, da prepararsi con la partecipazione dei cattolici alla vita politica, partecipazione vietata dal non expedit.

[21] Lett. dei vescovi della Provincia Modenese a Leone XIII, 1887 (AGS 3019/2), redatta da Mons. Scalabrini. Il documento fu scritto in seguito all’allocuzione di Leone XIII sul «funesto dissidio» e alla successiva Circolare del Card. Rampolla (cfr. Biografia, pp. 685-688).

[22] Lett. Past. del 16.9.1895, pp. 2-3.

[23]  Lett. Past. di Monsignor Vescovo di Piacenza. 15 Agosto 1881, Piacenza 1881, pp. 5-6. La notte del 13 luglio 1881 gli anticlericali di Roma tentarono di gettare nel Tevere la salma di Pio IX, mentre se ne faceva la traslazione a S. Lorenzo al Verano.

[24] La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 18-22.

[25] Pel suo ritorno da Roma, Piacenza 1882, p. 15.

[26] Cattolici di nome e cattolici di fatto, Piacenza 1887, p. 23.

[27] G. Borelli, Il clero cattolico e le condizioni politico-sociali d’Italia. Un colloquio con Mons. Scalabrini, Vescovo di Piacenza, «L’Alba», 15.7.1900.

[28] La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 16-17.

[29] Il Concilio Vaticano, Como 1873, pp. 204-205.

[30] Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, p. 5.

[31] G. Borelli, op. cit.

[32] Ibid.

[33] Lett. a Leone XIII, agosto 1882 (Carteggio S.B., pp. 65-66).

[34] Lett. a G. Bonomelli, 9.10.1882 (ibid., p. 75).

[35] Lett. a Leone XIII, 24.6.1886 (ASV-SS, Leone XIII, Miscellanea, D.D. Albertario, IX, A.).

[36] Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, pp. 31-33.

[37] Lett. a un marchese, minuta s.d. (AGS 3021/17).

[38] Lett. al Card. D. Svampa, 29.11.1903 (cit. da L. Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista, Parma 1968, p. 225). II XIX Congresso Cattolico nazionale di Bologna, del 10-13 novembre 1903, fu turbato dalle polemiche tra l’ex-presidente G.B. Paganuzzi e il nuovo presidente G. Grosoli.

[39] Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, pp. 28-29.

[40] Lett. a G. Bonomelli, 19.1.1892 (Carteggio S.B., p. 292).

[41] L’Italia all’estero, Torino 1899, p. 12.

[42] Il disegno di legge sulla emigrazione italiana, Piacenza 1888, p. 46. Il «caro amico» era l’on. Paolo Carcano, deputato socialista, già compagno di scuola dello Scalabrini a Como.

[43] Omelia di Pentecoste, 1881 (AGS 3016/6).

[44] Omelia di Pentecoste, 1880 (AGS 3016/6).

[45] Lett. a Leone XIII, 26.9.1881 (AGS 3042/2). Per le relazioni tra lo Scalabrini e lo Stoppani, cfr. Biografia, pp. 700-709.

[46] Lett. a L. Arosio, 11.3.1884 (AGS 3022/2). D. Luigi Arosio scrisse opere di divulgazione teologica.

[47] Lett. al Card. L. Jacobini, 8.4.1883 (Carteggio S.B., pp. 120-121). Il «prete» cui accenna l’Autore e D. Davide Albertario (cfr. Biografia, pp. 562-565).

[48] Lett. a G. Bonomelli, 7.5.1882 (ibid., p. 54). «Quella gente»: gli «intransigenti» estremisti.

[49] Id., 25.11.1882 (ibid., p. 80).

[50] Id., 30.12.1882 (ibid., p. 84).

[51] Id., 1.2.1883 (ibid., p. 95).

[52] Lett. a G. Alessi, settembre 1891 (AGS 3022/12). Mons. Giuseppe Alessi, fondatore della Scuola di Scienza della Religione per gli studenti universitari di Padova, fu avversato dagli «intransigenti», ma sostenuto dal vescovo di Padova.

[53] Lett. a G. Bonomelli, 19.9.1882 (Carteggio S.B., p. 71).

[54] Id., 6.6.1889 (ibid., p.255).

[55] Id., 28.3.1882 (ibid., pp. 52-53). Il «giornale» era «L’Osservatore Cattolico» (cfr. Biografia, pp. 704-711). «Devoto senza misura e senza misura libero»: così Antonio Fogazzaro definì lo Scalabrini.

[56] Lett. a Mons. G. Boccali, 29.11.1881 (ibid., pp. 41-43). Lo Scalabrini spiega al segretario particolare di Leone XIII i motivi per cui dovette protestare pubblicamente contro le ingerenze de «L’Osservatore Cattolico» in affari interni della diocesi (cfr. Biografia, pp. 496-531). Il «noto religioso» sembra essere P. G. M. Cornoldi S. J.

[57] Lett. a V. Papa, gennaio 1886 (AGS 3043/1). D. Vincenzo Papa era il direttore della rivista rosminiana «La Sapienza».

[58] Universo Nostro Clero, Piacenza 1888, pp. 1-2 (trad. dal latino). La circolare fu scritta per comunicare il decreto Post obitum, che condannava 40 proposizioni tolte dalle opere postume del Rosmini.

[59] Lett. al Card. P.M. Schiaffino, 29.11.1886 (AGS 3026/4).

[60] Lett. a G. Bonomelli, 24.1.1897 (Carteggio S.B., p. 338).

[61] Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, pp. 30-31. L’«opinione particolare» era quella dell’opportunità di permettere ai cattolici italiani di adire alle urne politiche.

[62] Lett. al Card. P.M. Schiaffino, 21.1.1887 (AGS 3020/4). Lo Scalabrini avrebbe voluto difendersi pubblicamente dalle pubbliche accuse di avere disobbedito al non expedit (cfr. Biografia, pp. 666-676).

[63] Lett. a C. Crosta, 1902 (AGS 3045/4). Il comasco D. Clino Crosta fu alunno dello Scalabrini e autore di un diffuso manuale di teologia dogmatica.

[64] Lett. a G. Bonomelli, 19.6.1882 (Carteggio S.B., p.59).

[65] Id., 9.10.1882 (ibid., p. 76).

[66] Id., 25.4.1883 (ibid., p. 123).

[67] Id., 17.9.1883 (ibid., p. 136).

[68] Id., 27.11.1883 (ibid., p. 139).

[69] Id., 21.12.1883 (ibid., pp. 140-141).

[70] Id., 19.9.1887 (ibid., p. 223).

[71] Id., 17.4.1890 (ibid., p. 267).

[72] Id., Natale 1892 (ibid., p. 336). Al Bonomelli era stata prospettata una missione diplomatica nell’America Centrale.

[73] Id., 3.12.1896 (ibid., p. 336).

[74] Id., 21.6.1900 (ibid., p. 361). Le «sviste pratiche» si riferiscono alla fondazione dell’Opera Bonomelli per gli emigrati in Europa: lo Scalabrini non riteneva opportuno che fosse presieduta da laici, tanto più che erano filoliberali (cfr. Biografia, pp. 779-783).

[75] Lett. a L. Cornaggia Medici, 21.2.1901 (Archivio Liberiano di Roma). Mons. Luigi Cornaggia Medici, legato da amicizia con lo Scalabrini ancor prima di diventare sacerdote, scrisse, fra l’altro, Antesignani della Conciliazione, Fidenza 1936. Fu canonico della Basilica di S. Maria Maggiore in Roma.

[76] Circolare del 22.3.1879, pp. 1-3.

[77] Lett. al prevosto di S. Savino, 17.1.1881, pubblicata sui giornali.

[78] Pel nostro Duomo, Piacenza 1894, pp. 4-5. Il restauro del Duomo di Piacenza fu compiuto negli anni 1897-1902.

[79] Discorso per l’inaugurazione dell’Esposizione di Arte Sacra, 6.9.1902. La Madonna Sistina di Raffaello, sottratta alla basilica piacentina di S. Sisto, si trova nella pinacoteca di Dresda.

[80] Educazione cristiana, Piacenza 1889, pp. 31-35.

[81] Discorso di inaugurazione del pulpito e dell’organo del Duomo, 4.12.1901 (AGS 8/8).

[82] Per l’inaugurazione di un organo (AGS 3018/10).

[83] All’Accademia per il giubileo episcopale, 1901 (AGS 3018/13).

[84] Circolare del 7.2.1898, pp. 21-22.