PARTE II

 

UOMO DELLA CHIESA  E PER LA CHIESA

 

 

 

L’ecclesiologia dello Scalabrini va letta alla luce delle acquisizioni teologiche della sua epoca, codificate nelle due costituzioni del Concilio Vaticano I, ma già animate da fermenti precorritori del Vaticano II, non espressi sufficientemente nel primo Concilio Vaticano a causa della sua forzata interruzione.

Nelle numerose pagine dedicate alla Chiesa, conviene enucleare i punti che dall’ecclesiologia corrente il vescovo scelse come principi ispiratori della vita e dell’azione episcopale. In un quadro sostanzialmente verticale dell’ecclesiologia, risaltano tuttavia la concezione della Chiesa come estensione dell’Incarnazione di Cristo, continuazione della sua vita terrena, sua manifestazione permanente fra gli uomini, famiglia di Dio, corpo di Cristo, comunione dei santi.

Sono elementi illuminanti della «passione» dello Scalabrini per la Chiesa, per la Chiesa universale, di cui sente l’intera sollecitudine, e per la Chiesa particolare, amata come sposa, difesa gelosamente da ingerenze estranee («extragerarchiche»), in base a un concetto dell’episcopato non tanto giuridico quanto teologale: il vescovo è mediatore della grazia.

In base alla dottrina del Concilio Vaticano I, l’attenzione dell’Autore si concentra sulle «prerogative» del Papa, primato e infallibilità, con l’amore e l’orgoglio del figlio che sente propria la gloria del padre e con la fede del cristiano che nel Papa glorifica Cristo. Fede e amore si traducono in obbedienza filiale, né servile né adulatrice.

Lo Scalabrini «sa di essere vescovo» e ne rivendica l’autorità divina, modellata sul «Vescovo delle anime nostre»: l’autorità è servizio, paternità, dedizione, responsabilità e corresponsabilità «per la gloria di Dio e la salvezza delle anime», per gli «interessi di Gesù Cristo e della sua Chiesa». La stessa natura sacramentale della Chiesa è espressa nella gerarchia: il «principio gerarchico» è garanzia della trasmissione della grazia mediante i canali istituiti da Cristo: Papa, vescovo, sacerdote.

Il laico è più beneficiario che protagonista, ma è anch’egli sacerdote e apostolo, mediatore del vescovo e del sacerdote presso il mondo, come il vescovo è mediatore di Dio e del Papa presso i presbiteri e i laici.

La dottrina del «tramite», cioè del vescovo unico mediatore legittimo tra il Papa e i fedeli, oggi ridimensionata, è sostenuta da Mons. Scalabrini per affermare e difendere il principio, messo praticamente in discussione dalla corrente «intransigente», che nel campo della coscienza l’unico legislatore e giudice competente è per la Chiesa universale il Papa e, per la Chiesa particolare, il vescovo in comunione col Papa.

L’appartenenza e l’unione alla Chiesa, cioè all’insieme di tutti i cristiani ecclesiastici e laici, non è frutto di mera «sudditanza», ma si realizza pienamente mediante la «triplice unione di fede, di comunione e di sudditanza», unione «di fede, di carità, di obbedienza» al Papa e alla Chiesa, che assicura l’unione di vita e di grazia col Capo, Cristo.

 

 

 

 

1. LA CHIESA

 

La Chiesa è estensione dell’Incarnazione lungo i secoli, continuazione dell’opera del Redentore, ritratto di Cristo, prolungamento della Pentecoste, corpo di Cristo.

La Chiesa è madre: come tale dobbiamo amarla, abbandonandoci nelle sue braccia con fiducia filiale.

La Chiesa è santa nella dottrina, nei sacramenti, nelle leggi: è madre di santità e comunione di santi.

La Chiesa è una di fede, di comunione, di regime, di mezzi di salvezza. È la famiglia di Dio, la città di Dio. È una ma varia: è un attentato alla sua unità il non riconoscere la varietà dei carismi e delle funzioni. È una nella carità fondata sulla verità, che non può essere tradita né taciuta.

La Chiesa è maestra infallibile, immutabile nella fedeltà al deposito della fede, dinamica nella fedeltà allo Spirito. Sposa dell’Agnello, è Regina, cui si deve obbedire se si vuole obbedire a Cristo, a costo anche della vita e del sacrificio delle proprie idee. Ma la sua legge è la carità, la sua vita è l’amore. Chi non ama e non perdona non è nella Chiesa.

 

 

a) CONTINUAZIONE DELL’INCARNAZIONE

 

«La Chiesa è la estensione della Incarnazione lungo i secoli»

 

Ben fu detto non essere la Chiesa altro che la estensione morale della Incarnazione lungo il corso dei secoli. E siccome in Cristo l’umanità e la divinità, benché distinte, sono però intimamente unite e inseparabili, così la Chiesa, che lo rappresenta, ne continua l’opera, ne produce gli stessi effetti sovrumani, è a un tempo divina ed umana. Più chiaramente: la Chiesa, che riguardata nel suo fine è una società spirituale, diretta alla santificazione e salute eterna delle anime, ha però anche una parte materiale visibile ed esterna, principalmente in ragione dei membri che la compongono, gli uomini cioè, i quali non sono puri spiriti, ma esseri composti di anima e di corpo. E come la riparatrice missione dell’Uomo-Dio, sebbene intesa al riscatto e alla salute delle anime, fu sotto le forme corporee e sensibili della incarnazione, predicazione, passione, morte, risurrezione, così a forme materiali e sensibili Egli volle legare gli atti della sua Religione, e gli ordinarii mezzi di santificazione: culto, magistero, Sacramenti. Perché in questa religiosa società si scorge una parte spirituale, che anima della Chiesa si definisce; ed è quella che vivifica, informa e regge tutte le mistiche membra, e le mette in comunicazione col suo divin Capo e tra loro, ed opera quel beato scambio di meriti e di dovizie, che Comunione dei Santi si appella, e che abbraccia tutti i giusti e amici di Dio, non solo pellegrini nel mondo, ma quelli altresì che, varcata la mortale carriera, toccarono già la patria; o temporaneamente sono trattenute nel Purgatorio a finale sconto delle loro colpe. A questo si appartiene tutto che la Chiesa tiene d’interno e spirituale: la fede, la carità, la speranza, i doni della grazia, i carismi, i frutti del divino Spirito e tutti i celesti tesori che pei meriti di Cristo Redentore e dei servi suoi le sono derivati. Forma poi come il corpo della Chiesa l’altra parte, che consiste in ciò che essa tiene di visibile ed esterno, sia nell’associazione dei congregati, sia nel culto e nel ministero d’insegnamento, sia nel suo esterno ordine e regime. Nel modo poi che queste due essenziali parti, costituenti la Chiesa, sono tra loro inseparabilmente congiunte, come è l’anima col corpo, così tra membro e membro, tale per la carità deve regnare un’armonia e reciprocanza di uffici, che renda immagine dell’unità di cui consta il fisico individuo, come appunta la descrive l’Apostolo dicendo che «da Cristo nostro Capo tutto il corpo compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione in virtù della proporzionata operazione di ciascun membro, prende l’aumento proprio del corpo mediante la carità»1.

 

 

«La Chiesa è la vera immagine del suo fondatore»

 

La vita della Chiesa emana direttamente da un principio divino, che informa e governa l’organismo umano di lei, la totalità dei fedeli, in cui si atteggia, sublimandola così a società di natura affatto diversa dalle altre, perché società terrrena-celeste, vera immagine quindi del suo fondatore Uomo e Dio insieme. Sicché può dirsi quasi una vivente incarnazione di Cristo sulla terra, una continuazione della vita mortale di lui; Gesù Cristo diffuso e comunicato in tutta la sua pienezza. La vita della Chiesa infatti è radicalmente lo spirito di Dio, secondo l’Apostolo: Multi unum corpus sumus in Cristo: haec omnia operatur unus atque idem Spiritus2.

 

 

«La Chiesa è continuazione perpetua dell’opera del Redentore»

 

La depositaria e la dispensatrice dei Sacramenti è la Chiesa, continuazione perpetua dell’opera del Redentore e del Santificatore degli uomini sopra la terra. Dunque è la Chiesa che ha come le chiavi di questo canale, è la Chiesa che, per mezzo dei Sacramenti, attinge dal seno di Dio la grazia santificante e la fa scorrere, a somiglianza di fiume, nell’anima del cristiano (Is. XLV, 3). Qual altro dono inestimabile quindi non ci ha fatto Gesù Cristo nel fondare quaggiù la sua Chiesa e nell’averci fatti crescere nel suo grembo? Infatti è in grembo a Lei solamente ch’egli effonde i suoi carismi. Oggetto delle sue compiacenze, pupilla degli occhi suoi, palpito del suo cuore, la Chiesa è l’unica sua colomba, l’unica sua perfetta, sposa insieme e sorella (Cant. passim). È uscita dal suo costato, è imporporata del suo sangue divino, è santa, è immacolata (Eph. VI, 25). Oh Chiesa, oh Chiesa, quanta sei cara a Gesù! Quanto fortunati siamo noi di esserti figli! Nella Chiesa abbiamo tutto che può guidarci all’eterna salute, fuori di essa oscurità, desolazione e morte3.

 

 

«Gesù Cristo si è ritratto nella sua Chiesa»

 

Nella creazione dell’universo Dio stampò come un’orma della sua gloria, e soprattutto nella creazione dell’uomo, che ne è il capo, Egli ha ritratto la immagine viva del suo essere. Gesù Cristo si è ritratto nella sua Chiesa. Ha fatto il mondo delle anime a sua immagine, gli ha dato l’unità perché è uno, la santità perché è santo, l’autorità perché è il Signore, l’universalità perché Egli è il Dio immenso, la perpetuità perché è il Dio eterno; e come, creando i mondi, egli ha messo in opera la forza di attrazione, la quale fa sì che gravitino verso un centro comune, così, nella creazione della Chiesa egli ha diffuso la sua grazia, cotesta legge di attrazione spirituale, che fa essa pure gravitare l’anima verso Colui, che è il centro comune delle intelligenze, Iddio; ha messo nella Chiesa la sua grazia, cotesta forza arcana, che le imprime il moto e la vita4.

 

 

«I destini di Cristo e della Chiesa sono inseparabili»

 

I destini di Cristo e della sua sposa sono inseparabili. Quello che avvenne al corpo fisico e materiale di Gesù Cristo è presagio di ciò che avviene e sempre avverrà nel corpo suo spirituale e mistico, che è appunto la Chiesa. Il corpo di Cristo fu dato alle contumelie, ai flagelli, alle percosse; e alle contumelie, alle percosse, ai flagelli è data bene spesso la Chiesa. Il corpo di G.C. fu sospeso alla croce, agonizzò, morì, fu sepolto; e crocifissa, agonizzante, e quasi moribonda appare talvolta la Chiesa. Aspettate. Gesù Cristo esce dalla tomba glorioso, impassibile, immortale, proprio in quella che i suoi nemici si credono di averlo sepolto per sempre; è in quella appunto che gli odierni nemici si danno a credere di aver spento per sempre la cattolica Chiesa, eccola rialzarsi più gloriosa, più forte, più bella di prima5.

 

 

«La Chiesa è una Pentecoste prolungata»

 

La Chiesa Cattolica, come ebbe la sua prima origine nella Pentecoste, così ella è, si può dire, una Pentecoste prolungata attraverso dei secoli. Assistita di continuo dallo Spirito Santo, fa intendere a tutti l’autorevole sua voce, predica a tutti le stesse verità, intima a tutti gli stessi precetti. Gli uni piegano umilmente la fronte, adorano e obbediscono; gli altri per lo contrario la deridono e si recano a vanto di non crederle. Donde mai una tale differenza? Perché tanti e tanti, specialmente ai nostri giorni, macchiano la loro lingua e la loro penna di errori e di bestemmie incredibili e smarriscono la fede? Non per altro se non perché è macchiato il loro cuore. Tale è la sentenza infallibile di Gesù Cristo (...): Lux venit in mundum et dilexerunt homines magis tenebras quam lucem, erant enim eorum mala opera. È dalla corruzione del cuore che trae origine l’incredulità6.

 

 

«Siamo un solo corpo in Gesù Cristo»

 

Siamo un sol corpo in Gesù Cristo, e come nel corpo umano non ogni membro ha una medesima operazione, così non ogni membro della Chiesa esercita il medesimo ufficio. Vi è nel corpo umano un capo che collocato in alto sovrasta a tutte le altre membra e le avviva e le dirige e le governa; e nella Chiesa, corpo mistico di Gesù Cristo vi è (...) il Pontefice Romano, capo visibile di questo gran corpo, che ha supremo ed universale governo sopra tutte le membra, le quali si unificano in lui. Vi sono Vescovi, subordinati al Romano Pontefice, ma reggitori supremi di quella parte del cattolico ovile che da lui, Pastore universale, ricevettero in cura, e si direbbero gli occhi di questo corpo medesimo. Seguono i sacerdoti e gli altri ministri inferiori che ne sono, in così dire, le braccia; da ultimo i fedeli tutti che ne sono la pienezza e il complemento.

Così sorge una catena che, partendo dal Papa, arriva ordinatamente e gerarchicamente sino all’ultimo contadinello, il quale mentre conduce faticosamente l’aratro nel suo campo, se ha lo spirito di Gesù Cristo, si sente unito, a quel modo che ci sentiamo uniti noi stessi, di fede, di carità, di obbedienza col Papa e con la Chiesa. Oh! quanto vorremmo che vi deliziaste spesso in questo pensiero, così maravigliosamente bello e commovente! E non è forse maraviglioso e commovente il fatto di questa immensa famiglia di credenti sparsi per tutto il mondo, che recitano tutti il medesimo simbolo, che si rallegrano tutti delle medesime speranze, che frequentano tutti i medesimi Sacramenti, che riconoscono tutti il medesimo Sacerdozio, che offrono tutti il medesimo Sacrifizio, che obbediscono tutti alla medesima legge, che ascoltano tutti la medesima voce del comun Padre (...)?

E non è dolce per voi, o poverelli, figli Nostri amatissimi, quando vi raccogliete nei giorni festivi nel tempio per assistere ai divini misteri, non è dolce per voi sapervi in comunione con tutto il mondo, figli tutti della stessa madre, che tutti egualmente senza distinzione di nascita, di grado e di educazione, tutti chiama a guadagnarsi, coll’esercizio delle buone opere, la medesima beata immortalità? Non è dolce per voi il sapervi in comunione d’affetti non solo con la Chiesa che combatte quaggiù le gloriose battaglie del Signore, ma con quella altresì che esulta trionfante nel Cielo? il sapere che quello che credete voi, è quello stesso che fu creduto da tutte le generazioni in tutti i secoli? (...).

Oh salve, una, santa, cattolica, apostolica Chiesa! Tu maestra, tu regina, tu madre, tu il corpo mistico di Gesù Cristo vivente nei secoli. Da te la nostra salvezza, la nostra gloria, la nostra pace, la nostra gioia, la nostra felicità, la nostra vita. Come nostra maestra ti ascolteremo, come nostra sovrana ti obbediremo, come nostra madre ti ameremo, come corpo di cui siamo membri ti verremo in aiuto e ti difenderemo7.

 

 

 

b) MADRE NOSTRA

 

«Guardiamo in volto la nostra Madre!»

 

Siamo figli della Chiesa cattolica; questo solo bastar non dovrebbe a riscuoterci una volta? Guardiamola in volto la nostra Madre, e vergognamoci di aver fatto sin ora così poco per lei!

Che è essa? È l’opera del miracolo, è anzi ella stessa un miracolo. Miracolo stupendo nella sua origine, miracolo singolare nella sua propagazione, miracolo permanente nella sua durata. Come nacque infatti? Nacque, si può dire, a forza di miracoli, senza il minimo appoggio umano, malgrado anzi gli sforzi di tutto l’inferno fremente intorno la sua culla, e ad onta di ostacoli immensi, incredibili, non superabili da virtù alcuna creata. Sorretta unicamente dal braccio di Dio, non ostante tutte le potenze, tutti i pregiudizii, tutte le passioni, tutti gli errori del mondo, insieme congiurati ai suoi danni, nonostante le persecuzioni d’ogni sorta mossele contro dalla barbarie, dall’astuzia e dall’orgoglio, come lampo che guizza da oriente ad occidente, ella si propaga mirabilmente, si estende pel mondo tutto, e, sempre in mezzo ai più tremendi assalti, sempre in mezzo ai contrasti più fieri, tranquilla e serena si avanza, attraversa maestosa il corso di tanti secoli, sussiste immobile, si mantiene invincibile, si conserva incorrotta e gloriosamente trionfa di ogni genere di nemici (...).

E non è questa una continua catena di portenti inenarrabili, che toccar ci fanno con mano l’opera dell’Eterno, la potenza di Cristo, la forza, la virtù, l’onnipotenza divina, comunicata, trasfusa, incarnata nella Chiesa? E non dovremo noi piegar la fronte e curvar riverenti le ginocchia innanzi a questa Regina immortale dei secoli, innanzi a questa immacolata Sposa di Cristo, innanzi a questa Signora sovrana di tutti i regni, di tutte le età, di tutte le genti? Non ci terremo noi altamente onorati di appartenerle? non vorremo por mano efficacemente alle opere della sua gloria?8

 

 

«Madre nostra è veramente la Chiesa»

 

Vi stia sempre, o figli cari, fissa nella mente la grande sentenza del martire S. Cipriano: Non può avere Iddio per padre, chi non ha la Chiesa per madre.

E madre nostra è veramente la Chiesa, fratelli e figliuoli carissimi. Non è una frase oratoria questa; è una dottrina strettamente dogmatica.

Come nell’ordine naturale fra noi e Dio creatore stanno i genitori, e sta la serie dei padri nostri, onde ci congiungiamo al primo uomo, Adamo, così, scrive un grande, tra noi e Gesù Cristo, nell’ordine sopranaturale della fede e della grazia, sta una madre, che è vergine, ed è appunto la Chiesa. Ella per la serie non interrotta delle spirituali generazioni risale agli apostoli ed a Gesù Cristo. Come l’onda della vita naturale si spande da Dio in tutto il creato per l’opera necessaria dei genitori secondo la carne, così l’onda della vita soprannaturale e divina si spande da Cristo in tutti i credenti per l’opera egualmente necessaria della Chiesa, che è Sposa di Lui, e perciò madre nostra, destinata a nutrirci col latte delle sue dottrine, ad allevarci nella vita spirituale della grazia, ad arricchirci di tutti i tesori del Cielo, a condurci all’età perfetta di Cristo9.

 

 

«Amiamola questa madre!»

 

Amiamola questa madre! Non dimentichiamo che colui, il quale non ama la Chiesa è fuori dell’amore di Gesù Cristo, e perciò fuori di quel solo amore che ci nobilita, ci eleva e ci fa amar bene tutto ciò che è degno d’amore nell’universo. Amiamo la Chiesa viva e presente dei nostri giorni, che parla per bocca del suo Capo augusto e dei suoi Vescovi, che vive e soffre per noi, che con noi prega e spera. Amiamola come la cosa più caramente diletta che sia nel mondo dopo Gesù Cristo; amiamola come la nostra famiglia, come la nostra madre bellissima, e insieme affettuosissima; amiamola come{36} colei che meglio rappresenta ed esprime in sé la infinita bellezza e bontà di quel Dio che è tutto il nostro amore. Tra le braccia di questa madre abbandoniamoci fidenti. Lha detto mia madre, esclama il fanciullo, e, profferita questa parola, procede sicuro per la sua via. Il medesimo deve dire ciascuno di noi: Lha detto la Chiesa e basta!10.

 

 

«Ti ameremo sempre con amore di figli»

 

Oh! Chiesa Cattolica! o figlia del Cielo! come son belli i tuoi tabernacoli! come luminose le tue vie! Madre dei Santi, immagine della superna città, del sangue incorruttibile conservatrice eterna, salve! Tu ci ami con amore di madre e noi ti ameremo sempre con amore di figli. Come i nostri fratelli, che già colsero la palma del loro trionfo, attenderemo noi pure in questo mortale pellegrinaggio a santificarci, anche per non essere indegni di te. Seguiremo docili i tuoi insegnamenti, ci terremo stretti ognora al tuo fianco, ben sapendo che fuori di te non vi è salute. Con te militanti sulla terra, speriamo d’esser con te trionfanti nel Cielo pei meriti di Gesù Cristo Dio nostro, a cui sia onore, sapienza, impero, azione di grazie, benedizione, potenza, fortezza e gloria nei secoli dei secoli. Amen11

 

c)         LA CHIESA È SANTA

 

«La Chiesa è santa»

 

L’opera più grande di Dio Padre è Gesù Cristo e l’opera più grande di G.C. è la sua Chiesa, che acquistò e purificò col suo Sangue, santificò col suo spirito, arricchì dei suoi meriti, onde presentarla al Genitor suo scevra d’ogni crespa e d’ogni macchia, e farla regnare perpetuamente con sé in Cielo. Ella è quindi Santa nel suo Autore, che è la sorgente e la fonte di ogni santità; santa nei suoi Sacramenti, canali dai quali ci derivano tutte le grazie; santa nel suo incruento Sacrificio, col quale si offre al nome di Dio un’oblazione monda; santa nel suo culto, sì maestoso, sì bello, che ispira la fede più viva, il rispetto più profondo, la più tenera pietà, che vince ogni ragionamento, che parla potentemente al cuore anche degli eterodossi.

Santa nelle sue dottrine, giacché sua cura principale è di conservarle incorrotte, quali le ebbe dal suo fondatore, per portare rimedio alle spirituali infermità, dissipare le tenebre che ingombrano le menti, eccitare i suoi figli alle buone opere, sublimarli alla pratica della povertà volontaria, della obbedienza più perfetta, della verginità angelica, della vita austera e penitente, al coraggio del sacrifizio e del martirio.

Santa quindi nei suoi figli, perché il Salvatore diede se stesso affine di riscattarli da ogni iniquità, e per purificarsi un popolo accettevole, zelatore delle buone opere (...). Venite e vedete. Quei tanti milioni di martiri generosi, di solitarii penitenti, di vergini illibate, di eroi d’ogni maniera; quel numero grandissimo di pastori e di sacerdoti, che ardono di un santo zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime, che corrono anche in lontani paesi, ove scintilla la spada delle persecuzioni, e dovunque un fiero malore miete delle vittime; quei religiosi, e sono molti, di cui i nemici stessi ammirano le virtù, le austerità, lo spirito di solitudine, di preghiera, di zelo, di carità, di distacco da ogni terrena cosa; quelle tante anime pie, ignorate dal mondo, ma conosciute ed amate da Colui che scruta i cuori, sono tutti figli della Chiesa Cattolica. Ella, santa in sé e santa in tutte le cose sue, non cesserà mai dal nutrire nel proprio seno portenti di santità, degni del supremo onore degli altari, e di essere per tal modo inesausta sorgente di tutti i beni12.

 

 

«La Chiesa è madre di santità»

 

La santità è il carattere inseparabile e proprio della vera Chiesa; Dio è la santità per essenza; dunque una Chiesa che vien da Dio deve recar l’impronta della santità: e santa, anzi madre di santità, come scrive Agostino, è appunto la Chiesa Cattolica: sanctitatis mater (...).

Sorgente di santità sono anzitutto le verità che ci insegna; poiché le dottrine promulgate dalla cattolica Chiesa non sono semplici teorie, ma principii eterni, dai quali emana una moltitudine di conseguenze morali, che divinizzano, per così dire, la nostra natura (...). Un Dio giusto e infinitamente misericordioso, l’immortalità dell’anima, la riparazione della colpa per mezzo della penitenza, il perdono delle offese, la pazienza, la carità, l’umiltà e via dicendo, sono tutte dottrine che servirono in ogni tempo ad allevare incolpabili ed insigni eroi senza numero.

Sorgente di santificazione sono i Sacramenti che con affetto di madre la Chiesa ci amministra. Ci amministra il battesimo per tergere le macchie della nostra carnale origine; ci amministra la confermazione per renderci forti a combattere le battaglie del Signore; ci amministra la penitenza come mezzo di espiare i nostri peccati; ci amministra l’Eucaristia e ci comunica l’autore stesso della santità. Amministra il matrimonio che santifica la famiglia, amministra l’ordine sacro a perpetuare quaggiù il sacerdozio di G.C.; amministra l’estrema unzione e sparge sul letto delle nostre agonie le consolazioni stesse del Cielo.

Sorgente di santità sono i precetti ch’essa ci impone, precetti pieni d’indulgenza e di bontà, coi quali questa tenera madre ci guida tra i pericoli del mondo al porto della salute, e tutta si adopera a renderci felici in questa e nell’altra vita. Ci comanda di amar Dio col cuore, di riferire a Lui, come a termine ultimo, i pensieri, gli affetti, le opere, tutto quanto noi siamo e possiamo, e di amare il prossimo nostro come noi stessi coll’amore che viene da Dio. Infine ci propone d’imitare Gesù Crocifisso nostro Signore, sublime esemplare di rassegnazione, di fortezza, di gloria, affinché crocifissi con lui alle vanità di questo secolo, siamo consorti a lui nei patimenti come nel gaudio.

Sorgente di santificazione è la comunione dei Santi, frutto di quella perfetta carità che lega insieme tra loro la Chiesa militante, la Chiesa purgante e la Chiesa trionfante, ne forma come un sol corpo, di cui G.C. è capo; e quindi siamo noi fatti partecipi così dei meriti dei giusti ancor viatori sulla terra, come della gloria dei comprensori celesti13.

 

 

«Trovateci qualche cosa di virtuoso che la Religione non generi o non ispiri»

 

Trovateci qualche cosa di virtuoso che la Religione cattolica non generi o non ispiri. Forse l’amicizia? Ma la Religione cattolica soltanto può darci degli amici veri e fedeli. Forse la gratitudine? Ma è la cattolica Religione che forma il cuore veramente buono e condisce di pura gioia il civile consorzio. Forse l’unione maritale? Ma è pur vero essere la cattolica Religione che, innalzandola al grado di Sacramento, la rende stabile e santa e vuole che ritragga in sé l’immagine dell’unione di Cristo colla Chiesa. Forse i doveri della vita civile? Ma è pure il Vangelo che ci comanda di essere umili, dolci, affabili, mansueti, pazienti, caritatevoli. Forse il coraggio? Ma quali eroi potrebbero stare al confronto di quelli che vanta la Religione cattolica? Forse la buona amministrazione del governo? Oh se i popoli, le repubbliche, i regni fossero governati colle sole massime del vangelo! dove sarebbero allora gli abusi, le ingiustizie, le calunnie, le ambizioni, gli odii, i furti, gli omicidii, i sacrilegi, le rivolte?14.

 

 

«Il tesoro della Chiesa: la comunione dei Santi»

 

La comunione dei Santi, ossia il tesoro comune di grazie e di meriti che esiste nella Chiesa, si deve al capo principalmente (...). È dunque a Gesù Cristo che la Chiesa deve la pienezza dei suoi beni. Oh, io più non mi stupisco che questo fondo di riserva sia inesauribile, infinito. Il sangue di G.C., questo sangue adorabile, di cui una sola stilla sarebbe stata più che sufficiente a redimere il mondo, le sue lagrime, le sue preghiere, la sua vita, le sue opere, le sue fatiche, i suoi dolori, ecco ciò che forma e che alimenta il tesoro della Chiesa. È una catena di meriti che si estende dall’una all’altra estremità della terra, è un fiume di grazie che scorre incessante attraverso l’umanità e la feconda (...).

Se dal capo soprattutto deriva la vita dei membri, non è a credere che i membri a questa vita siano estranei. Poiché dice 1’Apostolo: Dio contemperò il corpo così che abbiano le membra mutua premura le une per le altre: Deus contemperavit corpus... ut pro invicem sollicita sint membra, affinché l’abbondanza degli uni supplisca all’indigenza degli altri: ut abundantia illorum vestrae inopiae sit supplementum.

Or bene, se tale è la condizione naturale del corpo dell’uomo, del corpo della famiglia, del corpo della città, non dovrà ciò verificarsi nella Chiesa, che è il corpo di G.C., la famiglia degli eletti, la città di Dio?

Uno sguardo alla innumerevole schiera dei Santi, che passarono sulla terra, e che oggi trionfano in Cielo. Quante sofferenze, quante preghiere e quanti sacrifici, che vanno a metter foce, come altrettanti rigagnoli, nel mare infinito dei meriti di G.C., che formano appunto il tesoro della Chiesa.

Io vedo in questo tesoro non solo i meriti sovrabbondanti satisfativi ed impetrativi di Cristo, ma altresì della Vergine e dei Santi: vedo il sangue dei martiri, le austerità degli anacoreti, lo zelo degli Apostoli, la fede dei Confessori, le palme delle Vergini; le stesse vostre buone opere, le preghiere stesse che oggi avete innalzate a Dio in unione del vostro Vescovo sono là. In virtù della Comunione dei Santi la nostra preghiera esce da questo tempio, vola sulle ali degli Angeli, attraversa gli Oceani, va diritta al cuore dei nostri fratelli lontani, dei nostri fratelli impenitenti, dei nostri fratelli separati. Essa porta loro il balsamo della consolazione, la grazia del rimorso, il dono della perseveranza. La Comunione dei Santi si estende ovunque. Per essa non vi sono limiti né di tempo né di spazio15.

 

 

«È consolante, è dolce questo dogma della comunione dei Santi»

 

Non udite i gemiti che arrivano a noi dal profondo? Miseremini mei, saltem vos, amici mei! Abbiate pietà di me, voi almeno che foste un dì miei amici (...). Sono voci di lamento e di dolore. È la voce di un padre, d’una madre, d’un fratello, d’una sorella, d’una figlia, d’una sposa, che sale a noi dal carcere di espiazione per implorare i nostri suffragi, poiché nemmeno il dolore distrugge la comunione dei Santi. E perché mai questa comunione sarebbe rotta per la espiazione dei giusti? Non appartengono forse come noi al corpo di Gesù Cristo? Non sono anch’essi membra vive della famiglia degli eletti e della città di Dio? Perché dunque non avrebbero parte al tesoro comune della Chiesa, alla nostra soddisfazione, ai nostri sacrifici, ai nostri soccorsi?

Ah, è pur consolante, è pur dolce questo domma della comunione dei Santi! Il cielo prega, la terra prega, il purgatorio prega; e così il purgatorio, la terra, il cielo, la Chiesa sofferente, la Chiesa militante, la Chiesa trionfante si danno la mano, sono unite fra loro per un mutuo scambio di suppliche e di meriti. Dal purgatorio la preghiera sale verso la terra, dalla terra si innalza al cielo e là, passando per la bocca dei Santi, ottiene il refrigerio, la luce e la pace. Il purgatorio prega per noi, il Cielo prega per noi, e noi poveri esuli e pellegrini preghiamo il Cielo, tra i patimenti e la gloria.

È per mezzo nostro che il grido di quelle anime prigioniere arriva fino al trono di Dio. Di lassù l’abbondanza delle divine misericordie si spande sulla terra e dalla terra, qual celeste rugiada, cade sino al purgatorio ove si posa su labbra arse da fiamme espiatrici16

 

 

d) LA CHIESA È UNA

 

«Unità di fede, unità di comunione»

 

La vera Chiesa di G.C. figurata nell’Antico Testamento nell’arca di Noè, nel monte di Sion, detta la vigna, il campo, la nave, l’ovile, la casa, l’esercito, il regno di Dio, il corpo di Cristo, deve portare in fronte splendente di vivissima luce la nota dell’unità. Come uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, così deve esservi unità di credenza in quelli che appartengono alla Chiesa; come G.C. era morto per raccogliere insieme i figli di Dio che erano dispersi, così deve serbarsi l’unità di carità, o di comunione. La professione della stessa dottrina, ossia l’unità di fede; la intera sommissione allo stesso Capo, rappresentante di Dio, ossia l’unità di comunione, era il supremo pensiero del divin Salvatore allorché pregava fervidamente il Padre pei seguaci suoi presenti e futuri, affinché siano tutti una sola cosa, come tu sei in me, o Padre, ed io in te, che siano anch’essi una sola cosa in noi. Era quella duplice unità che inculcava l’Apostolo con quelle parole: Siate solleciti di conservare l’unità dello Spirito mediante il vincolo della pace17.

 

 

«Unità di fede, unità di regime, unità di sacramenti»

 

Dio essendo uno e una essendo la verità, bisogna che anche la vera Chiesa sia una. E l’unità è infatti il primo carattere che brilla sulla fronte della Chiesa di Cristo. Unità di fede, unità di regime, unità di sacramenti, quale appunto venne da Cristo costituita! Unità di fede, perché tutti i membri che la compongono debbono credere le medesime verità, professare le medesime dottrine sotto pena di cessare di essere cattolici. Nessuna licenza di pensiero nessuna fisima di privata interpretazione, e nessuna ingerenza dell’individuo in ciò che spetta la fede.

Unità di regime, poiché la Chiesa di Cristo forma una sola immensa famiglia, un corpo compatto, una vera società ordinata e composta con interno ed esterno organismo, perfetta in ogni sua parte. Ed ecco al di sopra di ogni Diocesi un Vescovo, che n’è il Padre, il pastore, il maestro; al di sopra di tutti i Vescovi il Papa, che di tutti è il fondamento, il capo, il monarca; cosicché tutto s’incentra nel Papa e tutto dal Papa discende ai fedeli con sì mirabile rifluire di vita che strappa l’ammirazione degli stessi increduli e li costringe a venerare la meravigliosa struttura, la sorprendente unità di quella grande Gerarchia sociale.

Unità di Sacramenti, poiché tutti nella Chiesa di Cristo usano dei medesimi Sacramenti non solo, ma ne usano, sostanzialmente, nel medesimo modo. Tutti pregano con la medesima parola, tutti offrono a Dio il medesimo sacrificio di lode, la medesima oblazione monda, che era stato predetto doversi offrire dall’oriente all’occaso, in tutto il mondo18.

 

 

«La Chiesa è il corpo di Cristo, una famiglia, una città»

 

La Chiesa, dice l’Apostolo, è il corpo di G. C.. Ora, le membra d’un corpo sono unite fra loro per uno scambio continuo di mutui servigi. L’un membro sostiene ed aiuta l’altro, e tutti insieme partecipano agli stessi beni, la forza cioè, la sanità, il movimento, la vita. Un membro che cessasse di concorrere al benessere generale o di attingere a questa sorgente comune, verrebbe per ciò stesso colpito d’impotenza e cesserebbe di vivere. È perciò che l’uno non può dire: Io non abbisogno di te, poiché tutti, il capo come le mani, le mani come i piedi contribuiscono alla bellezza, all’armonia del tutto.

La Chiesa è una famiglia. Ora tutti i membri di una famiglia sono uniti fra di loro in somigliante maniera. Il più debole si appoggia al più forte e il più forte protegge il più debole. Il nome, la fortuna, la sanità dell’uno si rifondono su tutti e formano come una riserva comune. La potestà del padre si comunica alla madre e ai figli. L’amore della madre si divide tra i figli e il padre e l’innocenza dei figli si riflette sui genitori. Il guadagno dell’uno diventa il guadagno degli altri, la sua povertà loro povertà, il suo disonore loro disonore, la sua gloria loro gloria. Allorché un membro della famiglia soffre, tutti gli altri soffrono con lui; allorché uno si rallegra, tutti gli altri con lui si rallegrano. Così la famiglia umana è, come il corpo umano, uno scambio di servizi e di funzioni reciproche, in mutua colleganza di amore.

La Chiesa è una città, città fondata sulla vetta di un’alta montagna. Ora anche qui la ricchezza degli uni torna a vantaggio degli altri e l’abbondanza di questi supplisce alla penuria di quelli. Altri contribuiscono col lavoro al comune sostentamento, ed altri vegliano al buon andamento della cosa pubblica. Ciascuno ha il proprio personale valore, i suoi titoli privati, ma v’è altresì un tesoro comune, al quale tutti partecipano, secondo i loro diritti e la loro capacità. Mirabile armonia per cui tutto si intreccia, si collega, si coordina in una vasta comunicazione di bisogni e di benefizi19.

 

 

«La varietà non pregiudica all’ammirabile unità»

 

Mirate questo santo edificio e vedete come la varietà non pregiudica punto all’ammirabile unità. Ciascuna pietra ha la sua forma, la sua posizione, il suo particolare destino. Le une collocate alla base; alla sommità le altre; quelle più ricche e più splendide adornano il santuario e l’altare; queste più comuni, ma non meno utili, disseminate in ogni parte, formano il corpo principale della costruzione. Sepolte le une sotto il suolo e affatto ignorate, sostengono il peso di tutto l’edifizio; esposte le altre allo sguardo degli uomini, spesse volte non sono che un ornamento sì accessorio che, se vengono levate, il tempio non è meno bello, né men solido.

Ecco un’immagine viva della società, della famiglia, della Chiesa, quali vennero da Dio istituite. In esse ciascuno deve tenersi al proprio posto, accettare con docilità inalterabile la posizione in cui Dio lo ha collocato; giacché Dio è l’autore degli onori, il distributore delle dignità, l’arbitro supremo della nostra sorte e la vera gloria dell’anima cristiana sta nel compiere i voleri divini per edificare, come scrive S. Paolo, sopra il fondamento degli Apostoli e dei profeti, pietra maestra angolare essendo lo stesso Cristo Gesù, sopra cui l’edificio tutto insieme connesso si innalza in tempio santo del Signore; sopra di cui voi pure siete insieme edificati in abitacolo di Dio mediante lo Spirito.

Ma come queste pietre (...) non formerebbero un solido edificio se non aderissero le une alle altre con certo ordine, se non stessero unite in pace e quasi in vicendevole amore, così i cristiani non formano davvero la casa di Dio se non quando sono uniti strettamente coi vincoli della carità: Domum Domini non faciunt, nisi quando charitate compaginantur. La carità (...) è il nobile cemento della società cristiana; è la gran legge di attrazione che perfeziona e conferma il mutuo amore che dobbiamo ai nostri fratelli; che dona al cuore umano la solidità e la elasticità riempiendolo di forza, di compassione e di misericordia20.

 

 

«Forti nella verità, forti nella carità, forti nell’unità»

 

Diremo a tutti: siate fermi, siate impavidi, siate irremovibili nel sostenere e nel difendere i sacrosanti diritti della Chiesa e del suo Capo augusto, ma sempre, come Leone XIII prescrive, con quella temperanza di modi e di linguaggio, che non tolgono, ma aggiungono forza al diritto e alla verità e la rendono accessibile anche alle menti più restie.

Se noi tanto insistiamo su questo punto, è che purtroppo siamo in tempi in cui le massime anche più elementari del cristianesimo vengono da molti o stravolte o neglette, né mai perciò si ripetono abbastanza. Adunque, che la nostra fortezza sia resa amabile dalla prudenza e dalla carità, e la prudenza e la carità ricevano efficacia dalla fortezza: Resistite fortes in fide!

Forti nella verità, forti nella carità, forti anche nell’unità, che della carità è compimento ed effetto.

Unità! è questa la raccomandazione ultima che ci ha fatto il S. Padre col linguaggio più caldo e affettuoso, ed è pur questa la raccomandazione che in Suo nome vi facciamo Noi con tutto l’ardore dell’animo nostro: unità! Unità di mente, unità di cuore, unità di opere. Nei tempi difficilissimi che attraversiamo, noi non potremo sostenerci che restando uniti e compatti, e non vi dev’essere sacrificio di opinioni che non dobbiamo fare per mantenere codesta unità, nella quale soltanto è il segreto della vittoria21.

 

 

«Un sistema di liberalismo affatto nuovo»

 

Che dovrà dirsi di quelli, che non contenti della parte di sudditi, che loro spetta nella Chiesa di Dio, credono di poterne avere qualcuna anche nel governo di essa?

È su questa insana pretesa che essi sono andati fabbricando un sistema di liberalismo affatto nuovo, tanto più pericoloso, quanto più si studiano di vestirlo di belle apparenze; farisaico sistema, che arriva purtroppo a sedurre tante anime semplici, e ad invadere alcune menti pur non perverse né ingenerose; anarchico sistema, che finisce per scindere le nostre forze e gettar la discordia tra i figli dello stesso padre, tra i membri della stessa famiglia; barbaro sistema, che non rifugge dal contristare ad ogni poco spiriti immortali, che ogni germe di carità uccide nel cuore di tanti (...).

I pericoli maggiori per la Chiesa non sono le persecuzioni violente e barbare, alle quali è avvezza da secoli, e grazie a Dio sa farne suo vantaggio; non sono le discussioni della ragione illuminata e della scienza, perché sa per certo di uscirne vittoriosa. La ragione, la storia, le promesse divine stanno per lei. I maggiori suoi nemici e più temibili sono le debolezze di taluni dei suoi, le loro matte superbie, le loro mire ambiziose, le loro ipocrite arti; sono i loro portamenti, le loro azioni tutt’altro che conformi allo spirito di veri e perfetti cattolici, quali si vantano di essere22.

 

 

«Incuranza delle virtù più amabili del cristianesimo»

 

Sentiamo di dover levare un’altra volta la voce contro il nuovo manifestarsi del fatale sistema, e una volta di più ricordare essere tutt’altro che conforme allo Spirito schiettamente cattolico quel disfarsi, come usano costoro, in proteste di attaccamento e di devozione al Papa, nel tempo stesso che osano venir meno al rispetto dovuto ai Vescovi a Lui uniti, avversandone il regime con modi, se non altro, indiretti, o torcendone a sinistro senso gli atti e le intenzioni; quell’identificare, a così dire, se stessi colla S. Sede, proclamandosene essi difensori, i soli figli devoti, i soli fedeli portavoce; quel segnalare come ribelli alla Chiesa persone alla medesima devotissime, rivestite anche d’autorità (...); quel pretendere al monopolio esclusivo del cattolicismo, affettando un linguaggio da maestri infallibili, condannando e anatemizzando in nome della Religione e del Papa quanti non dividono le loro opinioni, e più spesso, le loro esagerazioni e stravaganze (...); quel pretendere di sciogliere con più o meno spontanei plebisciti, formati di persone prive d’autorità, e quasi sempre incompetenti, le questioni più complesse, più ardue e più delicate, che sorgono talvolta nel campo religioso o scientifico-religioso (...); quel mettere in un fascio coi nemici della Religione persone rispettabilissime sotto ogni riguardo, e non di rado muover loro l’accusa di violata o sospetta fede cattolica, per una differente opinione che abbiano in materie puramente politiche, o lasciate ancor libere alla discussione dei dotti dalla sapiente moderazione della S. Sede (...); quel non vedere mai nulla di bene, anzi tutto di male, in ciò che si pensa o si opera da quanti sono o si suppongono contrari alle proprie idee (...); quell’affettare incuranza delle virtù più amabili del Cristianesimo e prender quasi ad irridere chi se ne faccia banditore, e mostri di averle sopra tutte preziosissime e care (...).

Tutto ciò è in aperta opposizione collo spirito da cui dev’essere animato il sincero cattolico, ed ha smarrito il senso di Cristo chi non lo comprende, chi non lo sente23.

 

 

«L’unità gerarchica è essenziale»

 

Non solamente l’unità dommatica, ma altresì quella gerarchica appartiene all’unità essenziale della Chiesa. Ché Cristo pregò il Padre affinché i fedeli sint unum, sicut Ego et Pater unum sumus24.

 

 

«Guai a chi osa infrangerla»

 

In questi tempi di anarchia non sarà mai troppo il ripeterlo: siamo uniti! Il popolo coi suoi parroci; i parroci e il clero fra di loro nell’ordine gerarchico; tutti, clero e popolo, col Vescovo, che in unione perfetta col Papa, supremo Gerarca, è l’anello che vi stringe al Pastore invisibile Gesù Cristo. Ecco la sacra catena che è nella Chiesa di Dio. Guai a chi osa infrangerla! Chi si stacca dal suo anello immediato, permettendolo Dio, diventa giuoco dei tristi e strumento a molti di perdizione25.

 

 

«La Chiesa per vincere ha bisogno di tenersi completamente ordinata»

 

Lo spirito di contesa è sempre stato riprovevole, ma tale molto più deve dirsi oggi, che ci stanno di fronte avversarii fierissimi, non ad altro anelanti che alla rovina della Chiesa e delle anime. «Nella lotta che attualmente si combatte per cose della più alta importanza, così altra volta il S. Padre, debbono tutti collo stesso intendimento e di un medesimo spirito indirizzare le loro forze allo scopo comune, che è quello di mettere in salvo i grandi interessi religiosi e sociali».

A ciò non condurranno, no, le dispute più o meno passionate di certi spiriti irrequieti; non le discussioni più o meno sottili su questo o quel modo di organizzare le forze; non la sommissione forzata e apparente, che lascia sussistere in fondo al cuore la diffidenza, il sospetto, la divisione; non le gare, le invidie, le tendenze esclusive ed egoistiche; non infine quello zelo amaro e inconsiderato, che confonde la forza del sacro ministero colla cieca violenza dei partiti, che crede di prestare ossequio a Dio attaccando gli uomini anche più integerrimi e devoti agli interessi della Chiesa e del suo Capo augusto, ma devoti senza vana ostentazione, senza infingimenti e senza umane passioni.

Ciò che porrà in salvo le ragioni della Sede Apostolica, e che in seno alla Chiesa ricondurrà l’ordine e coll’ordine la pace, sarà, non ci stancheremo di ripeterlo, l’osservanza pratica della gerarchica dipendenza, l’abbandono fiducioso e sottomesso, proprio dei figli, alla paterna autorità che li governa, sarà, a parlar più chiaro, la sommissione piena d’intelletto e di volontà ai proprii Pastori, e per essi e con essi, al Pastore della Chiesa che tutti ci guida. Così è: la Chiesa per vincere non ha bisogno che di tenersi completamente ordinata. Qui il segreto della sua forza, qui l’arra della vittoria26.

 

 

«Anche fra le Chiese dissidenti la Chiesa cattolica ha dei figli»

 

È certo che le vie di Dio non sono le nostre, o Dilettissimi, e che anche fra le Chiese dissidenti, la Chiesa cattolica ha dei figli, se non di fatto, di desiderio almeno; anime generose, che sarebbero degne di esser nate in seno all’unità, e che forse già vi appartengono per mezzo di legami invisibili ed occulti che Dio solo conosce (…).

Separati dal corpo della Chiesa, essi appartengono all’anima di essa, e quando la politica non sarà più interessata a conservare quel muro di divisione, che tiene scissa la grande famiglia europea; quando gli interessi della terra scompariranno in faccia agli interessi del Cielo; quando la gran legge della carità evangelica sarà meglio intesa e praticata da tutti, oh! allora, non dubitiamo affermarlo con altri, il Pastore universale vedrà con lieta sorpresa pecorelle in gran numero che gli appartenevano là dove forse l’occhio dell’uomo non scorgeva che lupi; allora l’oriente e l’occidente{46} si abbracceranno come fratelli in un medesimo santuario e Santa Sofia di Costantinopoli udrà echeggiare sotto le sue volte il Te Deum d’altro tempo, mentre trasaliranno di giubilo le ossa immortali dei Crisostomi e dei Nazianzeni; allora da tutti i punti dello spazio le genti più lontane e diverse, si rivolgeranno verso il centro dell’unità, verso Roma, (…); allora (Noi ne abbiamo più che il presentimento, la certezza) di tutte le famiglie si formerà una sola famiglia di tutti i popoli un solo popolo, di tutta l’umanità un solo ovile sotto la guida di un solo Pastore27.

 

 

«La grande unità verso la quale camminiamo a gran passi»

 

Ha da venire un giorno che la giustizia e la pace si baceranno in fronte, che brillerà di nuova luce sul mondo il sole della cristiana civiltà, che l’edifizio sociale si leverà su basi vorrei dire incrollabili.

Spetta a noi, o dilettissimi, l’affrettare quel giorno. In qual modo? Guadagnando alla verità, più coll’esempio che colle parole, i fratelli, professando apertamente la nostra fede, operando in conformità della medesima, adoperandoci a far sì che nell’animo di tutti, come ormai avviene in quello di molti, s’imprima il profondo convincimento che solo dal Romano Pontificato può l’Italia aspettare salvezza e benessere vero. A questo nobile e santo intendimento, ispirato dal più puro amore alla Chiesa e alla patria, deve ormai volgersi la comune operosità, smessa ogni gara di partito. Tutti, tutti, con la influenza delle virtù che ci sono imposte, preparar dobbiamo un popolo capace di essere governato con paterno regime, agevolando così ai reggitori della cosa pubblica l’arduo loro compito. Dobbiamo sopratutto ricorrere a Dio colla preghiera, perché, non dimentichiamolo, se il Signore non custodisce la città, vegliano indarno coloro che la custodiscono (Ps. 126).

Oh, si! preghiamo, o dilettissimi. Preghiamo che ritornino alla fede gli erranti, che si estenda sempre più il regno di Gesù Cristo, che i disegni del suo Vicario si compiano. Preghiamo e speriamo.

Già un ritorno si sta facendo a idee sane e giuste, e da molti si rifà il cammino, o si riconosce almeno la necessità di rifarlo. Le delusioni e il disinganno scuotono salutarmente le moltitudini; si tocca con mano che l’empietà, comunque si mascheri, non è che tirannia, che le sue promesse sono mendaci, che mortiferi sono i suoi frutti. I più ascoltati scrittori disdicono oggi quello che ieri con burbanza asserivano, e sul labbro di uomini investiti del potere risuonano, sebbene timidamente, parole preziose da molti anni inusitate. Tutto appalesa una lenta, ma progressiva evoluzione di idee; tutto lascia presagire che la società, nauseata dall’immondo materialismo che la corrompe e degrada, sia per avviarsi al sospirato rinnovamento; tutto annunzia, come diceva De Maistre, non so quale grande unità, verso la quale camminiamo a gran passi.

È senza dubbio l’unità predetta nell’Evangelo, l’unità religiosa per mezzo della Chiesa, l’unità che di tutta la terra farà da ultimo un solo ovile sotto la guida di un solo Pastore.

Miei cari, l’uomo si agita, ma Dio lo conduce. Preghiamo, ripeto, e speriamo28.

 

 

e) LA CHIESA È MAESTRA

 

«La Chiesa è una Maestra infallibile»

 

La Chiesa cattolica nel suo insieme altro non è che la società degli Angeli e dei fedeli, che attraversa i secoli e passa sulla terra per raccogliersi in quella santa unità universale e perpetua e ritornare coi suoi figli nell’eternità donde è uscita. È essa l’assemblea dei figli di Dio, l’esercito del Dio vivente, il suo regno, la sua città, il suo trono, il suo tabernacolo; è quella nobile società che esiste sino dal principio dei secoli e comparsa nelle ombre e nelle figure con Adamo, annunziata nei patriarchi, accreditata in Abramo, rivelata per Mosè, profetata da Isaia, nel suo ultimo periodo si manifesta oggi in Gesù Cristo, quale una società di uomini, uniti insieme nella professione della medesima fede e nella partecipazione degli stessi Sacramenti, sotto il governo dei legittimi Pastori e principalmente del Romano Pontefice, Capo visibile, Supremo Moderatore, Pastore universale, di questa felice adunanza fondata dall’Uomo Dio.

E poiché si compiacque di commetterle il deposito della rivelazione, ossia l’intero corpo delle dottrine spettanti alla fede ed alla morale, che egli stesso aveva portato dal cielo, perché le insegnasse a tutte le generazioni con certezza, con facilità e senza mescolanza di errore, era necessario che venisse fornita della gloriosa qualità di maestra infallibile, affinché trasmettesse in tutti i tempi le verità rivelate tali e quali le ricevette dallo stesso divino suo labbro (...).

Non accogliere tutte le definizioni del Concilio con piena e pronta sommissione di intelletto e di volontà, senza restrizioni, senza transazioni, esitanze e compromessi è non solo negare la verità particolare che contraria le proprie idee, ma un negare l’infallibile magistero, che ce la propone a credere, è un distruggere il cattolicismo e ferire mortalmente la stessa società.

Col magistero infatti infallibile della Chiesa, il Cattolicismo è divino, la filosofia è condotta da lui alla fede; il mondo è per lui rinnovato, il martirio diviene ragionevole, i Concilii sono riconosciuti e rispettati, le eresie abbattute, la scienza e la civiltà fecondate, la morale assicurata, la pace della coscienza fatta certa e tranquilla, tutti i frutti della santificazione versati abbondantemente sui popoli, la durata della Chiesa invincibile, la sua unità indissolubile. Togliete alla Chiesa cattolica questa gloriosa prerogativa e tutta si sfascia e si rovina, come si è sfasciata e rovinata la fede in quelle anime sciagurate, che guerreggiarono in questi ultimi anni le sue sante solenni definizioni29.

 

 

«La Chiesa insegnante e la Chiesa insegnata»

 

Se per divina ordinazione v’è un’autorità unitiva e dirigente, e questa risiede nell’ordine sacerdotale, dovete dunque riconoscere che nella Chiesa esiste distinzione di classi, di uffici e di poteri; vi è superiore e suddito, vi è pastore e gregge: vi è chi ammaestra e chi è ammaestrato, chi pasce e chi è pasciuto. Vi è, in altri termini, la Chiesa insegnante e la Chiesa insegnata, le quali, sebbene distinte fra loro, non formano che una sola e medesima Chiesa.

Appartengono alla prima i successori degli Apostoli, i Vescovi e specialmente il successore del Principe degli Apostoli, il Papa. Appartengono alla seconda i fedeli tutti. Quanto ai semplici Sacerdoti, se da un lato appaiono appartenere alla Chiesa insegnante, in quanto amministrano i Sacramenti ed ammaestrano i fedeli, in realtà appartengono alla Chiesa insegnata, perché non posseggono la pienezza del Sacerdozio, perché non hanno giurisdizione alcuna, perché non amministrano sacramenti, né ammaestrano i fedeli, se non in quanto sono a ciò autorizzati dal Vescovo30.

 

 

«L’infallibilità del Papa non è disgiunta dalla fede della Chiesa»

 

Il Papa è personalmente infallibile, ma la sua infallibilità non può essere personale e separata per modo che la sua fede sia disgiunta dalla fede della Chiesa. La Chiesa è un corpo vivente e non un cadavere: nessuna potenza terrena può rapirle la sua forza vitale, perché è divina e specchia in se stessa la vita intima di Dio. Il Papa è capo, i Vescovi sono le membra del corpo insegnante e vivente. Se il Capo potesse separarsi dalle membra, voi avreste un corpo morto, e la Chiesa, contro le promesse di Gesù Cristo, sarebbe distrutta.

Il Pontefice pertanto, che in se stesso unisce ed incentra tutto l’episcopato, non potrà mai trovarsi solitario ed isolato quando insegna a tutti i credenti nelle cose di fede e di morale, perché lo Spirito Santo, che assiste il Capo e lo difende da ogni errore, opera ed ispira la sommissione, almeno in un certo numero di Vescovi, i quali, uniti a Pietro, formano la vera Chiesa (...).

Il Papa è infallibile, ma la sua infallibilità non lo disobbliga di attendere alla dottrina, di tenere consulte, di far appoggio sopra dei Vescovi e dei Concilii. La infallibilità si compone di due parti ben distinte, la parte divina, che è l’ispirazione, la luce che Cristo, mediante lo Spirito Santo, irraggia sopra il successore di Pietro; la parte umana, che richiude gli elementi della scienza, la ricerca necessaria intorno alla Tradizione e alla Scrittura, il modo più atto a significare ai popoli la verità.

La verità non è per via di nuove rivelazioni, né per immediate illustrazioni, ma all’elemento divino deve unirsi l’elemento umano, che sviscera il sacro deposito affidato alla Chiesa, contenuto nei libri del vecchio e del nuovo Testamento, negli scritti dei Padri, nei monumenti della Religione, nell’insegnamento orale e nell’uso sempre vivo e costante delle Chiese, in comunione colla Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte. Né vi pensate che possa accadere il caso di una definizione senza il debito esame; no, ciò non è possibile. Lo Spirito Santo, sulla cui assistenza si fonda l’infallibilità, non può permettere che la negligenza dell’uomo tragga in errore la Chiesa, omettendo la ricerca necessaria onde scoprire, illustrare, promulgare con solenni e nuove definizioni le verità antiche31.

 

 

«Fautrice d’ignoranza la Chiesa

 

Sappiamo bene quello che si dice: — la Chiesa tarpa all’ingegno le ali, ed è fautrice di ignoranza! – Ma quale accusa più stolta e più irragionevole di questa? Fautrice d’ignoranza la Chiesa, che nulla teme tanto quanto l’ignoranza, e che anzi facendo dell’ignoranza una colpa, obbliga tutti allo studio più diligente e spassionato del vero? Quando mai la verità fu un ostacolo allo sviluppo dell’umana intelligenza?

Fautrice d’ignoranza la Chiesa! Ma può egli darsi ignoranza della storia peggiore di quella che si viene con tale accusa a mettere in mostra? La storia altamente proclama che fu anzi la Chiesa colei che, dissipate le tenebre delle superstizioni più inveterate, spinse l’umanità sulle vie del vero incivilimento. Fu la Chiesa che nuovi cieli e nuove terre, per così dire, ci aprì dinanzi; che mediante la vivifica sua luce, rialzò la nostra avvilita ragione e la fortificò tanto da affrancarla da qualsiasi errore (..).

Oggi stesso che tanto si parla di istruzione, e tante ree massime si spargono a larga mano dovunque, chi è che pensi a mantener saldi nei popoli gli eterni principii di verità e di giustizia? chi, se non la Chiesa cattolica? e non è forse la Chiesa cattolica che invia anche oggi i suoi missionari nelle più remote contrade fra le genti più barbare, per guadagnarle alla civiltà, nel tempo stesso che le guadagna alla croce? Non è la Chiesa cattolica che manda i suoi preti anche nei luoghi più alpestri e disagiati, dove con iscarso pane e privazioni d’ogni sorta passano i giorni fra le nevi durante l’inverno, e fra mille intemperie durante l’estate, per dirozzare tante povere creature, santificarle, e metterle a parte delle consolazioni del cielo?

Si ha un bel gridare contro la cattolica Chiesa da chi non la conosce che per vilipenderla! Essa fu e sarà sempre l’unica vera Maestra, come degli individui, così delle nazioni, tale avendola quaggiù costituita il suo divin Fondatore. Ella sola possiede la virtù di preservare la ragione dalle più vergognose cadute; ella sola può fare che il bello sia splendida immagine del vero e del santo; ella sola può avvicinare l’uomo a Colui che è Sapienza infinita e Luce per essenza. Questo anzi il fine di tutte le sue operazioni; per questo ci grida continuamente per bocca dell’Apostolo: voi eravate già tenebre, ed ora siete luce nel Signore; vivete come figli di luce32.

 

 

«Guai alla Chiesa Romana se fosse stata colpita d’immobilità!»

 

La Chiesa, come società universale e perpetua, ha ricevuto la potestà di ottemperare le sue leggi alle necessità di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Dovendo poi procedere in ragione diretta delle leggi provvidenziali che reggono l’umanità, al cui bene è preordinata, è necessario che ne segua i movimenti, ne indaghi le esigenze, ne soddisfi i bisogni nell’orbita della sua missione.

Guai alla Chiesa Romana se fosse stata colpita d’immobilità come lo fu la Chiesa scismatica! Che anzi di qui si può trarne una splendida dimostrazione della sua divinità. La Chiesa scismatica infatti cambiò l’elemento immobile, cioè il dommatico, e rimase stazionaria nell’elemento variabile. Mentre invece la Chiesa Romana, restando ferma, come torre che non crolla, nell’elemento divino, seppe mostrare una giovinezza sempre rigogliosa, una vitalità sempre esuberante, piegandosi e ripiegandosi sopra il flusso e riflusso delle umane generazioni circumdata varietate33.

 

 

«Guardare al Cielo, soffrire e tacere»

 

Bisogna adunque aver pazienza e sperare soltanto nell’aiuto di Dio. Ma non vi credete che io sia punto scoraggiato: lavoro indirettamente, perché non credo giovevole il farlo direttamente; l’opposizione a quel partito io lo considero come un dovere del ministero e non cesserò mai dall’adempierlo con prudente fermezza, quantum Deus dederit, sebbene abbia perduta ormai la fiducia negli uomini. La esperienza, caro fratello, del mondo mi ha fatto ricredere di molte e molte cose e rimpiango quei giorni nei quali l’anima mia, tutto ardore, vedeva la Chiesa tutta perfetta e tutto ciò che le appartiene a color di rosa. Ma son venuti i cambiamenti ed essi pure hanno il loro perché. Mi staccano ognor più dalle cose di questo povero mondo e mi fanno piegare verso quel tal programma, che vi proponevo un giorno34.

Si ha proprio bisogno, caro Mgr., di obliare, almeno per qualche settimana, le tristezze dell’ora presente. La Chiesa sembra convertita in una vera babele: forse sarà il presente uno dei più tristi periodi della sua storia. Laggiù veggono il male, talvolta lo deplorano in segreto, ma in pubblico o nulla, o atti che sembrano incoraggiare i demolitori dell’ordine gerarchico. È prudenza, almeno, umana? È debolezza? È complicità? È paura degli uomini, che si lasciano demolire? Dio solo lo sa; quello che so io si è che in nessuna società ordinata si tollererebbero simili bricconate e simili bricconi. Bisogna proprio guardare al Cielo, soffrire e tacere. Si scis tacere et pati statim et procul dubio videbis super te auxilium Domini. È una gran massima, piena di sapienza pratica35.

Credo che contenga una gran sapienza la seguente massima: «Rimanersi in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per divina disposizione non solo riguardo a sé ma ben anco riguardo della Chiesa, operando a pro di essa dietro la divina chiamata»36.

 

 

 

f) LA CHIESA È SOVRANA

 

«La Chiesa dobbiamo ubbidirla perché Sovrana»

 

La Chiesa noi dobbiamo ascoltarla perché Maestra, e dobbiamo inoltre ubbidirla perché Sovrana.

Questa sovranità non le venne conferita dagli uomini, ma da Dio stesso, Re dei secoli invisibile e immortale, Creatore e Signore del Cielo e della terra. Come il Padre ha inviato me, disse Gesù Cristo ai suoi Apostoli, così io mando voi,  vale a dire: vi mando collo stesso fine, collo stesso mandato, colla stessa regale autorità…senza limiti e senza confini; autorità universale. Tanto è grande quest’autorità che non solo abbraccia l’universo creato, ma arriva fino al trono di Dio. Soggiunse infatti Gesù Cristo: tutto ciò che voi scioglierete sulla terra verrà sciolto anche in Cielo, e tutto ciò che avrete legato sulla terra, sarà legato anche in Cielo, il che è quanto dire: qualunque cosa la Chiesa giudicherà di prescrivere sia quanto al dogma, sia quanto alla morale, qualunque legge stimerà necessaria in ordine all’eterna salute, tutto sarà approvato e confermato lassù, dove sono scritte le stesse leggi di Dio.

Ne segue, come vedete, che ogni giudizio, … in quanto emana dall’autorità della Chiesa, deve aversi dai cattolici come un giudizio, un comando di Dio. Chi dunque si oppone a questi giudizi, a questi comandi della Chiesa, chi in qualunque modo vi contraddice, chi vi resiste, si oppone, contraddice e resiste a Dio medesimo: qui vos spernit, me spernit37.

 

 

«Obbedienza pronta e cordiale»

 

L’apostolo S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto: «Io vi prego, o fratelli, e scongiuro nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, che non vi siano tra voi scissure, ma che tutti pensiate, sentiate, diciate lo stesso.» Questa è pure la preghiera che io faccio a voi, miei cari. Ma come sarebbe possibile questa perfetta uniformità, questa concordia, senza obbedienza alla Chiesa?

L’obbedienza, e l’obbedienza pronta e cordiale, è, dirò con altri, il miglior sacrificio che si può rendere a Dio, perché è l’olocausto della miglior cosa di cui siano possessori, che è la nostra volontà. L’obbedienza è sicura, perché si può talvolta errare nel comando, ma chi obbedisce non sbaglia mai. L’obbedienza è sempre meritoria, ché l’obbediente moltiplica le vittorie e le palme. L’obbedienza è principio dell’ordine, fonte della tranquillità e della pace, e ragione della potenza e della bellezza della Chiesa. Chi obbedisce si cinge di gloria, perché si fa compagno dei Santi, compagno della Vergine benedetta, imitatore di Cristo, fattosi obbediente al Padre, sino alla morte e alla morte di croce38.

 

 

«È assolutamente necessario obbedire ai Pastori legittimi»

 

Per essere cristiano e salvarsi, non basta esser battezzato, non basta professare la fede di Gesù Cristo, non basta neanche partecipare agli stessi Sacramenti, ma è necessario altresì obbedire ai Pastori legittimi; obbedire, cioè, al Papa, obbedire al Vescovo, obbedire a quelli che, dal Papa o dal Vescovo sono preposti al governo delle anime nostre. Chiunque pertanto al Papa, al Vescovo, al Sacerdote cattolico non obbedisce, potrà essere qualunque altra cosa si voglia, ma non cristiano, non cattolico sicuramente. Egli è un superbo, un ipocrita e niente più; egli è fuori della Chiesa: « Si quis non est cum Episcopo, in Eccleesia non est; » Così il più volte citato S. Cipriano39.

 

 

«Pronti a sacrificare tutto, anche la nostra vita, piuttosto che venir meno al nostro dovere»

 

Due anni ormai sono scorsi dacché lo Spirito del Signore c’inviava tra voi, per essere il Vescovo delle anime vostre.

Da quel giorno, possiamo dirlo, voi diveniste ogni cosa per Noi e sentimmo di amarvi con viscere di Padre. Ci studiammo di provvedere, quanto permisero le forze, ai vostri più urgenti bisogni, anche a costo di sacrificii, e fu sempre Nostra delizia accorrere, potendo, ovunque fosse una lagrima da tergere, un dolore qualsiasi da lenire.

Ma il vostro vantaggio spirituale Ci premeva ben più, e certo non risparmiammo sudori, non preghiere, non fatiche, per animarvi al bene, per mantenere inviolabile nei vostri petti il sacro deposito della fede.

Dovevamo essere in questa Diocesi i difensori e i custodi del principio cattolico, e a conseguire l’intento, quali mezzi non ponemmo in opera? Vi inculcammo soprattutto, e con la voce e cogli scritti, l’intera sommessione al Vicario di Gesù Cristo, dandovi Noi stessi l’esempio della più illimitata e figliale obbedienza ai suoi ordini, alle sue parole, ai suoi insegnamenti e anche ai suoi desiderii, perché è il Vicario di Gesù Cristo che ha la parola della verità, e chi ascolta Lui ascolta Gesù Cristo medesimo.

È questo, se ben vi ricordate, il programma che Noi vi ponemmo dinanzi, fin dalla prima volta che avemmo la consolazione di rivolgervi la parola dal pergamo della Nostra Cattedrale, e dobbiamo attenervici (...).

A norma di tale principio, che forma e formerà sempre l’unità e la forza della Chiesa, Noi Ci siamo sempre condotti sin qui nel governo delle anime vostre, e così, coll’aiuto di Dio, Ci condurremo in ogni evento per l’avvenire, pronti a sacrificar tutto, anche la vita, piuttosto che venir meno al Nostro dovere.

Sentinelle avanzate della Fede, continueremo, colla divina assistenza, a difendere tra di voi i grandi principii del cattolicismo, contro tutti gli assalti, né taceremo la verità, anche quando il non tacerla Ci dovesse fruttare l’altrui malevolenza, perché non è agli uomini che dobbiamo piacer, ma a Dio, giusto retributore delle umane azioni.

Che cosa è la nostra vita? L’abbiamo sacrificata per voi, e riposiamo volentieri nell’idea di consumarla fra voi. Sappiamo che l’Episcopato è un martirio e Ce ne avvisa la croce che portiamo sul petto40.

 

 

«Combattere sino all’ultimo per la causa dell’obbedienza»

 

Se noi non Ci sentissimo forti così, da combattere sino all’ultimo per la causa dell’obbedienza, non esiteremmo un istante a pregare Colui che c’innalzava a questa nobilissima sede, perché volesse permetterci di lasciarla, e di ritirarci in un chiostro a piangere la Nostra debolezza e i Nostri peccati.

Facciamo quindi appello ai sentimenti cattolici dell’immensa maggioranza dei Nostri figli, ed anche alla lealtà di ogni persona assennata, qualunque siano le sue opinioni, e loro domandiamo se sia giusto, se dicevole, se conforme a ragione il vilipendio di chi non vuol tradire la propria missione e vuol mantenersi intemerato al proprio posto, innanzi a Dio e innanzi alla Chiesa. Dio Ci faccia degni di sì gran compito. Noi dal canto Nostro lo adempiremo, chiamando, come in passato, a Nostri ausiliarii, amore, pazienza, mansuetudine, longanimità; contemperando la forza alla dolcezza e questa preferendo, il più possibile, a quella, perché vogliamo, come scrive l’Apostolo, esser tutto a tutti, per far tutti salvi.

Sì, o dilettissimi; la salute di tutti, ecco dove mirano i Nostri continui sforzi; perciò le nostre preghiere, in questi giorni, furono e saranno per quelli specialmente che, non per malanimo certo, ma per inconsiderato trasporto, giunsero a coprirci di contumelie e d’insulti. Possiamo del resto assicurarvi che Noi, colla calma e tranquillità di chi sa d’aver coscienziosamente adempito il proprio dovere, nel momento di maggior trepidazione pei buoni, condonavamo ad essi le ingiurie, raccomandandoli a Dio e benedicendoli di tutto cuore, addolorati non d’altro che delle offese fatte a Gesù Cristo nella povera Nostra persona.

Venerabili Parroci, Nostri carissimi Fratelli di Ministero, rendete noti, ve ne preghiamo, questi Nostri sentimenti ai fedeli alle vostre cure affidati, e dite loro che preghino per il loro Vescovo, il quale ha tanto bisogno del divino aiuto, e assicurateli che egli altro più non desidera, che di vederli perseverare nel bene, in dolce ricambio del gran sacrifizio che fece nel rendersi mallevadore innanzi a Dio della loro salvezza41.

 

 

g) LA LEGGE DELLA CHIESA È L’AMORE

 

«La Chiesa dice e ridice la gran legge dell’amore»

 

Madre nostra è la Chiesa, e madre di tale bontà che ben si rivela per cosa tutta celeste. Di questa sua bontà fanno testimonianza e le sue parole e le sue opere e le stesse sue leggi. Come il discepolo diletto negli ultimi anni di sua vita non ripeteva nelle cristiane adunanze altra parola che questa: Figliuoli, amatevi l’un l’altro; così la Chiesa non dice e ridice ai suoi figli che la gran legge dell’amore. Insegnandoci la verità o esortandoci alla virtù, ricordandoci i comandamenti di Dio o intimandoci i suoi proprii precetti, facendoci assistere all’eucaristico Sacrificio o inculcandoci la frequenza ai santi Sacramenti, invitandoci alla preghiera o proponendo al nostro culto i misteri divini, con ogni atto del suo ministero, ella non ci ripete in sostanza che la medesima parola: amate Dio, amate il prossimo. Amate Dio con tutta la vostra mente, con tutto il vostro cuore, con tutte le vostre forze; amate il prossimo come voi stessi, con quell’amore che viene da Dio.

E non solo nelle sue leggi manifesta la Chiesa la sua materna bontà, ma nel modo altresì con cui viene ad applicarle. Senza nuocere punto all’unità fondamentale delle pratiche cristiane, ella sa tener conto dei tempi, dei luoghi e delle circostanze: sa variare i riti del suo culto e l’austerità delle sue prescrizioni secondo il genio, il carattere, le abitudini dei popoli che governa; sa prevenire i disordini, temperando la sua disciplina42.

 

 

«La Chiesa ama, ecco tutta la sua vita»

 

Madre sconsolata, ella sovente ha motivo di lagnarsi dei suoi figliuoli, che la opprimono e le dilaniano il seno: ma istituzione viva e universale negli ordini dello spazio e del tempo, trova pure in se stessa i mezzi opportuni da provvedere efficacemente alla salvezza dei suoi in qualunque novità o stranezza di umani eventi (...).

Un vincolo maraviglioso ne collega tutte le parti, e questo vincolo e la carità: guai a chi lo spezza! Essa ama, ecco tutta la sua vita. Fatta per l’uomo, essa ne penetra tutte le istituzioni, ne indirizza e benedice tutti i progressi, ne commisera e corregge tutti gli errori, ne prepara il pentimento, ne dispone l’emenda, ne glorifica il ritorno a Dio.

Sì, purtroppo il nostro secolo e ammalato, come lo furono del resto tutti i secoli che l’hanno preceduto, e vediamo la storia non partigiana ridurre al loro giusto valore tanto le lodi eccessive degli uni, quanto i biasimi esagerati degli altri. Ma diteci voi, qual è per un ammalato il primo dei rimedi? Non forse la compassione, la bontà, le cure prodigate con tenerezza di amore? Allorché un ammalato ravvisa siffatte disposizioni nel suo medico, non è egli vero che quasi si sente alla guarigione più vicino? Non è egli vero che verso questo medico egli è come dolcemente attratto, sicché, anche per tagli più dolorosi, finisce per venirgli esso medesimo in aiuto? Di qui la grande massima di S. Gregorio Magno: resecanda vulnera, sunt prius levi manu palpanda43.

 

 

«Questo spirito di saggezza e di moderazione, di mansuetudine e di carità»

 

Questo spirito di saggezza e di moderazione, di mansuetudine e di carità, fu e sarà sempre nel Cristianesimo il carattere delle anime grandi. Dove questo spirito regna, là è necessario che i dissidii spariscano; là senza dubbio voi troverete l’ordine, la concordia, la pace. Ah! noi riandiamo con gioia insieme e con tristezza quei dì avventurati, nei quali l’armonia di tutti i fedeli tra loro, e la piena e perfetta loro sommissione all’ordine gerarchico, divinamente quaggiù stabilito, davano alla Chiesa, secondo la bella espressione di S. Ireneo, un perenne fiore di giovinezza che, unito all’intatta purezza della fede e della morale, la dimostrava agli occhi di tutti per cosa divina.

Ebbene, il cor unim et anima una, che rese vincitori i nostri padri nella fede contro le tenebre dell’idolatria e i furori della barbarie, sarà pure anche oggi il mezzo efficace, se non unico, per far ripiegare la presente società verso l’ideale della società cristiana44.

 

 

«La carità arbitra e signora del nostro cuore»

 

La carità, questa cittadina discesa dal cielo tra noi per ravvicinare i cuori, temperare gli affanni, rialzare gli animi abbattuti, far liete le famiglie sventurate delle gioie più pure, il più bel dono che Dio poteva fare alla sua creatura; la carità che rende sì soave il giogo e sì lieve il peso della legge e della vita; che sparge di qualche fiore il faticoso cammino di questo esiglio; che è il balsamo di tante piaghe, il refrigerio di tanti cuori; la carità che unita al massimo e primo precetto dell’amor di Dio, ci avvia, poveri pellegrini, al conseguimento di quella patria sulle cui soglie immortali la fede e la spe­ranza ci lasceranno e dove essa sola, la carità, entrerà per regnarvi; la carità che è la gran legge del cristianesimo; che deve splendere sulla nostra fronte, ed essere arbitra e signora del nostro cuore, reclama da noi qualche sacrifizio, sacrifizio che non potremmo negare ai fratelli nostri, senza renderci colpevoli di una imperdonabile durezza, senza smentire coi fatti il titolo di cristiano, del quale meritamente ci gloriamo45.

 


 

 

 

2. Il PAPA

 

La Chiesa è fondata sulla roccia di Pietro, vicario dell’amore di Cristo crocifisso, e “Santo Padre”, cui si deve la pietas filiale, fatta di amore e riverenza filiale, di sincerità, di obbedienza e fedeltà, di coraggio nella difesa del suo onore e dei suoi diritti.

Al Papa i cristiani sono uniti di mente, di cuore, di spirito, convinti che non si può arrivare a Dio che per mezzo di Gesù Cristo; non si può essere con Cristo se non si è con la Chiesa; non si fa parte della Chiesa se non si è in comunione di fede e di carità con il Papa. Chi ascolta il Papa ascolta Cristo: «dall’unione col Papa dipende la nostra eterna salute».

 

 

 

a) PIETRA FONDAMENTALE DELLA CHIESA

 

«L’albero del Crocifisso e la rupe del Vaticano»

 

Volete voi cooperare alla salvezza della società? Due sostegni egualmente incrollabili io vi propongo, l’albero del Crocifisso e la rupe del Vaticano. L’albero del Crocifisso che in ogni secolo diede a diffusione della grazia gli Apostoli, a testimonianza della fede i martiri, che dileguò colla sua luce le tenebre del gentilesimo, che raccolse insieme le disperse genti per santificarle, dal quale venne la sapienza ai fanciulli, la fortezza ai deboli, la consolazione ai mesti, alle vergini l’eroismo, ai perseguitati, ai poveri la rassegnazione, a tutti la virtù; che richiamò l’uomo alla nobiltà della sua origine, sollevò dal suo avvilimento la donna, ruppe le catene della schiavitù, proclamò per tutti la libertà di figli e, aboliti i sacrifici di sangue, irradiò la morte stessa colla gloria dell’immortalità.

La rupe del Vaticano, ove siede l’erede del principato di Pietro, il Vicario di G.C., il maestro infallibile della Chiesa, il dottore di tutti i fedeli, il centro della cattolica unità, il vincitore delle profane eresie, il fondamento di tutte le Chiese, il glorioso Leone XIII.

Uniti al Crocifisso, uniti di mente, di cuore, di opere al Papa, coraggiosamente, senza restrizioni, senza esitanze, alla vita e alla morte noi non falliremo a gloriosa meta e Dio sarà con noi1.

 

 

«Il Papa è la pietra fondamentale della Chiesa»

 

Il Papa! Egli è il personaggio più augusto e più venerando che siavi sulla terra. È il successore degli Apostoli, il Vescovo dei Vescovi, il Maestro infallibile della fede e del costume, il Giudice inappellabile di tutte le controversie, il centro della cattolica unità, il pastore supremo delle anime, la pietra fondamentale della Chiesa, il depositario delle somme chiavi, il luogotenente di Dio; è, a dir breve, Gesù Cristo sulla terra che continua ad ammaestrare e governare tutti i credenti.

Il Papa insegna una verità? E Gesù Cristo che la insegna. Il Papa comanda? È Gesù Cristo che comanda. Il Papa condanna? È Gesù Cristo che condanna. Il Papa assolve? È Gesù Cristo che assolve2.

 

 

«Chi è il Papa?»

 

I sensi non vedono in lui che un uomo simile agli altri uomini, ma la fede ci dice: egli è il successore di Pietro, anzi è Pietro medesimo, sempre vivo nella persona dei suoi successori, con tutta quella pienezza di giurisdizione e di autorità che, come capo della Chiesa, ebbe Pietro: Perseverat Petrus et vivit in successoribus suis (...).

È voce potente che alle umane generazioni ripete gli oracoli del Verbo fatto carne; è la rocca inespugnabile della fede, il fondamento visibile della mistica Gerusalemme, la pietra incrollabile del divino edifizio, la bocca della Chiesa, il pastore del cattolico ovile, il duce supremo della cristiana milizia, il monarca del regno celeste, il clavigero della casa di Dio, la vigile scolta d’Israele, il pilota di quella nave che non conosce naufragio (...).

Non vi è Chiesa di Gesù Cristo senza il Papa, laddove per contrario dov’è il Papa, ivi è la Chiesa, come afferma S. Ambrogio: Ubi Petrus, ibi Ecclesia, poiché la Chiesa e il Papa, al dire di S. Francesco di Sales,  formano una sola e medesima cosa (...).

Chi è il Papa? È la tessera infallibile, la pietra di paragone per distinguere in ogni tempo il cattolico dall’eretico e dallo scismatico, è il centro della cristiana unità col quale è necessario convengano i fedeli sparsi su tutta la faccia della terra. Togliete l’unione con questo centro e voi avrete la confusione, lo scompiglio, il disordine (...).

Chi è il Papa? È il fontale principio d’ogni potere sacerdotale ed episcopale, riguardante il governo delle anime; è la causa strumentale creatrice, conservatrice e propagatrice della cattolica Chiesa, è il cuore, diremo così, del mondo cristiano, il sole che in ogni parte di esso diffonde torrenti di luce e di vita (…).

Chi è il Papa? Egli è sopratutto un padre, e tal padre che nessuno, dopo Dio, è più padre di lui: Nemo tam pater. È questo il più bel titolo della sua grandezza, il più nobile suo vanto. La solenne trasmissione dell’autorità sua Gesù Cristo la fece, poco prima di salire al cielo, a tutti insieme gli apostoli, ma la parte affettiva, paterna volle comunicarla principalmente ad un solo, e quest’uno è Pietro. A tutti disse: Colla medesima autorità che il Padre ha mandato me, io mando voi; ma al solo Pietro disse: Se mi ami, pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. In Pietro unificò l’amore della paterna sua autorità, affinché da lui, come da feconda sorgente, si derivasse in tutti gli altri (...).

Noi chiamiamo il Papa col dolce nome di Padre, di Padre Santo, di Beatissimo Padre, appunto perché viva immagine di Lui che è santità per essenza e da cui ogni paternità deriva in cielo e sulla terra3.

 

 

«Pietro è costituito da Cristo vicario del suo amore»

 

Gloriosi del nome di cattolici, ripetiamo le belle parole di S. Ambrogio: «Nella Fede e nel nome di Pietro e consacrata la Chiesa», della quale, per divina istituzione, è il Capo visibile (...), rivestito immediatamente e direttamente della regale dignità e delle grazie e prerogative ad essa congiunte. Un martire della Chiesa nascente, a chi lo veniva pregando gli indicasse la via sicura di giungere a Cristo, rispose un solo accento: Pietro. Pietro, voleva dire, Pietro solo può parlarvi le parole di verità, di vita, di salute: stringetevi a Pietro con irremovibile fermezza, se vi importa di evitare il naufragio (…).

Pietro è costituito dal Salvatore vicario dell’amor suo verso di noi. Il vessillo che egli innalza è il vessillo di Dio; là troveremo le benedizioni del Cielo e i doni ineffabili delle sante chiavi, là il vincolo della carità, che ci stringe a Cristo, a Dio4.

 

 

«Per il Pontefice si appartiene alla Chiesa, per la Chiesa al Figlio di Maria, e per il Figlio di Maria al Dio vero»

 

Il Pontefice romano è il visibile capo ed il visibile fondamento, sul quale Gesù rizzò l’immortale edificio della sua Chiesa, che ormai empie i secoli. Nel Cenacolo, figura di questa Chiesa, era Pietro, il Principe degli apostoli e Vicario di Cristo; era Maria, la regina degli apostoli, la Madre di Gesù, il che vuol dire: Pel Pontefice si appartiene alla Chiesa, per la Chiesa al Figlio di Maria, e pel Figlio di Maria al Dio vero e vivo che a noi si comunica per mezzo dello Spirito Santo, e che ci attende in cielo per essere il nostro ultimo fine, come è stato il primo principio. Indubbiamente Iddio, Gesù Cristo, Maria Vergine, la Chiesa cattolica, il Pontefice romano sono tutti anelli di una misteriosa catena che lega il tempo alla eternità. Guai, tre volte guai a chi rompe uno solo di questi anelli!5.

 

 

 

 

b) PADRE DA AMARE

 

«Amarvi fino alla morte»

 

Ubbidirvi e amarvi fino alla morte, sarà questa la nostra ambizione, il più dolce conforto della nostra vita, e alla vostra obbedienza e al vostro amore ci sforzeremo di guadagnare quante più anime potremo6.

Chiamiamo in testimonio il cielo e la terra, che con tutto il cuore e con tutta l’anima ci sforzeremo di ritenere e venerare le Tue parole come parole del Signore, i Tuoi giudizi come giudizi di Dio, le Tue definizioni come giudizi di Gesù Cristo7.

Quanto a noi, Beatissimo Padre, è un premio, una gloria, ogni volta che ci è dato di poter secondare anche il minimo del vostri desiderii. Poco possiamo nella nostra meschinità, ma quel poco tutto è per Voi, che siete il nostro tenero Padre, il nostro Maestro infallibile, la nostra legge vivente8.

Sarà sempre nostro vanto pensare in tutto e sempre come Lui, giudicare come Lui, sentire come Lui, soffrire con Lui, combattere con Lui e per Lui; (...) ci chiameremo fortunati di poter dare il sangue e la vita per la causa di Lui, che è la causa di Dio9.

Io con questo mio clero e con questo mio popolo, mi stringo alla tua cattedra, perché sicuro di stringermi per essa e con essa a Gesù Cristo10.

Al Papa quindi gli occhi della mente, al Papa gli affetti del cuore. Solo in lui e per lui e con lui, possiamo essere tutti un solo, e procedere come esercito ordinato a battaglia, sicuri della vittoria (...). Non sia il nostro, o cari, un omaggio di sterile ammirazione. Amiamolo, oh! amiamolo il Papa, veneriamolo, cerchiamo nuovi modi di attestargli la nostra devozione11.

 

 

«Istillare una solida devozione alla Sede Apostolica»

 

Desiderando ardentemente di promuovere nel mio Clero e in tutto il popolo affidatomi una più profonda e lodevole, anzi necessaria, specialmente in questi tempi, devozione alla Santa Sede Romana, centro dell’unione e sorgente purissima della verità, e verso di Voi, Dottore e Maestro infallibile di fede e di costumi di tutta la Chiesa, ho pensato di umiliare ai piedi di Vostra Santità fervida e umile preghiera di degnarvi di concedere a tutta la diocesi la celebrazione in rito doppio maggiore dell’ufficio e della Messa di Commemorazione di tutti i Santi Pontefici, ogni anno, nella prima domenica libera dopo l’ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, secondo l’indulto già benignamente concesso al clero dell’Alma Città.

Beatissimo Padre, l’umile oratore sottoscritto implora tanto più ardentemente questa grazia, in quanto intende comandare a tutti i parroci di tenere al popolo, nella suddetta domenica, un discorso sulle eccelse prerogative del Romano Pontefice, secondo le ultime definizioni emanate dal Concilio Ecumenico Vaticano, nella fiducia, anzi nella certezza che i Pontefici Santi, devotamente invocati e venerati in quel giorno dai fedeli, ottengano da Dio per il Clero e il Popolo piacentino una vera e salda adesione, riverenza e amore verso la Vostra Santa Sede Apostolica, che è per noi e per tutti la vera e unica ancora di speranza e di salvezza12.

 

 

«L’amore al Vicario di Gesù Cristo»

 

Beatissimo Padre! Che il divino Principe dei Pastori si degni versare a larga mano sopra di Voi i suoi doni più eletti. Egli, fra tali e tante vicissitudini di uomini e di cose, fra tante e sì gravi angustie che da ogni parte Vi premono, Vi conforti, Vi sorregga, Vi conservi ancora per lunghi anni vegeto e sano a maggiore sua gloria, a decoro e incremento della Religione, a tutela e presidio della Chiesa, a sollievo dei buoni, a confusione dei malvagi. Vi allieti col trionfo compiuto della Vostra causa, il quale potrà tardare, ma non fallire. Ai dolori della Passione succederanno i gaudii della Risurrezione.

Vi umilio, B. P., coi miei voti, i voti e le felicitazioni dei Missionari che prestano la loro assistenza ai nostri emigrati nelle Americhe, i voti altresì e le felicitazioni degli stessi emigrati.

Per mio mezzo quei poveretti depongono ora ai Vostri Piedi il loro obolo in segno di gratitudine per quanto faceste sin qui a vantaggio loro, e implorano ad un tempo sopra di sé e sopra le loro famiglie l’Apostolica Benedizione.

I Missionari, i quali hanno per regola di svegliare e tenere desto nelle colonie dei nostri poveri espatriati l’amore al Vicario di Gesù Cristo, implorano essi pure da Voi, Padre Santo, una Benedizione speciale, la quale valga ad infondere loro nuova lena, nuovo coraggio in mezzo alle loro veramente apostoliche fatiche13.

 

 

«A Roma non vanno i cattolici pellegrinando per futili motivi»

 

Una delle opere, che servono a rendere oggi pubblica e solenne la manifestazione della nostra fede, è la pratica devota dei pellegrinaggi, specialmente a Roma, il venerato santuario della nostra fede, il centro della cattolica unità, il luogo santo ove siede Colui che fa in terra le veci di Dio (...).

Là essi vanno, per compiere un atto di religione, per visitare i grandiosi monumenti della loro fede, per attingere nuova forza e nuovo coraggio a combattere le battaglie del Signore (...). Vanno, per respirare fra quelle mura l’aura purissima della vita cristiana, quasi a godere dei diritti di una casa comune, ed a raccogliersi, benché lontani, presso la tomba dei padri come in una sola grande famiglia. Vanno per far nota all’universo la vita che sempre anima la Chiesa e per sbugiardare coloro, i quali non cessano di gridare stoltamente, il Cattolicismo aver fatto il suo tempo, esser morto il Papato. Vanno finalmente per attestare, in faccia a Dio e in faccia agli uomini, nella maniera più esplicita e solenne, la devozione e l’affetto che li tengono legati al Successore di Pietro, al Principe dei Pastori, al Maestro infallibile del dogma e della morale: per ascoltare dalle auguste sue labbra una parola di conforto e d’incoraggiamento e per essere da Lui benedetti14.

 

 

«Il loro odio sia la misura del nostro amore per il comun Padre»

 

Non ci spaventino gl’insulti e i clamori dei nemici del bene. Ad esempio del divin Salvatore, il quale dall’alto della croce chiedeva perdono pei suoi carnefici, preghiamo per essi, che si sono fatti i carnefici della Chiesa, madre loro e nostra. E noi generosi ed invitti diamo loro il contrario esempio. Il loro odio sia la misura del nostro amore pel comun Padre; i loro oltraggi siano la misura del nostro rispetto; il disprezzo che essi fanno della sua parola, sia la misura della nostra confidenza. A tutte le loro bestemmie, a tutte le loro negazioni, rispondiamo con un’affermazione più energica, più viva che mai.

Sì, è tempo oramai di spiegarci. Dobbiamo, giova ripeterlo, levare alte le fronti, dispiegar la bandiera delle opere sante, parlar francamente, ed assicurare tutto il mondo che siamo col Papa, suoi sudditi fedeli, suoi figliuoli obbedienti, suoi amici tenerissimi, suoi servitori devoti sino alla morte; che teniamo inviolabilmente le parti del Papa, che crediamo agl’insegnamenti del Papa, che ci sottomettiamo a tutti i precetti del Papa, e che vogliamo vivere e morire nella comunione di fede, di obbedienza, e di amore al Papa.

Difatti professare di star col Papa è professare di star colla Chiesa, di cui egli è Capo e Pastore supremo; di star con Cristo, di cui fa in terra le veci; di star con Dio, perché Cristo è Dio, e un solo Dio col Padre e lo Spirito Santo15.

 

 

 

c) PADRE DA OBBEDIRE

 

«Solenni promesse di fedeltà e di obbedienza»

 

Il 30 Gennaio corrente si compiranno 25 anni dacché l’E.mo Card. Franchi, di sempre cara e felice memoria, mi consacrò Vescovo di Piacenza (...).

Le solenni promesse fatte allora di fedeltà e di obbedienza illimitata alla S. Sede Apostolica, io le rinnovo ora con animo ancor più fervido e risoluto ai piedi della Santità Vostra, come innanzi a Gesù Cristo, di cui siete sulla terra il degno rappresentante.

E ai piedi della Santità Vostra mi è caro aprirmi dell’animo, specie in questa occasione. Se io guardo alle opere compiute in mezzo a non poche difficoltà, ho grande motivo di rallegrarmi nel Signore; ma se discendo col pensiero nel segreto del mio spirito, non trovo che materia di rammarico per tanto bene che non ho fatto o che non ho fatto bene. Di una cosa sola posso assicurarvi, Beatissimo Padre, ed è che in tutte le cose io non ho avuto mai altro di mira che la gloria di Dio e la salute delle anime affidatemi. Ora quel po’ di vita che il buon Dio vorrà concedermi ancora, io intendo di consacrarlo anch’esso interamente a vantaggio della sua Chiesa, alla difesa dei Vostri sacrosanti diritti, a stringere sempre più alla Vostra augusta Persona l’amato mio gregge.

Questi i miei propositi e le mie risoluzioni, al momento di incominciare i santi Esercizi. Voi, Padre Santo, degnatevi di confermarle con la Vostra Benedizione, con una di quelle Benedizioni che ravvivano, confortano e rendono l’anima superiore a sé stessa16.

 

 

«Padre Santo, parlate e sarà nostro vanto obbedirvi»

 

Viva il Beatissimo nostro Papa Pio X.

Ma in Lui, fratelli e figli carissimi, più che le doti personali, noi dobbiamo considerare l’autorità di cui è rivestito, autorità suprema, universale, divina (...). Tutti pertanto, vescovo, clero e popolo, congiunti fra noi coi vincoli della carità e formanti come un sol corpo, stringiamoci con filiale trasporto ai piedi del novello Gerarca; circondiamolo della nostra più profonda affettuosa venerazione; diciamogli: Padre Santo, parlate, e sarà nostro vanto obbedirvi; guidateci, e noi docilmente vi seguiremo; ammaestrateci, e i vostri insegnamenti saranno la norma costante, invariabile della nostra condotta, ben sapendo che Voi solo avete parole di vita eterna, che è contro Gesù Cristo chi non è con Voi, e che dall’unione con Voi dipende la nostra eterna salute17.

 

 

«Guardiamoci dal rimpicciolire la grandezza della causa cattolica alle meschine proporzioni dei nostri privati giudizi»

 

Guardiamoci specialmente dal rimpicciolire la grandezza della causa cattolica alle meschine proporzioni dei nostri privati giudizi. Di tutto ciò che può formare tra noi oggetto di discussione, pensiamone come il Papa ne pensa, giudichiamone com’Egli ne giudica, lavorando ciascuno per la causa del bene, con quei mezzi e in quella misura che Egli nella sua sapienza prescrive, e operando sempre con quella rettitudine d’intenzione, con quella perfetta unione di mente e di cuore che sole possono chiamare la benedizione di Dio sulle nostre fatiche e renderle proficue per lo scopo santissimo che dal Gerarca supremo ci viene indicato18.

 

 

«Sempre uniti di mente, di spirito, di cuore al Romano Pontefice»

 

Tu il Padre e noi i figli, Tu il Maestro e noi i discepoli; Tu il Capo e noi i gregari; Tu il Pastore e noi le pecorelle; Tu l’albero e noi i rami. Guai al ramo che si stacca dal ceppo vitale! E come la foglia d’autunno che casca dall’albero e tosto inaridisce (...).

Tenetevi sempre uniti al Romano Pontefice; uniti di mente, di spirito, di cuore; giacché non si può andare a Dio che per mezzo di Gesù Cristo; non si può trovarsi uniti con Gesù Cristo, che per mezzo della sua Chiesa; ma non si può far parte della Chiesa che vivendo in comunione di fede e di carità col Romano Pontefice; ed ogni cattolico deve affermare, colla parola e coll’opera, in privato ed in pubblico, sempre e da per tutto, la necessità d’una piena, d’una assoluta obbedienza a quanto Egli insegna o comanda. Bisogna esser cattolici coll’aperta e franca professione del cattolicismo, senza umani riguardi, senza reticenze, intieramente19.

 

 

«Chi ascolta il suo Vicario ascolta Cristo»

 

Nell’obbedienza di tutti voi confidiamo pienamente, Venerabili Fratelli: non è infatti da poco tempo che ci è nota la pietà illuminata e l’obbedienza sincera di tutti voi verso i superiori. Se non ci desse sicurezza la vostra costante moderazione, una sola cosa temeremmo: che coloro che non hanno mai approvato la dottrina condannata ostentassero con iattanza il loro trionfo: e coloro invece che in qualche modo l’hanno difesa, pensassero di essere stati colpiti ingiustamente. Non c’è ragione che i primi si glorino a torto e temerariamente di un trionfo: canterebbero un trionfo del tutto fittizio, perché in questa manifestazione della verità non è stato un acuto ragionamento dell’uomo che ha vinto, ma la verità, anzi Cristo stesso: e certo è solo Cristo che trionfa nell’obbedienza di tutti.

D’altra parte non capiamo come possano sentirsi in qualche modo bollati di ignominia gli altri: oltre al fatto che qualcosa di simile e già successo a uomini anche di primo ordine, che non sono stati per questo segnati da alcuna nota di biasimo, questi nostri Sacerdoti, che in qualche modo aderivano alle dottrine di Antonio Rosmini, erano già disposti ad abbandonarle immediatamente a un cenno della Chiesa, e già prima avrebbero confermato concretamente la loro disposizione d’animo, se la Chiesa avesse parlato prima (...).

Stando così le cose, non c’è motivo per qualcuno, mosso da vanità fuor di proposito, di disprezzare o, peggio, schernire gli altri: mentre per quelli che prima hanno professato la dottrina ora riprovata non esiste nessuna ragione di sentirsi offesi, dato che, rinunciando al messaggio della dottrina proscritta, accettano docilmente il giudizio della Sede Apostolica.

Perciò, deposta ogni animosità, tutti insieme godano grandemente perché finalmente la verità è stata chiarita: godano quelli che non hanno mai professato la suddetta dottrina, perché vedono la solida conferma della loro opinione; quelli che vi avevano aderito godano ancor più, perché si vedono liberati del tutto da ogni pericolo di errore, nel quale avevano incominciato a incorrere.

Non esiste dunque nessuna ragione per cui un vero figlio della Chiesa si allontani dal dovere di una perfetta sottomissione. Tutti accolgano con riverenza il decreto, assoggettando la loro intelligenza in obbedienza a Cristo, ben sapendo che chi ascolta il suo Vicario, ascolta Cristo. Ognuno faccia proprio il proposito del celeberrimo Mons. Fenélon, che in una circostanza simile diceva: “Preferirei morire piuttosto di sostenere o di difendere direttamente o indirettamente una dottrina riprovata o proscritta dalla Sede Apostolica: a me non resta che sottomettermi internamente ed esternamente: questa è la mia dignità, la mia fama, la mia gloria e il mio vanto per sempre”.

Non c’è qui da fare alcuna distinzione, non c’è niente da tutelare al di fuori della perfetta obbedienza e dell’umile sottomissione del cuore e della parola alla Santa Chiesa, cosicché i posteri, ricordando questa lunga controversia, abbiano a riconoscere a lode del nostro popolo che sia i sacerdoti sia i laici in questa circostanza hanno cercato una sola gloria, un unico onore, quello cioè di sentire e giudicare, riprovare e proscrivere ciò che la Sede Apostolica ha sentito e giudicato, riprovato e proscritto20.

 


 

 

3. Il VESCOVO

 

Nel grande sacramento della Chiesa, Sacramento vivente è il vescovo, segno dell’unione con Cristo e con il Papa. Il Papa è il fondamento, i vescovi sono le colonne della Chiesa. Il vescovo è «pontefice», il rappresentante di Dio misericordioso e giusto. Il suo unico interesse è quello di Cristo: la salvezza degli uomini.

Sposo della Chiesa, è l’anello infrangibile della gerarchia ecclesiale, tramite imprescindibile tra il Papa e i fedeli della diocesi, dotato di autorità conferita da Dio in quanto ha ricevuto dallo Spirito la pienezza dell’Ordine sacro, che è pienezza d’amore. Nella dedizione totale agli uomini è padre e servo di tutti: servo della verità, padre dell’unità. Non conosce partiti, non tollera lacerazioni della veste inconsutile di Cristo; ma l’arma del suo combattimento è la carità, presupposto dell’unione cementata dall’obbedienza.

Sentinella posta a sovraintendere a una Chiesa particolare, considera delitto il silenzio. Chiamato a far parte della sollecitudine di tutte le Chiese, ha il diritto e il dovere di parlare e di illuminare anche i superiori sulla realtà ecclesiale locale e rivendica l’autonomia di chi è stato posto dallo Spirito a reggere la Chiesa in comunione con il Romano Pontefice.

 

 

a) «SO DI ESSERE VESCOVO»

 

«Con timore e tremore, fidente nella grazia di Lui»

 

A tale impensato annunzio della mia assunzione, considerandone il peso, formidabile agli omeri stessi degli angeli, conscio di quanto tuttor mi manca, compatitemi, profusi lagrime e preghiere al Dio delle misericordie a ciò che volesse esentare dai santissimi ufficii né lievi né pochi dell’Episcopato me non pari a tanto per ingegno, me non d’anni maturo, povero di virtù e ben consapevole di tutte le mie infermità. Ma poi che nell’autorità del Beatissimo Vicario di Gesù Cristo conobbi tale essere manifestissimamente la volontà di Dio, fidente nella grazia di Lui che largisce le forze a cui conferisce le dignità (S. Leo. M. Serm. I), con timore e tremore bensì, ma rassegnato, mi sottomisi al ministero impostomi, lontano dal voler investigare le ragioni della divina Bontà e rassicurato nella fermissima speranza che Colui, il quale opera in me il volere e l’azione, non mancherà col suo beneplacito di rassodarmi, dirigermi e soccorrermi costantemente[1].

 

 

«Cristo Gesù vive nel vescovo come in un sacramento animato»

 

Benché immeritevole, io son vostro Vescovo. Chi mi ha dato l’autorità sopra di voi, se non appunto Gesù Cristo, per mezzo di Colui che ne fa qui in terra le veci? Cristo Gesù vive nel Vescovo come, direi quasi, in un sacramento animato, e la vita del Vescovo trae  tutto il suo vigore da questa unione intima con Lui, Principe dei Pastori, e col suo visibile Rappresentante, il Papa. E’ solo per questa unione, che egli, il Vescovo, possiede, nei confini della sua Diocesi, autorità di magistero, di comando, di perdono, di punizione, ch’egli è predicatore del Vangelo, ministro di tutti i Sacramenti, consacratore degli stessi ministri di Dio, Giudice, Maestro, Pontefice, Legislatore. Quindi se l’autorità della Chiesa è umana negli organi per cui si esercita, essa ha nulla di umano nella sorgente da cui discende. Uomini sono che vi dicono quello che dovete credere, ma essi non insegnano la loro dottrina. Essi altro non sono che l’eco dell’insegnamento del Verbo di Dio. Ciò che propongono alla vostra fede è quel medesimo che son tenuti essi stessi a credere come voi. Comandando, obbediscono; non esercitano, no, un dominio, ma vi fanno partecipi della gioia della loro certezza[2].

 

 

«Il Vescovo delle anime nostre per mezzo dei Vescovi continua il suo ministero»

 

Gesù Cristo, il gran Pastore delle pecorelle, come Lo chiama S. Paolo: Pastorem magnum ovium (Hebr. XIII. 20); il Vescovo delle anime nostre, come S. Pietro lo appella: Episcopum animarum nostrarum (I. Petr. II, 25), costituito da Dio Padre, con irrevocabile giuramento, Sacerdote eterno (Salm. 109, 4), esercitò visibilmente il pastoral ministero, allorché, vestito della nostra umanità, visitò le genti, illuminando quelle che sedevano nelle ombre di morte, additando loro i sentieri della giustizia e tutto bagnando dei suoi sudori il mistico suo campo; campo di grazie e di perenne fecondità, preparato dai secoli eterni, qual è la Chiesa Cattolica (...).

Per mezzo dei Vescovi, Successori appunto degli Apostoli, Gesù Cristo continua ad esercitare anche oggi il sublime suo ministero, essendo l’Episcopato, che si unifica in Pietro, il proseguimento quaggiù della missione e della vita del Salvatore, a buon diritto perciò appellato dalle Apostoliche Costituzioni (Lib. II, c. 26) una terrena Divinità; la ripetizione nel tempo e nello spazio, direbbe S. Agostino, del Sacerdozio supremo di Cristo[3].

 

 

«Il Papa è il fondamento, i Vescovi le colonne»

 

Chi è il Vescovo? I sensi non vedono in lui che un uomo simile agli altri uomini, ma la fede ci dice: egli è un Angelo destinato da Dio a guidarci nelle vie del bene, è il sommo Sacerdote che rappresenta innanzi a Dio il popolo cristiano. Colui che è Pontefice per la eternità lo unse del suo crisma, lo arricchì del settemplice suo Spirito, e, ponendogli tra le mani il Vangelo, gli disse: Va; va e insegna agli uomini la mia celeste dottrina; va, e coi Sacramenti il santifica; va, e col potere che io ti comunico li governa: Posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei.

Per non interrotta successione il Vescovo si lega ai primi eletti di Cristo, a quegli Apostoli ai quali il Salvatore disse: Come il Padre mio ha mandato me, io mando voi. Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me, e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato. Il Vescovo adunque è sulla terra il continuatore dell’opera redentrice di Gesù Cristo, è il successore degli Apostoli, è il depositario, il propagatore, il giudice, il difensore, il custode nato dalla fede in intima unione col Vescovo dei Vescovi, il Papa.

La Chiesa, è vero, è il tempio vivo ed unico di Dio, di cui il Papa è il fondamento, ma i Vescovi ne sono le colonne. La Chiesa è un corpo, di cui il Papa è il Capo visibile, ma le membra più nobili ne sono i Vescovi. La Chiesa è una nave, della quale il Papa è il nocchiero, ma i Vescovi ne sono i piloti. La Chiesa è come un regno, di cui il Papa è il duce supremo, ma i Vescovi ne sono i capitani[4].

 

 

«La missione del Vescovo»

 

Qual è la missione del Vescovo? Non ve n’è che una sola, ma essa è ammirabile e risponde a tutte, è quella di preparare nelle anime le vie del Signore (...).

L’uomo quaggiù anela a Dio, ha bisogno di Dio, ha sete di Dio. Egli nutre in cuore pensieri, desiderii, affetti che hanno dell’infinito e tendono all’infinito. Di qui il gemito ineffabile dell’umanità, e quel vuoto immenso che nessuna forza creata vale a riempire.

Or bene, il Vescovo è come il valico, il ponte gettato dalla mano di Dio fatto uomo su questo abisso, per unire appunto la creatura al creatore, la terra al cielo, gli uomini a Dio. Ecco la sua missione, ed ecco perché nei libri santi e nella sacra liturgia tante volte il Vescovo è chiamato Pontefice: Pontifex, idest pontem faciens (S. Bernardo).

Nel regno spirituale egli è la sentinella di Dio, e per questo lo vedete collocato sopra una cattedra, donde spazia l’occhio suo vigile. È lui incaricato di rispondere alla domanda misteriosa che dalle altezze dell’eternità gli giunge all’orecchio ogni mattina: Sentinella, che hai tu scoperto nelle tenebre della notte? Custos, quid de nocte? E tenebre nella notte, spiega S. Agostino, sono gli errori, sono i pregiudizi, sono tutti quegli ostacoli che impediscono a Dio di entrare nelle anime[5].

 

 

«Sposo della Chiesa»

 

Sposo della Chiesa, alla quale s’è unito nella sua consacrazione e della quale porta in dito il mistico anello, egli ha posto in lei tutto il suo cuore. Sì, pel Vescovo la sua Diocesi è tutto ciò che vi è di più caro al mondo, padre, madre, figliuoli.

Lo scettro che stringe nelle sue mani consacrate, non è solo la verga della giustizia, ma è anche il vincastro del Pastore, al quale si appoggia per andare in cerca della pecorella smarrita... Egli ha mente, cuore, viscere di Padre. Paternità mille volte più sublime, più tenera, più intima di quella che procede da natura, perché più simile alla paternità divina.

Quindi è che il Vescovo sente profondamente nel suo cuore tutte le gioie, come tutti i dolori dei suoi figli in Gesù Cristo, e può davvero ripetere coll’Apostolo: Chi è mai tra loro che soffre e io non ne soffra? (...)

I poveri quindi, le vedove, i pupilli, i miserabili d’ogni maniera sono i suoi prediletti, e si studia, nella misura delle proprie forze, di soccorrerli[6].

 

 

«Niente di più difficile che l’ufficio di Vescovo»

 

Niente di più difficile in questo mondo, scrive S. Agostino, niente di più faticoso, niente di più pericoloso che l’ufficio dl Vescovo. Nihil in hac vita difficilius, laboriosius, periculosius Episcopi officio.

Ed in verità, dirigere la milizia sacerdotale e muoverla in ordinata falange alla conquista delle anime; scegliere il terreno adatto per questa lotta pacifica della verità contro l’errore e contro le umane passioni; assegnare a ciascun soldato di Cristo il posto che conviene alle sue attitudini, ripartire le cariche in ragione del merito, moderare l’impazienza degli uni, eccitare l’ardore degli altri, infervorare i tiepidi, incoraggiare i forti, comunicare a tutti il fuoco sacro dell’apostolato; e saper, d’altra parte, unire alla severità la compassione, il rigore della giustizia alla tenerezza paterna; guardare il gregge dai lupi, dai lupi specialmente che si aggirano nell’ovile in sembianza di agnelli; dilatare il proprio cuore per abbracciare tutto un popolo, studiare notte e giorno i bisogni delle anime, vegliare con gelosa cura i loro spirituali interessi, moltiplicare i rimedii a seconda delle loro infermità; pascerli con la parola e coll’esempio, donarsi loro interamente, ad ogni istante e senza riserva, non aspettando rimunerazione dagli uomini; difendere coraggiosamente l’onore di quella croce che ne adorna il petto, preparato sempre a bagnarla del proprio sangue, prima che mai abbandonarla; non essere infine il centro della santa dottrina e del potere sacro che per divenire i focolare donde irradia la luce, il calore e la vita: ecco la missione del Vescovo[7].

 

 

«Un Vescovo non è padrone del suo onore»

 

Esto robustus et confortare in Domino. Difendete l’onor vostro, se non potete difendere quello dei vostri. Non siate facile a far promesse laggiù e neppure a lasciarvi imporre condizioni. Pensate che il non difendervi, almeno presso il Papa, più che edificazione può recare scandalo, e se ne piglierebbe poi occasione per dire che voi stesso vi riconoscete reo. Capisco il rispetto, l’obbedienza, la pietà, l’eroismo, capisco tutto; ma un Vescovo non è padrone del proprio onore, come può essere un privato.

Ho la fiducia che le cose si metteranno bene per voi, ma torno a ripetervi: difendetevi, con riverenza sì, ma con tutta la energia di cui siete capace; difendetevi, difendetevi[8].

 

 

«So di essere Vescovo»

 

Che fare dunque? Ci dobbiamo lasciar demolire? Poco importerebbe per le nostre persone, almeno per la mia affatto insignificante; ma e le anime? e la Chiesa? e gli interessi di Gesù Cristo? Mio Dio! a che punto si è arrivato. Per me io credo che dobbiamo difenderci contro queste mene col mostrare in ogni nostro atto moderazione episcopale, col serbare indulgenza nel cuore ma fermezza nelle parole; dobbiamo difenderci anche pubblicamente, ma però, in quanto è possibile, senza accusare nessuno (...).

Povero arcivescovo! Quali umiliazioni! Che Dio lo assista e lo conforti! Sto meditando una lunga lettera al Papa, un memoriale nel quale voglio rivendicare arditamente la libertà dell’episcopato e dirgli che siccome si permette che le accuse siano divulgate, così non dovrà meravigliarsi se vedrà stampate le mie lettere a lui indirizzate per una difesa doverosa. Che non voglio più saperne di fantocci o di conniventi a cui mi debba indirizzare (...).

E so di essere vescovo e lo sono senza riguardi di sorta ecc. Veggo bene che sarà un buco nell’acqua ma non importa; preparo documenti per la storia ecclesiastica di questi miserabili tempi[9].

 

 

«Gli interessi di Gesù Cristo e della Chiesa»

 

Se l’Episcopato non comprende il grave pericolo che minaccia la Chiesa, o chi lo comprende non ha il coraggio di affrontare il nemico, è tutto perduto. Vi mando due numeri del noto giornale; abbiate la pazienza di leggere i luoghi segnati in rosso e poi mi dite se voi non siete oltraggiosamente indicato e giudicato. Mio Dio! che orrori! mi sento un tale furore addosso, che bisogna mi tenga molto a piedi del Crocifisso. E voi che farete? Un passo ardito, energico contro quei veri demonii, vi potrebbe recar qualche piccola noia, ma gioverebbe a voi e a tutti; certo agli interessi di Gesù Cristo e della Chiesa[10].

 

 

«Conosco benissimo la mia posizione di fronte al governo»

 

Vorrei che l’Eminenza Vostra si persuadesse bene che io sono altamente penetrato del geloso incarico affidatomi e che conosco benissimo la mia delicata posizione di fronte specialmente al Governo. Il Governo mi osteggia accanitamente, sebbene per ora di soppiatto, massime dopo che ai Missionari di New York, ai quali il Console aveva suggerito di chiedere un sussidio al Ministero, feci sapere che si guardassero bene dal farlo. “Voi, risposi loro, non dovete usare né servilità, né ostilità inutili. Tenetevi nei migliori rapporti colle autorità locali, non chiedete nulla al Governo”.

È vero che nell’ultimo opuscolo, ch’io scrissi, mi rivolgevo in certo qual modo al Governo stesso, ma come V.E. avrà compreso, fu primieramente per gettare un po’ d’acqua sul parossismo febbrile che si era impadronito degli animi contro il clero e l’Episcopato e contro la S. Sede; e poi ragionavo così: o il Governo, il che non è da supporre, accorda l’esenzione del chierici dalla leva, come io pubblicamente insinuo, o non lo accorda. Nel primo caso sarà tanto di guadagnato per la Chiesa; nel secondo caso risulterà meglio in faccia al mondo, come avvenne di fatto, la sua ingiustizia e l’odio suo contro di noi.

Gran brutta cosa, Eminentissimo, vivere in mezzo a tanti fuochi! Assicuri pure il S. Padre, che io non bado che a Lui, e che tutta la mia ambizione è di piacere a Lui solo, sapendo così di piacere a Dio[11].

 

 

«Geloso del principio gerarchico»

 

«Voi però gli avete dato segreto incarico di ispezionare lo stato religioso delle colonie italiane in relazione allo scopo inteso dalla S. Congregazione...». Ma possibile, Eminentissimo, che mi si creda ragazzo ed imbecille a tal punto da suppormi capace di mandare un laico, fosse pure un santo di primo ordine, per riferire intorno a cose che spettano assolutamente al clero? Io, così geloso del principio gerarchico? Sarei degno a dir poco di manicomio, se lo avessi pur pensato. La mia norma costante, immutabile è questa: non fare spedizione alcuna di preti, se non d’intesa coi vescovi. È solo dietro le loro relazioni che io lo giudicato e giudico dei bisogni degli emigranti...

La smentita che V.E. mi consiglia di pubblicare, lo l’avrei già pubblicata se il giornale di Milano non avesse avuto l’impudenza di impormelo, citandomi pubblicamente al suo tribunale, e quasi obbligandomi a dar conto a lui del mio operato. L’autorità di un vescovo, anche meschinissimo quale mi sento di essere io, è sacra, è divina, né si può abbassarla innanzi ai clamori di un giornale qualunque. Sarebbe un distruggere il principio gerarchico, sul quale riposa l’avvenire della Chiesa.

Tuttavia, in ossequio al desiderio di V.E., una dichiarazione la farei ben volentieri, appena se me ne offrirà propizia occasione, ed anzi prima di pubblicarla mi farò un dovere di sottoporla al suo illuminato giudizio[12].

 

 

b) PATERNITÀ E SERVIZIO

 

«Tutti abbraccerò facendomi servo di tutti»

 

Confortato pel dono della divina Consacrazione, mi si accresce grandemente la speranza che il Supremo Pastore dell’ ovile Gesù Cristo Signor nostro, volgendo benigno lo sguardo alla purezza della fede, all’amore della Religione, al fervore della pietà di codesto ottimo clero e popolo della Chiesa piacentina, vorrà essere di costante ed efficace sostegno alla soverchia debolezza dell’ indegno Pastore.

Quanto a me, debitore a tutti, secondo le mie forze, tutti abbraccerò col mio ministero facendomi servo di tutti per l’evangelio (1 Cor. IX); ed inviato in prima ai poveri ed ai più infelici che traggono miseramente la vita nella desolazione, soffrirò con essi, dando opera sopratutto a sovvenire ed evangelizzare i poveri che, ricchi di fede, ven{5}nero eletti dal Redentore primi ed eredi del Regno promesso da Dio a coloro che lo amano (Jac. II).

Ben sapendo essere io chiamato al martirio dell’episcopato, cioè alle fatiche, alle asprezze, alle angoscie, mi riescirà dolcissimo il sofferire il peso ed il bollore della giornata, e lietissimamente spenderò il mio e spenderò di più me stesso per le anime vostre (2 Cor. XI). Acciocché poi l’animo non venga meno, mi specchierò coll’Apostolo nell’Autore e Consumatore di nostra fede, che per la gloria del Padre e la salvezza delle anime si fece uomo ed obbediente fino alla morte di croce. Rinnovato nello spirito di mia vocazione, mi opporrò fortemente alle arti sacrileghe degl’empi con cui si tenta di abbattere la casa eretta dallo stesso Cristo sopra la salda pietra.

Vestito l’usbergo della giustizia, imbracciato lo scudo della fede con cui poter estinguere i dardi infuocati dei nemici di Dio, e impugnata la spada dello spirito, che é la parola divina, combatterò nel buon arringo, fermo nella speranza che Chi ha iniziato in me l’opera celeste, saprà terminarla, confermarla e consolidarla; e Chi m’indossò questa carica, verrammi Egli stesso in aiuto a bene amministrarla (S. Leo. M. Serm. 2).

Se in me dunque, V. F. e F. D., vi ha consiglio, se virtù, se scienza nelle divine e nelle umane cose, se prudenza tutto vi sarà completamente dedicato, acciocché tra voi il regno di Dio si dilati, domini la pace, ed ognuno a suo potere santamente e placidamente conduca la vita. Non ricuserò fatiche, V. F. e F. D. per farmi padre agl’infelici, precettore agl’ignoranti, rettore ai Sacerdoti, pastore a tutti, onde, fatto così tutto a tutti possa guadagnare tutti quanti a Cristo.

Coll’esempio delle pastorali virtù, con retti consigli, con gravi suggerimenti, ammonendo, scongiurando, e virilmente, se sarà d’uopo, riprendendo i seniori quali padri, i più giovani quali figli, mi sforzerò secondo le mie forze di apparecchiare al Signore un popolo perfetto, non cessando mai di instare con umiltà e lacrime presso Dio perché dia Egli stesso incremento alle opere mie[13].

 

«Nel Vescovo non può non esservi pienezza d’amore»

 

Sacrificarsi in tutti i modi per dilatare nelle anime il regno di Gesù Cristo, esporre, se è necessario, la propria vita per la salute dell’amato suo gregge, mettersi, dire, così, in ginoc­chio davanti al mondo per implorare come una grazia il per­messo di fargli del bene, ecco lo spirito, il carattere, l’unica ambizione del Vescovo. Quanto egli ha di autorità, di inge­gno, di salute, di forze, tutto egli lo adopera ai nobilissimo intento...

E qual opera vi è mai veramente buona e benefica la quale non ottenga dal Vescovo protezione e favore? sarà egli forse ripagato d’ingratitudine; non importa. La sua carità non vien meno giammai: nunquam excidit (...).

Dio è carità, e quanto più un’anima a Dio congiunta, tanto più in lei e pienezza di carità. Ecco perché il Vescovo non ama solo Iddio, non ama solo i fratelli, ma tutto ciò al­tresì che è degno di amore. Tutto, ripeto, senza eccezione. Egli ama ogni cosa vera, ogni cosa bella, ogni cosa grande, ogni cosa buona, ogni cosa santa: materia e spirito, ragione e fede, natura e grazia, civiltà e religione, Chiesa e Stato, fa­miglia e patria. Egli ama tutte le armonie della natura uma­na, e le ama perché non può non amarle: le ama, perché nel suo cuore, unito per la pienezza dello Spirito Santo è Dio, ve­rità, bellezza, bontà, vita, amore per essenza, non può non esservi pienezza di amore[14].

 

«Non è per me tra voi amico o nemico, ché tutti siete figli»

 

Vi ho parlato francamente, e a cuore aperto, come richiedeva il dover mio. Forse a taluno è sembrato acerbo qualche rimprovero? Me ne dorrebbe assai, perché, credetelo, miei figli, se detesto il male, io non ho ombra di risentimento verso alcuno. Vi amo, e appunto perché vi amo, mi sdegno contro chi si fa a voi pietra di scandalo e cerca tradirvi. Vi abbraccio tutti in Gesù Cristo, vorrei tutti porvi qua dentro il mio cuore; darei la vita e mi farei volentieri anatema per ciascuno di voi, quando potesse tornarvi a salute.

No, non è per me fra voi amico o nemico, ché tutti siete figli della mia famiglia, tutti segnati in fronte del segno della Redenzione, tutti destinati ad essere il mio gaudio e la mia corona. Dirò a voi quello che diceva al suo popolo un Vescovo santo. Quand’anche a Dio piacesse permettete che venisse giorno nel quale, alle avversità e alle contraddizioni del mio Ministero si aggiungessero le vostre ingratitudini e le vostre maledizioni, ho per fermo che, con la grazia del Signore, vi risponderei benedicendovi e amandovi più ancora[15].

 

«Il cuore del padre»

 

Gli anni di episcopato che alla vostra fede e bontà oggi argomento di festa, a me lo sono di trepidazione e di sgomento. Oggi più che mai io sento il peso formidabile che mi grava sugli omeri. Penso a tante grazie particolari, insi­gni, straordinarie, grazie di predilezione, che mi avrebbero, mediante un’assidua cooperazione, (portato) ad un alto grado di perfezione, e temo. Penso al gran conto che dovrò rendere al Giudice divino dei cinque lustri dacché sono Vescovo, penso ai pericoli che porta con sé, massime ai di nostri, la cu­ra pastorale, penso che avrò da rendere ragione di tante ani­me che mi precedettero nel gran viaggio dell’eternità, di tutti e di ciascuno di voi, e se mi atterrisce il futuro, il passato mi umilia profondamente e mi conturba: me ternet quod vobis Episcopus sum, dirò con S. Agostino.

Mi umilia e mi confonde il pensiero di tutto il bene che vi avrebbe procurato una volontà più energica, uno zelo più illuminato, una vita più operosa.

Mi risovvengo di una promessa che vi feci il dì del mio so­lenne ingresso, la prima volta che ebbi ha consolazione di par­larvi. Dopo avervi prevenuto che nulla avreste trovato in me di quanto ammiraste nei miei predecessori, francamente sog­giunsi: Vi assicuro però che il cuore del padre lo troverete. I fat­ti hanno corrisposto alla data parola? Non oso dirlo.

Questo solo posso accertarvi, che sempre vi ho amato, che le vostre glorie furono sempre le mie gioie, miei dolori i vostri dolori. L’amor mio per voi, o piacentini, non conobbe vicen­de, ne per contraddizioni od offese fu mai affievolito. Se odiai la colpa, cercai sempre di abbracciare il colpevole.

Venni, desideroso solo della vostra salute: venni, come l’apostolo ai Corinti, non confidando nelle parole dell’umana sapienza, ma in ostensione spiritus et virtutis. Venni, annun­ziando la pace, né risparmiai sacrifici per crescere di prefe­renza in mezzo a voi il modesto ulivo, procurando che all’ombra sua fiorissero la carità, l’amore a Gesù Cristo, alla Chiesa, al suo Capo augusto, il desiderio efficace del bene di questa città e Diocesi amatissime.

Vi ho amato tutti senza distinzione. Se qualcuno vi fu che vide talvolta il mio volto atteggiarsi a insolita severità, men­tre una nube di tristezza passavami sulla fronte e la mia paro­la assumeva il tono del rimprovero, sappia che quella tristez­za, quella severità, quel rimprovero uscivano da un fondo di amore, partivano da un cuore che gemeva, perché contrasta­to dal desiderio del bene.

Vi ho amato per debito di giustizia, perché mio popolo, ed oh, così non difettassero i mezzi, come io vorrei mostrarvi ben altrimenti che a parole questo amore! Ogni anno che è passato è un anello di più alla catena che mi unisce a voi, tela fabbricata dall’amore vicendevole, catena che lungi dall’indebolirsi col tempo, sempre più si rafforza, diventa in­frangibile[16].

 

 

c) ANELLO DELLA GERARCHIA ECCLESIASTICA

 

«L’unità dei successori degli Apostoli»

 

La unità per ha quale supplice Gesù Cristo il Padre celeste, sint unum, la raccomando (...) ai successori degli Apostoli e tra essi al successore del Principe degli Apostoli, centro d’onde partono e dove si appuntano tutti i raggi, Maestro privilegiato di specialissima assistenza da Dio, Giudice senza appello di tutte le controversie, Pietra fondamentale del mistico edificio eretto per la salute degli uomini dal Verbo In­carnato, Pastore al quale con assoluta potestà fu confidato tutto il gregge e tutti i Pastori, che nelle singole Diocesi reg­gono le singole popolazioni.

Fedeli a questo divino disegno il Capo del Pastori, e con lui, e sotto la sua guida, i Vescovi, procurarono che ha Chiesa fiorisse sempre di quella unità che è uno del più chiari con­trassegni della sua divinità. E veno che nella Chiesa sorsero e sorgeranno sempre eresie ed errori, ma la storia ci insegna che a segnalane gli erranti e a condannarli, non si levarono uomini privi di autorità, ma i Vescovi, giudici e custodi del sacro deposito della fede, ed il Romano Pontefice, che alle loro sentenze viene, quando il bisogno apparisce, a porre il suggello della sua condanna e a dare il colpo definitivo all’er­rore[17].

 

«Nella Chiesa ogni missione estragerarchica fu esclusa»

 

Non dite poi, come quelli, cui fin dal suoi tempi rimprove­rava l’Apostolo: io sono di Paolo e io di Apollo e io di Cefa, mentre siamo tutti di Cristo.

Ricordatevi che nella Chiesa di G. C. ogni missione estra­gerarchica fu esclusa; che, fundamentum aliud nemo potest po­nere praeter id quod positum est, quod est Cristus Jesus; che nessuno può, nella scuola di Cristo, erigersi a maestro da quelli infuori, che vi furono posti dallo Spirito Santo.

Chi si ricusa di assoggettarsi a questo magistero a un teme­rario, chi gli si ribella a un apostata, chi alza la testa contro di esso è un superbo, un ignorante, un anticristo, il quale deve aversi in conto di etnico e di pubblicano.

Ma quello a un grand’uomo! quell’altro un gran teologo! quell’altro un gran filosofo! quell’altro un gran Santo! Che importa ciò? È un angelo del Cielo? Se anche a un angelo del Cielo, e alza la testa, e insegna e scrive oltre quello che inse­gna il Papa, che insegnano I Vescovi: anathema sit, grideremo coll’Apostolo, sia scomunicato.

Neppure vi sia tra voi chi si lasci incoraggiare dalla infau­sta illusione, che invade e allucina ai nostri dì alcune menti, pur non perverse né ingenerose, qual a il credere che possa essere veramente col Papa colui, il quale, staccandosi dal ne­cessario vincolo divinamente stabilito dall’ordine gerarchico, non fosse unito nella obbedienza, nell’ossequio e nella carità al proprio Vescovo e, con questi e per questi, unito al Papa; o, sotto colore di zelo e di esagerato sentimento di devozione al Papa, scemasse di fatto la obbedienza ed il rispetto dovuti al vescovo, giudicandolo egli, per suo privato arbitrio, fedele o no ai pontifici ordinamenti. Sarebbe questo senza dubbio un prevenire il giudizio della Sede Apostolica, un attentare alla divina costituzione della Chiesa, un metter piede nella via del più raffinato e pernicioso liberalismo[18].

 

«Si moltiplicano i Papi, i laici si sostituiscono ai Vescovi»

 

Le nostre cose vanno male, malissimo. Si vuol fare entrare la politica dappertutto, fin nei pellegrinaggi! So che al Con­gresso di Liegi avrebbero preso parte molti Vescovi italiani e moltissimi personaggi se non si fosse messo avanti la questio­ne del poter temporale. Czacki guasta tutto. Si moltiplicano i Papi ogni giorno, i laici a poco a poco si sostituiscono ai Ve­scovi e ogni giorno aumentano gli equivoci, le confusioni, i disordini (...).

Noi poveri Vescovi non si sa più come pensare, come parlare, come scrivere, come muoversi. Siamo ormai condotti a mano come i bambini degli asili d’infanzia, in balia del gior­nalismo, e di quale giornalismo! Povero Episcopato! (...)

Ora sto occupandomi, a tempo perduto, dell’Opuscolo, di cui già vi scrissi, e che potrebbe intitolarsi: La questione so­ciale e la missione del clero. Quanto poi a stamparlo... C’è troppa facilità, a quel che pare, di mandare all’Indice chi non ha pensa con la testa... degli altri[19].

 

«Avete redento l’Episcopato»

 

Padre Santo, a tutti ormai è manifesto il piano sublime della Vostra mente, il voto supremo del Vostro cuore. È il piano di quella divina Provvidenza, la quale attingit a fine usque ad finem fortiter, et disponit omnia suaviter; e il voto di Colui, del quale siete quaggiù il degno e visibile rappresen­tante, vale a dire: che tutti unum sint i figli della Chiesa cat­tolica, e unum sint nella sottomissione intera e assoluta di mente, di cuore e di opere a quella gerarchica autorità, che Gesù Cristo quaggiù stabiliva pel governo della stessa Chie­sa.

Ce ne fa più che altro solenne testimonianza la lettera da voi diretta nel prossimo passato giugno all’eminentissimo Cardinale Arcivescovo di Parigi. E Dio sicuramente che Ve l’ha ispirata, tanto a bella, sapiente e opportuna. Io l’ho lo­data commosso, e Vi confesso, Padre Santo, che mi sento impotente ad esprimervene, come vorrei, tutta ha mia ammirazione, tutta la mia riconoscenza.

Voi avete con essa fugate le nebbie sollevate dallo spirito d’abisso ad offuscare il cristiano orizzonte; avete atterrato quel liberalismo di genere affatto nuovo, che, dalle ultime fi­le dell’esercito cattolico, si andava ogni dì più propagando; avete, per dir così, redento l’Episcopato, liberandolo da un occulto potere illegittimo, che tentava con astutissime arti aggiogarlo al proprio carro (...).

Siate benedetto soprattutto per avere in modo così esplici­to fatto intendere a tutti, che invano la pretenderebbero a cattolici coloro, i quali non fossero uniti nell’obbedienza, nell’ossequio e nella carità ai propri Vescovi, e, con questi e per questi, uniti a Voi, che siete di tutti il Capo e il Maestro.

Siate benedetto di avere aperti gli occhi a tanti poveri illusi o ingannati, riprovando coloro, i quali non rifuggono da quella opposizione, che si fa sia ai vescovi, sia al Vescovo del vescovi, il Romano Pontefice, con modi indiretti, tanto più pericolosi quanto si procura di volerli meglio occultare con contrarie apparenze[20].

 

«Non conosciamo partiti»

 

Dio vede la purezza delle Nostre intenzioni, quel Dio che scruta i cuori e le reni, e innanzi al quale tutti a corto andare dovremo presentarci!

Egli sa che Noi non conosciamo partiti, che non teniamo per alcuno, per alcuna persona, per autore alcuno di essi; che amiamo tutti indistintamente; che non giudichiamo le inten­zioni di chicchessia; che non vogliamo e non cerchiamo che la gloria sua e il bene delle anime; che non siamo attaccati, per sua misericordia, che a Lui solo, ai suo Vicario in terra, alla santa sua Chiesa.

Sono grandi i dolori che soffriamo, vedendo la veste di Cristo divisa, e forse più grandi dolori Ci aspettano; sed nihil lonum vereon, diremo coll’Apostolo, nec facio animam meam pretiosiorem quam me, dummodo consummem cursum meum et ministenuum verbi quod accepi a Domino, testificani Evange­lum gratiae Dei.

Ci a fin d’ora vivo conforto il pensiero, che il trionfo della verità potrà tardare, ma non fallire, e che il frutto più prezio­so di questo trionfo sarà, non ne dubitiamo, la piena libertà dell’Episcopato e del suo Capo supremo, il Vescovo di Ro­ma, da cui esso, l’Episcopato, mutua tutta la sua forza, tutta la sua solidità, tutto il suo vigore.

Se non altro porteremo con Noi al sepolcro la soave cer­tezza di aver combattuto nel buon arringo, terminata la cor­sa, conservata la fede, e di avere a riceverne da Dio, giusto giudice, l’immarcescibile corona[21].

 

«Sia la carità la nostra divisa, l’arma del nostro combattimento»

 

E fuori della Chiesa tanto colui che disconosce la potestà sacra, quanto il temerario che tenta arrogarsene l’officio e i diritti.

A voi pertanto Ci rivolgiamo (...) guidandovi con quanto abbiamo di zelo: custodite, custodite lo spirito dell’ecclesia­stica disciplina!

È l’amore spontaneo, sincero, costante, assoluto, inviola­bile a questa disciplina, ha ragione delle nostre forze, il motivo delle nostre speranze, la delizia della nostra vita, la sor­gente di ogni nostro bene.

La disciplina nella Chiesa è cosa sacra; guai a chi osa pro­fanarla!

Fate voi scudo del vostri petti contro tutti gli assalì; fug­gite le discordie, che ne sono la rovina; guardatevene come dal più enorme delitto (...). Bando allo spirito di particolarità e di contesa, alle tendenze esclusive ed egoistiche.

Sia la carità la nostra divisa, l’arma del nostro combatti­mento[22].

 

«L’obbedienza mantiene la Gerarchia, come la Gerarchia produce l’unione, come l’unione fa la forza»

 

Se la forza del clero risiede nell’unione del suoi membri, e l’unione non si ha punto senza la gerarchia, che cosa a che

mantiene la gerarchia medesima? L’obbedienza, la sommis­sione del preti al Vescovi e del Vescovi al Sommo Pontefice:

Filii obedientiae sumus (I S. Petr. 1). Siamo i discepoli di Co­lui che, secondo l’espressione di S. Paolo, si fece obbediente fino ala monte.

Al nostri giorni, in cui l’orgoglio e il disprezzo dell’autorità si nascondono troppo spesso sotto le parole di libertà e di indipendenza, e a temere che questa malsana atmosfera non finisca per avvolgere lo stesso sacerdozio. Ma I preti vera­mente preti, cioè penetrati dal spirito del loro stato non si lasciano punto sedurre da queste false apparenze (...).

Sanno che le grazie dello stato si arrestano al limiti della funzione e che non vi sono né lumi né forza che per la parte di ministero loro assegnata. Essi sanno restare al loro posto, non si arrogano punto diritti che loro non spettano, non pre­tendono di giudicare l’insieme, mentre non conoscono che una parte sola delle dose, e, limitandosi al compito loro asse­gnato, lo adempiono con frutto.

Non sono vane promesse ch’essi fecero a pie dell’altare il giorno della loro ordinazione sacerdotale, queste promesse fedelmente le mantengono in tutto il corso della loro vita. Sono essi, sono i buoni preti che, per il loro spirito di som­missione, stabiliscono e rafforzano questo gran corpo della Chiesa, poiché l’obbedienza mantiene la Gerarchia, come la Gerarchia produce l’unione, come l’unione fa la forza[23].

 

 

«L’obbedienza solennemente promessa al Vescovo»

 

La persona verso la quale dobbiamo, dopo il sommo Pon­tefice, piena obbedienza, e quella del proprio Vescovo. Ben ricordiamo quel solenne momento, quando tenendo egli strette le nostre mani nelle sue, ci domande: Promittis mihi et successoribus meis reverentiam et obedientiam? - Promitto. Questa fu la nostra risposta, il nostro voto solenne fatto in presenza di tutta la Chiesa di Dio, questa e quella promessa che dobbiamo aver sempre presente e che tronca tutte le no­stre scuse al disobbedire (...).

Ah! se i Vescovi avessero dei sacerdoti obbedienti e dei soldati simili a quello del Centurione, da poter dire a questo: vade, et vadit, e a quello: veni, et venit, quanto non potrebbe­ro far essi per la santificazione della loro diocesi? Ma trovan­do gli Ordinari delle Diocesi dappertutto resistenze, contraddizioni, ripugnanze, se non anche aperte negative e di­sobbedienze, essi sono per lo più costretti, per non compro­mettere la loro autorità e cimentare l’altrui debolezza, a non fare che pochissimo uso della loro potestà di comandare, che pur hanno pienissima, ed esortando e consigliando e condi­scendendo all’infermità dei loro ministri, far quel che posso­no, che a infinitamente meno di quel che potrebbero[24].

 

«Nostro Signore sotto l’immagine del legittimo superiore»

 

Non a punto la servitù, ma un nobile dovere che ci prescri­ve l’Apostolo allorché dice: Obedite praepositis vestiis etc. Vi sono tre misteri, dicono gli ascetici, che la natura respinge con tutte le forze del suo orgoglio: il primo a quello di No­stro Signore sotto i veli dell’Eucaristia, il secondo quello di Nostro Signore sotto le sembianze del povero, il terzo quello di Nostro Signore sotto l’immagine del legittimo Superiore. E alla stessa maniera che l’indegnità del prete non altera punto la realtà del primo mistero, né l’indegnità del povero quella del secondo, l’indegnità del Superiore (dato che non sia una immaginazione appassionata degli inferiori) non sceme­rebbe per nulla ha realtà del terzo. Vi è dunque una specie di presenza reale infusa in quelli che ci comandano, e non a soltanto ha docilità esteriore che loro dobbiamo, ma di coscien­za: propter conscientiam (...).

Senza dubbio vi sono pene inerenti all’obbedienza, ma ve ne sono ben altre inerenti all’autorità. Ogni autorità a un martirio, ogni Superiore non a altro che una vittima incoro­nata. Superioni e inferiori piangiamo dunque a vicenda e fac­ciamo della nostra diocesi una scuola di rispetto e di simpatie reciproche. Sopratutto bandiamo dalle relazioni che Dio ha stabilito fra noi quello scetticismo inarticolato, cioè quel muto disprezzo chiuso nel cuore, che a la sapienza delle anime piccine e del grandi superbi[25].

 

 

d) «NON POSSO TACERE»

 

«Tre cose tengono il Vescovo in trepidazione»

 

Nel suo officio di sovraintendente, sempre difficile e spes­so pericoloso, il Vescovo, tre cose ha sempre innanzi allo sguardo che lo tengono in trepidazione continua: i pericoli delle anime, il delitto del silenzio e il giudizio di Dio. Egli perciò adempie tutti i doveri del buon Pastore, guidando le sue pecorelle al pascoli salutari e alle limpide fonti, e moven­do impavido e risoluto contro ai lupi che in veste di agnello s’introducono nell’ovile. Egli parla, scrive, opera; ma parlan­do, scrivendo, operando non ha di mira che la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Non ambagi, non equivoci, non si­mulazioni, non secondi fini.

Sul suo labbro la parola e raggio di superna luce, a seme di cristiane virtù. La sua buona fede potrà essere talvolta ingan­nata, ma egli non inganna nessuno, anzi e per trarre altri d’inganno che si espone sovente a contraddizioni e dolori ap­pena credibili. Non i propri comodi, non il proprio interesse, non le meschine soddisfazioni proprie od altrui, ma la verità, solamente la verità a la sua regola, e tutto egli sacrifica, piut­tosto che tradirla[26].

 

«Non sarà mai che tacciamo noi Pastori»

 

Lo so che in nome di questa falsa libertà si vorrebbe dal moderni increduli inceppare quella libertà santa, che noi cat­tolici, noi Vescovi teniamo da Dio. Ma tacessero le leggi, non sarà mai che taceremo noi Pastori, non sarà mai, col di­vino aiuto, che taccia io, che io cessi dal levare la mia voce, la voce del dovere e dell’autorità per sfolgorare il male ovunque si annidi, per denunziane i pericoli e le insidie onde si attenta dal tristi alla vita spirituale dei figli miei: propter Sion non ta­cebo.

Non tacere, e a tutti andrò ripetendo col Vangelo: guarda­tevi dai falsi profeti che vengono a voi sotto le spoglie di agnelli e al dì dentro sono lupi rapaci. Non tacerò e dire un’altra volta: è intollerabile che stranieri maestri di false dottrine vengano in casa nostra a turbare la pace delle nostre famiglie, ad insultare la nostra religione, la religione dei nostri antenati, la religione che s’intreccia colla nostra storia, colle nostre arti, coi nostri costumi, col nostro palpito, col nostro respiro[27].

 

«Chiamato a far parte della sollecitudine di tutte le chiese»

 

Non sarà dunque più lecito ad un Vescovo parlare o scrivere conforme la coscienza, il diritto e, più che il diritto, il dovere gli dettano, senza che uomini più volte ammoniti tentino imporglisi?

Il Vescovo, custode della scienza divina, come lo chiamano le Costituzioni Apostoliche, mediatore tra Dio e gli uomini, princeps et dux, rex et dynastes, post Deum terrenus Deus, tamquam Dei dignitàte condecoratus, non potrà più esercitare il proprio ministero, senza temere di veder trascinata nel fango la propria dignità da tali che si protestano continuamente di rispettarla?

Il Vescovo, posto dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio, e chiamato a parte della sollecitudine pastorale di tutte le chiese, non potrà più esporre candidamente al comun Padre il suo avviso intorno ai pericoli che corrono le anime, senza che abbia a sentirsi gridare pietra di ruina e di scandalo?

Che? Non potrà più un Vescovo dichiarare apertamente che ama la sua patria, che la desidera grande, gloriosa, felice nella riconciliazione colla Sede Apostolica, senza venir messo in sospetto di patteggiare coi nemici? Non sarà permesso {22}ad un Vescovo di pregar Dio che la gloria di compiere quest’opera di tutte più ardua e più necessaria, la pacificazione della patria nostra, si degni concederla al suo Vicario in terra, senza che altri gli muova rimprovero di voler dare consigli al Maestro universale, e di volergli forzare la mano?

Dunque a tanto si arriva di temerità da biasimare atti che lo stesso Sommo Pontefice dichiara di aver graditi? a tanto si giunge di audacia da biasimare, sebbene velatamente, ciò che Egli asserisce pienamente conforme a’ suoi voti? Gran Dio! ove siamo? e dove andiamo noi con siffatto sistema? Guai, grideremo con un Santo Padre, guai alla Chiesa, quando l’Episcopato è costretto al silenzio![28]

 

«Tuoni la parola Episcopale, come la viene il Signore ispirando»

 

Non vi è Vescovo al mondo, che non voglia quanto vuole il supremo Gerarca, e non condanni quanto Egli condanna; non vi ha Vescovo, che non deplori amaramente la condizione intollerabile fatta al Capo augusto di trecento milioni di Cattolici, e a Lui non si unisca nel rinnovare contro gli antichi e i moderni attentati le più formali proteste; non vi ha Vescovo, che non proclami con Lui: essere impossibile che le pubbliche cose d’Italia abbiano a prosperare, finché non sia provveduto, come ogni ragione domanda, alla dignità della Sede Romana, alla libertà e indipendenza del Romano Pontefice.

Tuoni adunque, senza ritegno o paura, la parola episcopale; tuoni, come la viene il Signo{24}re ispirando; e sappiano gli orgogliosi censori della medesima, che «il considerare la Chiesa come una massa inorganica, che debba ricevere l’impulso da una mano onnipotente, senza che alcuno possa né illuminarla, né sottometterle umili e devote riflessioni, è il più gran danno che si possa arrecarle»[29].

 

«I Vescovi hanno il diritto e il dovere di illuminare anche i Superiori»

 

Ricevo in questo punto la ven. sua dell’altro ieri, e pre­messi i miei ringraziamenti pel modo contese con il quale si degne scrivermi, mi permetto dirle poche cose di tutta fret­ta, ma a cuore aperto e con tutta libertà.

È prima protesto energicamente contro il supposto appog­gio da me dato al malumore contro il modo onde si è proceduto alla nomina del nuovo superiore di Rho. Sono uomo gerarchi­co, Eminenza; ho lottato, quasi solo, in ogni occasione per difendere il gran principio d’autorità, sul quale si posa tutto l’avvenire della Chiesa, né mi sarei mai smentito (...).

I buoni Padri, non avendo potuto vedere l’Arcivescovo, avendo dal Vicario Generale parole vaghe e inconcludenti (lo stile a l’uomo e viceversa), si rivolsero a me per consiglio. Po­tete scrivere, risposi, e anche andare: Roma può essere sorpresa in un fatto particolare, ma a sempre giusta.

Ieri si presentarono a me due di quei Padri, e mi chiesero lettere per gli E.mi Verga e Galimberti e per Mgr. Della Chiesa. Scrissi le tre lettere, le consegnai e partirono. Ho compito un’opera di carità e sono pronto a ripeterla oggi e sempre: a nostro Signore che ce ne impone il dovere. Ho for­se offeso qualcuno? I vescovi non devono consigliare, conso­lare quelli che a loro si indirizzano sieno pure estranei alla loro Diocesi? Non sono essi posti dal Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio? Non hanno perciò, più che il diritto, il do­vere di illuminare, se necessario, anche i superiori?

Io ho troppa stima del S. Padre e di coloro che lo coadiu­vano nel governo del mondo, per credere che possa loro di­spiacere che un Vescovo francamente, lealmente, senza se­condi fini, dica ha verità, allo scopo nobilissimo di evitare ri­soluzioni, che possono avere conseguenze fatali e disastrose. Dove affluiscono gli affari del mondo l’esame dei fatti parti­colari a assai difficile, e Dio ha provveduto al bene della sua Chiesa coll’istituzione divina dell’Episcopato[30].

 

«I Vescovi non possono, non debbono tacere»

 

Non vi rechi meraviglia, Santo Padre, che lo parli di rivo­luzione e di anti rivoluzionarie portate nella Chiesa di Dio. Ho un volume di prove che intendo pubblicare allo scopo, nel profondo convincimento di difendere e sostenere non la causa personale, ma quella dell’episcopato terrorizzato, della Chiesa manomessa, della Religione tradita.

Se questa venisse combattuta solo dagli scredenti ben po­co vi sarebbe a temere, ma quando cattolici e preti, lo dico con immenso dolore, solevano nella Chiesa lo stendardo del­la rivoluzione e sotto belle apparenze pervertono il senso cri­stiano del giovane clero e del popolo, i Vescovi non possono, non debbono tacere; né tacere io. Sono anni, Padre Santo, che gemo sopra questi mali e che li piango amaramente in­nanzi a Dio. Dissimularli ora più a lungo è impossibile.

Non crediate, Beatissimo Padre, che io inconsideratamen­te parli o che sia mosso in questo da mire private, o da altro, no. Mi è testimonio Iddio cui servo e innanzi al quale com­pariremo tutti fra breve che io non conosco partiti e che non tengo per alcuno di essi. Non sono attaccato per sua grazia che a Lui solo, a voi che ne siete il Vicario ed alla Santa sua Chiesa.

Gli è appunto per ciò che ne sento al vivo i dolori, e che dopo aver lungamente riflettuto e pregato, ho deciso di af­frontare il tracotante partito che tenta oggi di imporsi e che a fonte di tante spirituali rovine. Dovrò soffrire assai, lo pre­veggo, ma se non altro mi conforterà il pensiero di aver fatto quanto era in me per scongiurare mali peggiori.

Un Vostro grande antecessore, Padre Santo, era solito, voi sapete, rivolgersi a Dio ogni giorno, scongiurandolo che ispirasse qualche Vescovo a dirgli apertamente la verità e tale sicuramente è il voto del Vostro cuore nobilissimo, per cui non dubito mi perdonerete se la verità desidero palesarvi tutta intiera, benché amara.

L’opera demolitrice e rivoluzionaria del nuovo liberalismo, Padre Santo, non cesserà se non si farà qualcosa di pubblico e manifesto a sostegno dell’Autorità Episcopale.

Io spero che voi mi comprenderete e mi esaudirete. Che se Dio mi privasse anche di questa consolazione, non per questo mi verrà meno la profonda venerazione e l’affetto filiale ala Vostra sacra Persona e alla S. Sede. Avrei sempre la consolazione di non aver mal taciuta la verità a nessuno, di aver combattuto il buon combattimento e serbata la fede, colla speranza della corona che un giorno mi concederà Egli giusto giudice.

Non chiuderò la presente, Beatissimo Padre, senza prima dichiararvi che io sono e sarò sempre pronto non solo ai Vo­stri comandi ma anche ai Vostri desideri, per cui se credete ch’io debba tacere, in ossequio a voi rientrerò calmo e tran­quillo in profondo silenzio rimettendo il tutto nelle mani di Dio e di voi che ne sostenete le veci[31].

 

e) CHIESA UNIVERSALE E CHIESA PARTICOLARE

 

«Il Papa è centro e creatore degli altri centri»

 

Il Papa attira ed irraggia, aduna e diffonde, è dentro del mondo cristiano in tutta l’ampiezza sua, e ad un tempo crea­tore degli altri centri.

Benché immeritevole, io son vostro Vescovo. Chi mi ha data l’autorità di governare le anime vostre? Chi mi ha inve­stito nel foro interno ed esterno di quel potere legislativo, giudiziale, esecutivo, in cui consiste nei termini della Diocesi piacentina la spirituale sovranità del mio episcopale ministe­ro? Chi ha messo nelle mie mani a vostro vantaggio le chiavi del regno dei Cieli? Gesù Cristo certamente, giacché nell’or­dine soprannaturale tutto viene da lui, ma Gesù Cristo me­diante il Papa.

Le chiavi del regno celeste, disse egli a Pietro, io le darò a chi? A te: Tibi dabo (...). Quelle chiavi dovranno passare, è vero, in altre mani, ma sempre per le mani tue; quella potestà (in limiti più o meno estesi) dovrà essere ad altri conferita, ma da te e a tuo beneplacito. Pertanto a quella maniera, dice San Cipriano, che deriva dal capo il vigore delle umane membra, dalle radici la vita del rami, dalla fonte l’acqua dei ruscelli, e la luce dal raggi del sole, così tutti i gerarchici poteri scaturiscono, come da visibile sorgente, dalla Sede di Pietro. E se non fosse così, con qual diritto mi chiamerei i vostro Vescovo?[32]

 

«L’episcopato intero si concentra nel Vescovo dei Vescovi»

 

Cara è la lode che ci viene da persone amate, ma ancor più cara quella che mi viene da voi, perché indirizzata a mira ben più alla che non sia la povera mia persona. La lode che si dà ad un Vescovo sia pur meritevole (e nel caso presente non lo è punto) è nella sostanza lode all’episcopato, il quale col suo carattere divino, con la grazia del suo ufficio, con la sua cele­ste dignità, con la sua autorità di giurisdizione, riflesso dell’autorità stessa di Gesù Cristo, è sempre la limpida e viva sorgente di tutto il bene che il Vescovo viene operando.

E poiché l’episcopato intero si concentra e si unifica nel Vescovo del Vescovi, che è il Papa, ed è anzi come il corpo di un’unica persona morale, la quale ha per capo visibile il Ro­mano Pontefice, ne segue che l’encomio di un Vescovo, non solo sia encomio dell’episcopato, ma riesca altresì, in modo particolarissimo, encomio di quella suprema potestà papale in cui l’episcopato vive e vigoreggia[33].

 

«La gloria più pura della diocesi piacentina»

 

Sono 25 anni che sedete su cotesta infallibile Cattedra, e sono 25 anni che la illustrate con la parola, coll’esempio, con lo splendore di una sapienza rara e con l’esercizio delle virtù più sublimi; 25 anni di assidue cure e di lotte magnanime, pieni di opere sante, gloriose, immortali (...). dal profondo del cuore Vi ringraziamo per il bene che ci fate, poiché la Vo­stra parola che lo Spirito di Dio ispira e accompagna, ci rende forti della stessa vostra fortezza, valorosi del vostro valore, fermi, intrepidi al pari di Voi.

La unione sincera e affettuosa con la Sede di Pietro formò in ogni tempo la gloria più pura, più ambita, più cara della diocesi piacentina, che oggi per bocca mia rinnova le prote­ste di fedeltà e di ossequio all’augusta Vostra Persona, e di­chiara altamente di voler continuare le tradizioni avite, ben sapendo che nell’unione col Pontificato romano e nella piena e perfetta conformità ai Vostri insegnamenti e desideri è risposta la salvezza altresì della patria nostra[34].

 

«Vescovo: capo d’una Chiesa che vive della propria sua vita nella grande unità della Chiesa universale»

 

Esser Vescovo è appartenere a tutti e non più a se stesso; è, nel più eccelso grado e colla più sublime autorità del sacer­dozio, essere il padre d’una famiglia, il capo d’una chiesa, che vive della propria sua vita nella grande unità della Chiesa universale (...).

Manca ai suoi doveri più sacri quell’ecclesiastico il quale punto non pratica le auree parole del Martire S. Ignazio: Sia­te soggetti al Vescovo come a Gesù Cristo. Obbedite al Vesco­vo, come Gesù obbedì al Padre (...).

Sono queste regole eminentemente apostoliche che spicca­vano nella condotta del nostro pio Prelato, il quale non rifi­niva di deplorarne lo scadimento e i grandi mali che perciò sarebbero derivati alla Chiesa. Era solito ripetere (...) che ciò che affretterà il trionfo della Chiesa e ne formerà come una grande armata schierata a battaglia, sarà senza dubbio un in­crollabile attaccamento al centro della cattolica unità, il rispetto, l’amore, l’obbedienza in tutte le cose al Romano Pon­tefice, ma non disgiunto dal rispetto, dall’amore, dall’obbe­dienza all’autorità episcopale, su cui, al dire di un Padre, si fonda e si riposa la salvezza della Chiesa[35].

 

«Noi Vescovi siamo fratelli tra noi»

 

Raccolti per la prima volta a conferire delle cose che spettano al governo delle anime vostre, uniti in ispirito di obbedienza e di devozione verso il Padre comune dei fedeli, l’incontrarci e il sentirai veramente fratelli fu un punto solo (...).

Sappiate, carissimi figliuoli, che le nostre parole non sono nostre, sono l’eco fedele del magistero divino da Gesù Cristo confidato a Pietro, e che da questo per i Vescovi discende fino a voi. Noi siamo e godiamo di poterci chiamare e sentire fratelli concordi e amorevoli fra noi, perché con tutto l’ardore dell’anima e con profonda devozione tendiamo l’orecchio agl’infallibili documenti dell’unico nostro maestro, alla cui voce ci sentiamo beati di prestare, per grazia di Dio, docile ed amorosa attenzione: «voi siete tutti fratelli, l’unico vostro maestro è Gesù Cristo»[36].

 

«Impossibilità di reggere le Diocesi»

 

Vi confesso ingenuamente che lo stato miserando delle no­stre diocesi, causa i mestatori e le scandalose polemiche, forma il più grave dolore della mia vita e mi affligge talmente da farmi perdere anche la sanità.

Quando mi recai a Roma parlai chiaramente, forse con so­verchia franchezza, delle cose deplorevoli che accadono tra noi, dell’impossibilità di reggere le Diocesi, se non veniva frenato quel partito audace, che avendo i suoi capi a Milano, si diramava in tutte le città, che si rendeva intangibile, anche di fronte ai Vescovi, coll’esagerare il suo attaccamento al Pa­pa ecc. Che debbo dirvi? Mi pare che al S. Padre le mie paro­le recassero qualche sorpresa; ho qualche motivo di credere che il partito siasi accorto, inde irae.

Mi si parlò giorni sono di insinuazioni maligne fatte dall’Osservatore a voi e a me ed a qualche altro collega. Da due anni non leggo più quel foglio e non mi curo dei suoi giudizi. Perciò appena giunto a Piacenza scriverò in proposito al Papa e scriverò con forza e non di me solo; ormai, caro ami­co, siamo uniti come segno alle frecce di questi poveri ciechi e dobbiamo opporci ai loro insani tentativi, conservando la calma, la purità delle intenzioni, cercando solo la gloria di Dio, della Chiesa, la salute delle anime.

Da parte mia sono disposto non solo a scrivere, ma anche ad intraprendere il viaggio di Roma per far conoscere al S. Padre il vero stato delle cose[37].

I partiti che prendono ora un pretesto ed ora un altro per sopraffare a poco a poco l’Episcopato e prendere a loro modo l’indirizzo dell’opinione pubblica cattolica, si vanno facendo ogni di più audaci, sino a rendere i Vescovi impotenti talvol­ta nell’esercizio del loro sacro Ministero (...).

Io che ho logorato la salute e speso ormai tutto il mio a be­ne della Religione, che rifiutai onorificenze e assai grandi con annesso diritto di larga pensione per protestare contro i violati diritti della Chiesa, io che tengo come comandi asso­luti anche le meno marcate tendenze della S. Sede, che fui, e non a parole soltanto, e sono pronto a versare il mio sangue per la Chiesa e per il suo Capo augusto, io venir in sospetto di tradimento? Mio Dio, sorreggetemi nell’ardua prova giacché se la cosa si verificasse io ne morrei di crepacuore![38].

Ho scritto a qualcheduno influente di laggiù e ultimamen­te al Papa. Vi mando copia perché mi abbiate a dire se lo scritto con abbastanza di politica e se in caso debba insistere in argomento. Se i Vescovi non fossero muti qualche vantag­gi, a furia di parlare, si avrebbe. A proposito come la pensa Mr. Guindani? Se vede le cose come noi, non potrebbe scri­vere anch’egli, come lo fatto io? Infine è un dovere del ministero nostro il far conoscere al Papa il vero stato delle cose, allo scopo di salvare ciò che si può[39].

La confusione delle lingue è davvero spaventosa; se le dose procedono così, le Diocesi diventeranno ingovernabili. In­tanto mi par estremamente necessario, specialmente per noi Vescovi, un grandissimo riserbo, circondati come siamo e spiati da certi farisei, che cercano avidamente ogni pretesto per giudicarci e metterci in apparente contraddizione colla S. Sede, il che torna di gravissima ingiuria all’episcopato e di enorme scandalo al fedeli. In si triste condizione di cose io prego ogni giorno Iddio che conceda a me e a tutti i miei con­fratelli calma, pazienza, tranquillità, fiducia nel suo divino alito, senza di cui c’è da perdere la testa[40].

 

«Et nos homines sensum habemus»

 

Partecipo con tutta l’anima ai vostri dolori e alle vostre pene; ma è necessario essere forti e portare con gran dignità il peso della presente tribolazione. Sono sicuro che in un giorno non molto lontano vi sarà resa giustizia. Quando si cono­sceranno le censure dell’Inquisizione si dirà: partuniunt mon­tes ccc. della favola, e la vostra difesa verrà fatta, vedrete. In omnibus, scriveva un Padre della Chiesa, parmi S. Ambro­gio, cupio sequi Ecclesiam Romanam; sed tamen et nos homi­nes sensum habemus: parmi volesse dire: perché sono Vesco­vo devo lasciarmi imporre come si impone ad un giumento?

Guardatevi dalle sorprese: l’obiettivo dei vostri avversa­ri ve lo dissi altra volta, è di farvi rinunziare alla Diocesi[41].

 

«L’episcopato deve rialzarsi da sé»

 

L’Episcopato deve rialzarsi da sé e trovare nella propria divina autorità la forza di imporre ai nemici e di riscuotere il rispetto che gli è dovuto. Ve lo espressi altre volte questo pensiero e credo di non errare. Sperare un aiuto efficace da laggiù, è un illudersi. Tuttavia io tenterò tutte le strade e vi assicuro che parlerò con una forza e con sì profondo convin­cimento da far piegare anche qualunque volontà; purché non si operi, come temo, a partito preso in forza della politica tutta umana, che da qualche tempo domina nelle attinenze esteriori della Chiesa[42]

 

«Saprò difendere la mia autorità»

 

Noi siamo troppo espansivi e sinceri, è verissimo, ma non lo credo un male; vi è anche un tempo di parlare e parmi giunto, s’intende quando e dove si può e si crede conveniente; giacché il silenzio dell’episcopato intero ha contribuito potentemente ad aumentare l’audacia dei nuovi liberali e Dio voglia che si possano in qualche modo frenare, del che ne dubito assai. Mi varrò dei vostri fraterni consigli, starò at­tento, ma non al punto di mostrare timore di chicchessia: non ci ameranno mai, persuadetevi, almeno ci temeranno.

Mi sento perfettamente tranquillo; se laggiù diranno cose che non stanno, risponderò di buon inchiostro. Non devo nulla a nessuno e saprò difendere la mia autorità e il mio posto colla maggior energia. Prima di incominciare la lotta ho riflettuto, ho pesate tutte le difficoltà e mi sono convinto di poter resistere a tutte le forze dei nostri avversari.

Prudenza, riguardi, ma soprattutto coraggio e fermezza. Ho scritto al Papa nel senso che vi dissi, con riverenza, ma con forza[43].


 

 

4. Il SACERDOTE

 

Cristo «si continua» e opera nel sacerdote, chiamato a proclamare la verità, a comunicare la grazia, a servire quelli che ricevono l’eredità della salvezza. L’unica sua ambizione è dedicarsi totalmente all’avvento del regno, la sua ragione d’esistere è la salvezza degli uomini, mèta della sua vocazione è la santità, sua e degli altri.

La santità è olocausto. Si acquista col desiderio generoso, con la rettitudine di cuore, con l’assidua meditazione della legge divina, con l’esatto adempimento dei propri doveri.

Il ministero sacerdotale è fruttuoso solo per la grazia di Dio, che si ottiene con la preghiera, con l’adorazione di Cristo nell’Eucaristia, con l’esemplarità della vita.

La santità deve essere completata dalla scienza, custode della fede e della morale.

La paternità sacerdotale suscita eredi del sacerdozio: chi contribuisce a dare alla Chiesa un sacerdote è benefattore dell’umanità

 

a) IL MINISTERO SACERDOTALE

 

«Partecipi delle mie pastorali fatiche»

 

Con ardentissimo paterno affetto voi tutti abbraccio, Rettori di anime, consapevole qual sono della prestanza e necessità del vostro ministero, poiché io stesso per alcuni anni ne adempii gli officii in questa vasta parrocchia di S. Bartolomeo in Como, la cui docilità, religione, pietà, frequenza alla parola di Dio e ai Sacramenti e prove luminosissime di amore filiale verso di me, non cesserò mai dal commendare.

Partecipi voi delle mie pastorali fatiche e dispensatori dei misteri di Dio, industriatevi per essere annoverati tra i dispensatori fedeli, memori di quella gravissima e insieme terribile sentenza: A giudizio rigorosissimo verranno sottoposti coloro che presiedono (Sap. V).

Qualunque sacro ministero esercitate, sia che offriate l’augusto sacrificio della Messa, sia che amministriate i santi Sacramenti, o vi occupiate delle divine officiature, puri il cuore e la mente, penetrati di senso religioso e di affettuosa pietà, usate del ministero come di virtù comunicata da Dio, affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo (I Petr. IV).

Siate angeli di pace, fratelli desideratissimi, intrepidi operai; confortate colla vostra premura e diligenza i poveri, i pupilli, gli orfani, le vedove, gli infermi, i moribondi, sì ché la carità e la paterna sollecitudine dei pastori splenda di luce sempre più viva.

Assumendo viscere di carità tenerissima verso i sordomuti, i ciechi, e gli altri più infelici, procurate che siano anch’essi istruiti; apprendete diligentemente ai fanciulli ed alle fanciulle i principii della fede e l’obbedienza verso Dio ed i genitori; pronti e volonterosi di animo soccorrete a tutti colle opere di carità, legando per tal modo gli animi dei fedeli di strettissima devozione a voi ed alla Religione[44].

 

 

«Dio, il sacerdote e l’uomo»

 

Certamente Gesù Cristo avrebbe potuto, per la sua virtù divina, salvare gli uomini senza servirsi dell’opera di altri uomini, ma nella sua infinita sapienza non lo volle; e creava così, anche nell’ordine della grazia, come aveva fatto nell’ordine della natura, le cause intermedie e seconde. Tra sé e gli uomini egli mise i suoi Sacerdoti, nei quali ha degnato continuarsi, e nella sua preghiera al Padre egli non riconosce altri discepoli da quelli in fuori che avrebbero creduto per mezzo di loro. Il Vangelo infatti parla sempre di tre: Dio, il Sacerdote e l’uomo. Chi esclude il Sacerdote, toglie l’anello di congiunzione e rompe la catena, abbatte il ponte di passaggio e scava un abisso[45].

 

 

«Il prete è Gesù Cristo operante nell’uomo»

 

Qual uomo è questo che tiene in pugno la vita e la sorte delle anime, e, in qualche modo, la vita e la sorte di un Dio? Ancora una volta ammirate la dignità e potenza del prete cattolico!

Non solamente Gesù Cristo vive in lui in una vita reale, ma esercita continuamente per mezzo di lui tutte le funzioni divine che fanno la santificazione delle anime e la salute del mondo.

Il prete cattolico non è dunque soltanto Gesù Cristo vivente nell’uomo, ciò che è il privilegio di tutti i cristiani: egli è Gesù Cristo operante nell’uomo e che compie coll’uomo l’opera divina della riparazione; egli è Gesù Cristo che parla, Gesù Cristo che sacrifica, Gesù Cristo che perdona, Gesù Cristo che salva; e dappertutto, sul pergamo, all’altare, nel tribunale di penitenza, rivestito della medesima dignità di Lui, perché investito della medesima autorità! Sacerdos alter Christus [46].

 

 

«È l’uomo di Dio nella comunicazione della verità»

 

Quando noi parliamo è come se parlasse Dio, perché egli parla non solo pel suo Figlio, ma per noi, continuatori dell’opera sua.

Il prete pertanto è veramente l’uomo di Dio nella comunicazione della verità. Egli, fu detto benissimo, la dà a tutti, grandi e piccoli, come Dio dà la luce del sole al cedro e al filo d’erba. Egli si innalza senza ingrandirsi, si abbassa senza impicciolirsi. Tanto le menti elevate, bramose delle alte e profonde speculazioni, quanto il popolo ed i fanciulli, la cui intelligenza ha bisogno di semplicità e chiarezza, vi trovano risposta a tutte le interrogazioni che la natura nostra istintivamente fa a sé stessa, preoccupata della propria origine, del proprio stato, dei propri doveri e destini, e, ciò che più importa, l’incrollabile certezza e la perfetta sicurezza nella loro fede[47].

 

 

«Dà agli uomini in nome di Dio la grazia»

 

Oltre la verità vi è un’altra cosa sacra, che il prete dà agli uomini in nome di Dio: la grazia, dono affatto gratuito, che solleva il cuore, che crea ed alimenta in noi la vita sopranaturale, che ci fa amici di Dio, fratelli di Gesù Cristo, ed eredi del suo regno. Noi, senza di essa, nulla, nulla possiamo fare che abbia merito di vita eterna.

Ma come il sacerdote può comunicare ai fedeli la grazia? La comunica per mezzo di quei misteriosi canali che sono i Sacramenti.

Bisognava che la trasmissione di questo fluido celeste venisse fatta secondo il piano reclamato dalla natura umana, la quale, essendo un composto di spirito e di materia, esige che anche le cose puramente spirituali le siano applicate con alcun che di materiale, che colpisca i sensi, e pei sensi l’anima sia avvertita ed impressionata dell’operazione spirituale che succede in lei; e quest’è appunto che avviene pei Sacramenti[48].

 

«Facciamo le veci del Salvatore»

 

Noi, Venerabili Fratelli, siamo chiamati e siamo ministri di Cristo, da Lui mandati come Egli stesso fu mandato dal Padre, scelti dallo Spirito Santo per il lavoro al quale ciascuno di noi fu assunto, uomini di Dio mandati in servizio di quelli che ricevono l’eredità della salvezza, Sacerdoti del Dio Altissimo, dispensatori dei misteri e della multiforme grazia di Dio, sale della terra, luce del mondo, posti sopra il cande­labro per far luce a tutti quelli che sono in casa; ci sono stati imposti pesi che sarebbero formidabili anche per le spalle degli angeli, e perciò abbiamo sommo bisogno di pietà, di zelo delle anime, di studio, affinché non venga disprezzato il nostro ministero (...).

Compiamo tutte le nostre azioni, pieni di fede e di Spirito Santo, espletiamo nel migliore dei modi il nostro ministero, glorificando e lodando Dio, presentandoci in tutto come ministri di Dio, nella grande pazienza, nelle fatiche, nella dolcezza, nella scienza, nella carità non finta, nella castità, nella pietà, che è utile a tutto, avendo le promesse della vita presente insieme e della futura, per la quale dobbiamo lavorare con tutte le forze per lo zelo delle anime, per il perfezionamento dei santi attraverso il ministero, per l’edificazione del corpo di Cristo.

Facciamo le veci del Salvatore Gesù Cristo, e perciò, solleciti della salvezza delle anime, obbedendo ai suoi comandamenti e seguendo i suoi esempi, accogliamo benignamente e aiutiamo tutti i fedeli, opponiamoci fermamente ai vizi e all’ipocrisia dei farisei, senza rispetto umano, e riprendiamo e supplichiamo, con ogni pazienza e dottrina, opportunamente e importunamente, gli ostinati, gli incalliti, i più ignoranti nella catechesi. Evitiamo qualsiasi cupidigia, e perfino il sospetto della vanagloria o del vile interesse, facendoci tutto a tutti per cercare di guadagnare tutti a Cristo[49].

 

 

«L’unica ambizione del prete»

 

Lavorare, affaticarsi, sacrificarsi in tutti i modi per dilatare quaggiù il regno di Dio e salvare le anime; mettersi, dirò così, in ginocchio davanti al mondo per implorare come una grazia il permesso di fargli del bene, ecco l’unica ambizione del prete. Quanto egli ha di potere, di autorità, di industria, di ingegno, di forza, tutto lo adopera a questo fine.

Pericola l’innocenza? Ne assume la custodia. Sorge una sciagura? vola ad alleviarla. Scoppia un litigio? egli è l’araldo di pace. E qui si fa guida ai traviati, sostegno ai vacillanti, scudo agli oppressi; là occhio ai ciechi, lingua ai muti, padre agli orfanelli, madre ai fanciulli, compagno ai carcerati. Si dà tutto a tutti per guadagnar tutti a  Gesù Cristo.

Dal tugurio del povero corre al palazzo del ricco, dall’altare al capezzale dei moribondi, dal monte alla valle, in cerca delle pecorelle smarrite, e allora soltanto si dà  pace quando gli venga di stringersi l’una al seno, e caricarsi l’altra sulle spalle, e a questa fasciar le piaghe, e quella sfamare col cibo negato alla sua bocca, non mai tanto lieto come quando prima di coricarsi può ricordare a sé stesso una lagrima detersa, una famiglia consolata, una innocenza protetta, il nome di Dio glorificato[50].

 

 

«La salvezza delle anime è la nostra sola ragione di esistere»

 

Lavorate fortemente, alacremente, indefessamente per guadagnare anime a Dio e salvarle: in hoc positi sumus; siamo preti appunto per questo.

La salute delle anime è la nostra vita, la nostra sola ragione di esistere e tutta la nostra esistenza dev’essere una continua ricerca delle anime. Noi non dobbiamo mangiare, bere, dormire, studiare, parlare, nemmeno ricrearci che per far del bene alle anime, senza stancarci mai e poi mai. Come il cristianesimo obbliga il cristiano in tutte le ore della vita a condursi da cristiano, così il sacerdozio obbliga il sacerdote ad agire da sacerdote in tutte le ore. Ciò che il cristiano deve fare per la salute dell’anima sua, il prete, e molto più il parroco, deve farlo per la salute dell’anima altrui, e così si salva[51].

 

 

«Hanno ricevuto l’ordine di curare, non di sanare»

 

Vi è una tentazione molto sottile, che talvolta si insinua nelle anime di coloro che comandano agli altri. Vedono che spesso alle loro fatiche non corrisponde un frutto immediato e abbondante. La situazione e disperata, dicono, non c’è rimedio; e si avviliscono, lasciano cascar le braccia nel ministero.

Perché meravigliarci se si verifica negli altri quanto 1’Apostolo sperimentò in sé stesso? «Misericordiam consecutus sum, ut in me primo ostenderet Christus Jesus omnem patientiam ad informationem eorum qui credituri sunt illi in vitam aeternam» (1 Tim. 1, 16). Perciò questi pastori si presentino come ministri di Cristo in tutta pazienza, ricordando le parole del Signore: «Alius est qui seminat, alius est qui metit. Ego misi vos metere quod non seminastis. Alii laboraverunt et vos in laborem introistis» (Jo. 4, 37-38). Seminino la parola, lasciando ad altri la mietitura. Ricordino che, con l’ordinazione sacerdotale, hanno ricevuto l’ordine di curare, non di sanare. Siano però ardenti nella carità, perché «caritas omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet» (1 Cor. 13, 7)[52].

 

 

«Spirito di mansuetudine»

 

D’importanza fondamentale è sapere come si devono compiere le opere di Dio. Alcuni le intraprendono con Spirito puramente umano, e perciò non ne riportano nessun frutto o poco. Sapete qual è lo spirito di Dio. «Mitissimus Dei spiritus est et mansuetissimus qui non turbine glomeratur, non in nubilo lucet, sed merae serenitatis, apertus et simple» (Tertull. ad Marc.). Cristo procedette con tale spirito, e a questo devono essere informati i suoi ministri. Poiché il Signore non si trova nell’agitazione o nel fuoco, bisogna continuare nel ministero sacro col medesimo spirito di mansuetudine. «Fili, dice il Sapiente, in mansuetudine omnia operatus perfice et super hominum gloria diligeris» (Eccl. 3, 19). Con uno spirito diverso, i parroci e quanti si danno alla cura delle anime ostacoleranno la propria salvezza e l’opera di Dio[53].

 

 

«Sacerdoti di Cristo, la società invoca l’opera vostra»

 

Sacerdoti di Cristo! Non dimenticate che se mai vi fu tempo in cui l’umana società abbisognasse di voi, è il presente. Ella  medesima invoca l’opera vostra (…).

A lei dunque correte, apostoli di carità, e il vostro ministero sia di salute, la vostra parola acqua che disseti, pane che nutrisca, luce che stenebri, farmaco che risani.

Approfonditevi sempre più nella cognizione delle verità rivelate, e in ogni maniera di studii. Spetta a voi corroborare la fede, distruggere i pregiudizi, scuotere gli inerti, riamicare i cuori.

Amatevi tra voi, aiutatevi scambievolmente; siate uomini di sacrifizio, siate di coloro, che al dire dell’Apostolo, portano il mistero della fede in una coscienza pura. Con ogni sollecitudine adoperandovi, alla fede unite la virtù, alla virtù la scienza, alla scienza la temperanza, alla temperanza la sofferenza, alla sofferenza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità; poiché ove queste cose sieno con voi, e vadano aumentandosi, non lascieranno infruttifera in voi la conoscenza del Signor nostro Gesù Cristo (…).

Vegliate, o fratelli, alla pace delle famiglie, alla santità dei connubii, al rispetto dei giorni  festivi, al decoro della casa di Dio, alla riverenza dei superiori, alla lealtà dei commerci, all’osservanza della giustizia. Non impaurite a fronte delle difficoltà e delle contraddizioni del mondo.

Compatite i difetti di tutti, vogliate bene a tutti, fate del bene a tutti, a tutti senza eccezione. Imitate  il buon Pastore. Il suo zelo, che salda e non lacera, sia il vostro zelo; il suo spirito di mansuetudine, il vostro spirito. Aborrite il vizio, non mai il colpevole. Guardatevi tutt’insieme da una eccessiva accondiscendenza come da una arcigna rigidità[54].

 

b) LA SANTITA DEL SACERDOTE

 

«Scopo della vostra vocazione è la santità»

 

Scopo della vostra vocazione è la santità (...). I sacerdoti non solo sono chiamati ad una santità personale, ma sono dedicati anche alla santità degli altri. «Io vi ho scelti e vi ho destinati ad andare e a portar frutti e frutti abbondanti» (Giov. 14, 1).

Io vi ho scelti, cioè vi ho separati dalla colpa, e vi ho stabiliti solidamente nello Stato di grazia, affinché andiate, progrediate nella virtù e portiate, come vostro frutto, gli uomini alla conversione: e questi frutti durino, cioè sia salda la fede di coloro che voi avrete associati a me.

Con quale forza e secondo quale modello potranno i sacerdoti riuscirvi, se non nella forza e nel modello di santità del Cristo? «Come il tralcio non può fruttificare se non rimane unito alla vite, così nemmeno voi, se non rimarrete in me» (Giov. 15). Il potere del vostro sacerdozio è nella partecipazione del sacerdozio di Cristo. Egli infatti, afferma il Tridentino, destinò i sacerdoti ad essere suoi vicari. Per questo dovete presentare Cristo al popolo fedele tanto nella santità quanto nel ministero.

Si avvicinano i sacerdoti all’altare per offrire l’Ostia immacolata? È necessario che i fedeli vedano in loro l’amore e la religione del Cristo verso il Padre.

Il Sacerdote sale la cattedra della verità? Il luogo stesso esige che si parli di realtà altissime; nello stesso modo si richiede che tali realtà si vedano incarnate nel sacerdote, cosicché egli riproduca Cristo che predica, non i farisei (S. Greg., pars II, c.3).

Il sacerdote si asside nel tribunale sacro della Penitenza? Là specialmente egli dev’essere formato e rafforzato nella Santità di Cristo. «La mano che si tende a detergere le macchie altrui, dovrebbe essere già monda essa stessa, per non insozzare maggiormente ciò che tocca, qualora fosse imbrattata di fango» (S. Greg., l.c., 27)[55].

 

 

«La santità è purezza consacrata a Dio»

 

La Santità, dice S. Tommaso, è purezza consacrata a Dio. Purezza non comune né mediocre, ma eminente, come dice il Crisostomo: la santità è una eminente purezza di mente. Certo, la mediocrità non si addice al sacerdote: è come una città posta sul monte, che non si può nascondere. La santità, ripetiamo, è purezza consacrata a Dio: purezza impegnata nell’onore di Dio. La santità dunque, insieme con la purezza della mente, esige un’immolazione continua: santo, infatti, è ciò  che si brucia sull’altare in onore di Dio. Cosicché santità autentica significa una vita sacerdotale libera da qualsiasi vizio e impegnata continuamente nell’onore di Dio.

Temiamo però che la nozione, che abbiamo dato della Santità, ingeneri in qualcuno l’idea di una santità così lontana dalle nostre forze, così difficilmente accessibile, che la si debba riservare a persone che vivono fuori del mondo.

Non vi è nessun motivo di temere, quando si sente parlare di santità genuina: la santità, la perfezione propria di questa vita, non è un qualche cosa di assoluto, esente da qualsiasi imperfezione: di fatto perfino il giusto pecca sette volte al giorno. La santità consiste invece in un continuo slancio per raggiungerla. Così insegnava S. Bernardo. Piace citare qui l’insegnamento di S. Agostino al riguardo: «è perfetto colui che non ha peccati gravi, che non trascura i veniali: colui insomma che corre senza stancarsi sul sentiero della virtù» (De Perfect. Just. c. 3)[56].

 

 

«Il primo gradino alla santità è il desiderio ardente e generoso»

 

Il primo gradino o mezzo alla santità e il desiderio ardente e generoso. Essendo la santità il fine del sacerdote, ad essa devono essere dirette tutte le nostre aspirazioni. Non è sufficiente un desiderio, una decisione qualsiasi: occorre un desiderio e una volontà che siano paragonabili alla fame e alla sete. «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati».

La santità è la vera sapienza, che bisogna invocare, desiderare, ricercare, come la ricchezza, scavare come un tesoro (...). Nessuno mai raggiungerà la vetta della santità, se non l’avrà assiduamente e intensamente bramata. Tutti voi, Venerabili Fratelli, avete desiderato la santità: dai frutti verifichi ciascuno l’intensità del suo desiderio.

Dall’amore alla santità scaturisce la frequente e quotidiana meditazione della legge e dei misteri celesti. Il sacerdote che trascura la meditazione quotidiana non sarà mai santo, ma proverà la desolazione; sarà «simile a colui che contemplò il suo volto nello specchio; lo contemplò e si dimenticò come fosse» (Jac. 1, 23).

Dal vero amore alla santità scaturisce lo studio di purificare la propria coscienza ogni otto giorni, secondo il prescritto sinodale: chi lo trascura è lontano dalla via della santità, perché chi disprezza le cose piccole, a poco a poco cadrà.

Dallo stesso intenso desiderio deriva l’esame quotidiano di coscienza: necessario soprattutto ai sacerdoti, per verificare che cosa edifichino sul fondamento della fede, se oro o argento, o fieno o paglia. Il nostro spirito infatti, dice Gregorio Magno, è continuamente distratto dalle preoccupazioni e non ce ne rendiamo conto se non misuriamo i nostri progressi e regressi, rientrando in noi stessi[57].

 

 

«La rettitudine di cuore»

 

Che significa un cuore retto? Un cuore che cerca unicamente Dio, un cuore semplice, un cuore mondo, come domandava il regio salmista: «Cor mundum crea in me, Deus, et spiritum rectum innova in visceribus meis» (Ps. 50, 12) (...).

È veramente una cosa grande questo cuore retto: origine di tutte le virtù, sorgente di santità, radice della vita sacerdotale (...).

Questa rettitudine di cuore sia la prima preoccupazione del sacerdote. È con questa disposizione che siete entrati a far parte della milizia della Chiesa; è in questa disposizione che dovete perseverare con costanza. Dice il Sapiente:«Omni custodia serva cor tuum quo ex ipso vita procedit» (Prov. 4, 23). Ed è vero: da dove infatti deriva l’intiepidirsi del santo timore, l’incostanza nella virtù, lo stentato progresso nella via della perfezione? Dalla fiacchezza del cuore. Perché talora le pietre del santuario sono disperse agli angoli di tutte le strade e gli stessi cedri del Libano vanno soggetti a crolli catastrofici? per un vizio occulto del cuore.

Perciò il sacerdote, quale sapiente architetto, ponga il fondamento d’un cuore retto, cioè orientato a Dio, per potervi poi edificare sopra[58].

 

 

«Come garantirci la via della rettitudine»

 

Ecco come garantirci la via della rettitudine: meditare la legge di Dio e conversare assiduamente con lui nell’orazione.

Chi dunque desidera conservare questa rettitudine di cuore, si applichi all’orazione. Un pio scrittore così si esprime sull’orazione: Se qualcuno mi chiedesse di che cosa maggiormente ha bisogno un sacerdote in cura d’anime, gli ripeterei: di orazione; se poi mi chiedesse di cos’altro ha bisogno, gli ripeterei: d’orazione; e se ancora e ripetutamente insistesse sulla domanda, la mia risposta sarebbe sempre la stessa.

Comprendete dunque la necessità dell’orazione. Sentiamo S. Bernardo: La riflessione o meditazione, dalla quale deriva l’orazione, offre questi vantaggi: purifica anzitutto la mente, cioè la stessa fonte da cui ha origine; corregge gli eccessi, regola i costumi, rende la vita virtuosa e ordinata; procura, infine, la conoscenza delle cose divine e umane.

È la meditazione che chiarisce quanto è ambiguo, ricompone quanto è sconnesso, raccoglie quanto e disperso; scruta le cose segrete, intuisce le vere, sottopone ad esame le verosimili, toglie la maschera a quelle ingannevoli e finte.

È ancora la meditazione che programma la nostra attività e, svolta che sia, la riesamina perché niente rimanga nella nostra vita di poco corretto o di bisognoso di correzione. È finalmente la meditazione che nella prosperità ci tiene pronti alle contrarietà, e questa è prudenza, mentre nelle contrarietà fa sì che quasi non le avvertiamo, e questa è fortezza (De Consid. I, c. 7)[59].

 

 

«La carità cresce e si nutre di meditazione»

 

Ecco l’efficacia della meditazione per la rettitudine di cuore e per l’integrità della nostra vita spirituale. Dalla meditazione ci verranno ricchezze incalcolabili, mentre senza meditazione sarà desolazione su desolazione e assoluta sterilità di buone opere. Mai potremo svolgere degnamente i compiti del nostro ministero se non lo terremo costantemente dinanzi agli occhi in un assiduo e intimo contatto con Dio.

Vedano dunque come assolvano il loro ministero quei sacerdoti che sprecano il giorno in contatti e divagazioni esteriori, estinguendo così lo spirito di orazione; più pronti a trattare di affari mondani, di cronaca giornaliera, che di preghiera; abituati a parlare continuamente con gli uomini, quasi mai con Dio; che raramente trovano il tempo per la meditazione del mattino, che rimandano alle ultime ore del giorno il dovere delle Ore canoniche, quasi fosse l’ultimo dei loro compiti: s’annoiano a trattare con Dio, perché lo amano poco.

Convincetevi che la carità cresce e si nutre di meditazione. «Nella meditazione, dice il Profeta, mi si accende un fuoco» e questo lo si dica soprattutto della carità del sacerdote: egli, come ministro di Dio, deve essere come un fuoco fiammeggiante: «Qui fecit ministros suos quasi flammas ignis» (Hebr. 1, 7); e il suo cuore come un altare sul quale offrire un olocausto perenne: «Ignis in altari meo semper ardebit, quem nutriet sacerdos, subiciens ligna, mane per singulos dies» (Lev. 6, 5). Voi tutti lo sapete: la meditazione quotidiana deve fornire sempre nuovo alimento alla vita sacerdotale, perché questo fuoco si conservi e si dilati[60].

 

 

«Il buon esempio è il distintivo del buon pastore»

 

Non sarà sufficiente per il sacerdote essere pio e santo davanti a Dio, nell’intimo della coscienza; è necessario che tale si manifesti anche davanti agli uomini. Dal momento che è stato messo a parte dell’eredità di Dio, è assolutamente richiesta in lui non solo l’integrità di vita, ma anche la testimonianza di questa integrità tra il popolo fedele.

La buona fama è per lui un impegno verso Dio, verso la Chiesa, verso i fedeli; il buon esempio, come ben sapete, è il distintivo del buon pastore, secondo le parole di Cristo: «Pastor, cum oves proprias emiserit, ante eas vadit et oves eum sequuntur» (Joan. 10, 4) (...).

Il Sacerdote in cura d’anime è una città posta sul monte, esposto agli sguardi di tutti; la sua vita, che non può tenersi nascosta, non può rimanere senza effetto negli altri: sarà infatti di rovina o di risurrezione per molti. Esaminate dunque come vi comportate in parole e in opere.

Il sacerdote è lucerna posta sul candelabro, perché risplenda a tutti quelli che sono in casa: mantenga la sua efficacia forte e penetrante, così da indurre a virtù col suo esempio: la buona condotta del sacerdote è la migliore formazione delle popolazioni; voi sapete che non c’è nulla più efficace dell’esempio (...). La predicazione santa ha già in se stessa una sua efficacia; ma è doppia l’efficacia quando la parola predicata è Santa, e colui che predica è santo[61].

 

 

«Dio ha scelto i suoi ministri non tra gli angeli, ma tra gli uomini»

 

Dio, per un tratto della sua bontà infinita, ha scelto i suoi ministri non già tra gli angeli, ma tra gli uomini - omnis pontifex ex hominibus assumptus - cioè tra creature piene d’infermità, e d’imperfezione, plasmati della comune creta di Adamo, esposti come tutti gli altri, e spesso anche più degli altri, all’urto delle passioni. Non bisogna dimenticare che Dio, comunicando ai sacerdoti i suoi poteri, non comunicò loro la sua impeccabilità. Se egli permette che qualche foglia del grand’albero cada nel fango, è per mostrare che questi poteri sono indipendenti dal merito di colui che li riceve; che non sono dati all’uomo per lui stesso, ma pel bene altrui; che la Chiesa non si regge per umana virtù, ma per virtù che le viene dall’alto[62].

 

 

«Se i preti non sono angeli, quasi è meglio così»

 

Se i preti non sono angeli, quasi è meglio così, ché san meglio compiangere e sovvenire i colpevoli e i miseri fratelli: quoniam et ipse circumdatus est infirmitate. Possiam però dire altamente che essi non hanno da arrossire in faccia ai loro censori, e che nella quasi totalità sanno onorare il loro ministero e, colla scienza, colla carità, coll’operosità, colla virtù, compiono il precetto dell’Apostolo: Ministerium meum honorificabo[63].

 

 

c) LA PREGHIERA DEL SACERDOTE

 

«Il frutto della predicazione e del ministero dipende dalla grazia»

 

Vedete quanto zelo sia necessario e come dovete adoperarvi con tutte le vostre energie. Poiché è in forza del vostro ufficio che «vi siete impegnati a rispondere del prossimo, vi siete lasciati legare con le parole della vostra bocca, vi siete vincolati con le vostre stesse promesse. Andate dunque senza indugio, importunate il prossimo, non concedete sonno ai vostri occhi né riposo alle vostre palpebre» (Prov., 6, 1-4).

Niente di più efficace si può addurne a eccitare il vostro zelo. Se ricordate, vi ho già raccomandato di concludere con l’Eucaristia ogni vostro discorso; di approfittare di ogni occasione, opportuna o importuna, per rivolgere una esortazione eucaristica.

Ora in più vi vorrei suggerire di preparare i vostri discorsi davanti al SS. Sacramento, in modo da poter trasmettere al popolo le parole stesse che Cristo vi ha suggerito; così fecero anche Mosè e i Profeti.

Il sacerdote davanti al Tabernacolo chieda insistentemente che il ghiaccio del suo cuore sia sciolto da quel fuoco celeste che arde in Cristo; che la sua anima sia riempita di fervore divino e possa così diventare una testimonianza fedele davanti al popolo.

Sapete bene che il frutto della predicazione e del ministero dipende dalla grazia, secondo la parola dell’Apostolo: «Neque qui plantat est aliquid, neque qui rigat, sed qui incrementum dat Deus»[64].

 

 

«Vi vedano spesso davanti al Tabernacolo»

 

Sarebbe sommamente lodevole e desiderabile che il sacerdote di primo mattino si presentasse davanti al SS. Tabernacolo e lì, quasi prevenendo il sole nella lode di Dio, facesse la sua meditazione, si preparasse, sempre davanti alla SS. Eucaristia, in modo conveniente al sacrificio della Messa; e dopo la celebrazione, v’indugiasse per un doveroso ringraziamento. Ma purtroppo capita spesso che i sacerdoti, senza alcuna preparazione e trascurando di premettere una qualsiasi preghiera, si accostino a celebrare e dopo la Messa si distraggano subito in occupazioni profane (...). Sopportano mal volentieri di stare ogni giorno per un quanto d’ora davanti al Tabernacolo in orazione a Cristo e se ne allontanano, impazienti come sono soltanto nei riguardi di Dio. Non potrebbe Cristo, ospite trascurato e forestiero in casa vostra, lamentarsi così: «Sono diventato un estraneo per i miei fratelli e un forestiero per i figli di mia madre»? (...).

Le vostre popolazioni vi vedano spesso presenti davanti al SS. Tabernacolo, ora per la recita del breviario, era per l’esame di coscienza; vedano che vi accostate a Cristo prima di uscire di casa, per implorarne l’aiuto e la grazia; e notino pure che al ritorno vi presentate a lui per ringraziarlo. Beato quel sacerdote che, interrompendo le sue occupazioni, vorrà impiegare parte del suo tempo nel culto assiduo di Cristo Signore e avrà imparato a dar sapore ai suoi lavori con l’amichevole colloquio con Cristo[65].

 

«Il frequente incontro e colloquio con Cristo»

 

Il secondo elemento della vita eucaristica, in cui il pastore d’anime deve essere d’esempio al popolo, è il frequente incontro e colloquio con Cristo.

Niente di più doveroso e salutare di questo incontro. Il Cristo nell’Eucaristia è il deposito affidato al sacerdote, è il suo tesoro. Non si richiede forse per un deposito una vigilante custodia e ispezione? E il cuore non corre e sosta là dove si trova il suo tesoro? Cristo nell’Eucaristia è per il sacerdote sapienza, consiglio, difesa e forza; la sapienza che lo illumina, il consiglio che lo dirige, la difesa che lo protegge, la forza che gli rende facile ogni cosa difficile (...).

Può darsi che nei primi anni del ministero sacerdotale abbiamo fatto tale esperienza; ma col passare del tempo l’oro si è oscurato e si è appannato il suo splendore; siamo diventati come coloro di cui parla l’Apostolo, simulatori di una pietà che è solo maschera. Ecco che già da venti, trenta o quarant’anni siamo in intimo rapporto con Cristo in questo sacramento, ma dalla sua pienezza poco abbiamo ricevuto. E mentre come partecipi, anzi come artefici di questo mistero, arricchiamo gli altri, noi ci andiamo esaurendo nella nostra miseria! Ma come mai? Non è forse perché la nostra fede languisce? Veniamo a contatto con la materialità di questo mistero, mentre non sappiamo penetrare a sufficienza nel suo intimo: voci mute per noi quelle che ci parlano di Cristo in questo Sacramento[66].

 

 

«Avvisi al clero»

 

Tenete continuamente presente alla memoria la vocazione della quale il vostro Dio vi ha insigniti.

Animati da questo vivo e assiduo ricordo, rivestitevi di virtù tanto che gli altri possano veder risplendere in voi, come in un faro, la santità che, se deve essere grande negli altri stati di vita, in più larga misura dovete possedere voi, ministri dei misteri di Dio e dispensatori della grazia divina.

Studiatevi di condurre in terra, quasi angeli di Dio, una vita tante celestiale che ne emanino per gli altri esempi di virtù divine.

Nella conformità di un solo e medesimo spirito impegnatevi nel culto divino, nella meditazione delle cose celesti, nell’orazione, nello studio delle scienze sacre ed ecclesiastiche. Abbandonate la vanità e le seduzioni del mondo; sciolti da ogni vizio, camminate diritto nella via del Signore. Abbracciate con slancio la carità, sorgente di tutte le virtù. Coltivate l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza, la giustizia, la temperanza, tutti i doveri della pietà cristiana. Pensate e fate tutte ciò che è pudico, vero, santo, religioso.

Coltivate assiduamente la preghiera.

Con animo puro e attenzione viva attendete per mezz’ora al giorno all’orazione mentale. Sia, per quanto è possibile, la vostra prima occupazione. Di fatto, è il cardine e il fondamento della vita sacerdotale. Se le siete fedeli, aspettatevi da essa ogni bene.

Celebrate santamente e religiosamente la Messa. Preparatevi alla celebrazione con pietà sentita, meditando profondamente così grande mistero. Per celebrare degnamente, esaminate accuratamente e frequentemente la vostra coscienza. Nell’azione del santo sacrificio guardatevi da errori.

Non passi giorno senza una visita di adorazione e di supplica a Gesù presente nella S. Eucaristia.

Coltivate una devozione ardente al S. Cuore di Gesù, alla Beata Vergine Maria, a S. Giuseppe e ai Santi Patroni.

Se volete conservare e accrescere lo spirito di pietà, non tralasciate alcun giorno e per nessun motivo l’esame di coscienza del mezzogiorno e della sera, la lettura spirituale, la recita del S. Rosario.

Per divina misericordia siete stati costituiti nell’Ordine sacro per conservare e promuovere la gloria di Dio: vedete dunque di compiere il vostro ministero, serbandone la dignità e il decoro.

Il vostro modo di vestire, di camminare, di comportarvi non si riveli mai in contrasto con l’Ordine che avete ricevuto.

Accontentatevi di una mensa frugale e di suppellettili modeste.

Fuggite il fasto, il lusso, la caccia agli onori, l’ambizione e la vanità. Osservate scrupolosamente la temperanza della vita clericale.

Anche il vostro modo di parlare sia coerente a questa linea: niente di scurrile, di frivolo, di indecoroso nei vostri discorsi.

Fortificate il vostro cuore, che non vada in cerca di cose futili, di passatempi mondani, di sciocchezze.

Governate i vostri sensi, che non diventino servi delle passioni, mentre Dio ce il ha dati come servi della ragione.

Semplice e pudico sia il vostro sguardo, casto e prudente l’udito, casta la mente, casti tutti i sensi, casto e spirituale il vostro modo di vivere e di comportarvi.

Per mantenervi casti, mettetevi in stato di difesa.

Non impicciatevi in affari mondani.

Non siate avidi di denaro e di guadagno. Se siete poveri, non aspirate a diventare ricchi, se non volete cadere in molte tentazioni e nel laccio del diavolo.

Portate la vostra povertà senza infastidirvi: la povertà fu amata e insegnata dal maestro celeste Gesù Cristo, posato su una mangiatoia nella nascita e morto nudo in croce.

Nulla può mancare a chi teme Dio e invoca il suo santo nome: tanto meno ai Sacerdoti religiosi e santi.

Distribuite i proventi ecclesiastici ai prediletti di Cristo: ai poveri, alle vedove, agli ammalati, ai pellegrini, a tutti gli indigenti e affamati. Se non date loro il sostentamento necessario, siete rei di lesa carità al cospetto del Signore.

Tutto il tempo che vi sopravanza dal culto divino, dalla meditazione e dalla preghiera, dalle occupazioni sacerdotali, non sciupatelo nell’ozio e nella vana curiosità, ma da uomini chiamati in sortem Domini, meditate la sua legge giorno e notte.

Coltivate perciò con grande diligenza lo studio delle cose sacre, che dovete amare, tanto che chi le disprezza si sentirà dire dal Signore: «Siccome tu hai trascurato la scienza, io ti rifiuterò, non ti voglio mio sacerdote».

Abbiate tra mano giorno e notte la Sacra Scrittura. Consultate assiduamente i testi di dogmatica e di morale, il diritto canonico, i libri liturgici, la storia della Chiesa, nonché le opere dei Santi Padri.

Siate tutti, come dice S. Girolamo, in comunione con la cattedra di Pietro, ossia col Sommo Pontefice. Noi, come membra di un unico corpo, non solo dobbiamo obbedire all’augusto capo della Chiesa, ma volere, pensare, sentire con lui, come se, privi di una volontà distinta, pensassimo, parlassimo, operassimo per mezzo suo.

Su un punto di tanta importanza, bisogna assolutamente guardarsi da sofismi, cavilli, tentennamenti, interpretazioni arbitrarie, che sconvengono ad un sacerdote e sanno già di defezione. Via da noi cose del genere! Obbedendo invece alla sua parola, dimostriamo una disciplina salda, nella quale sta la forza di ogni istituzione sociale.

Siate tutti, davanti a Dio e al popolo, un cuor solo e un’anima sola col Vescovo, non dimenticando mai la grave sentenza di S. Ignazio Martire: «Quelli che sono di Dio e di Cristo sono col Vescovo», e l’altra di S. Cipriano: «Chi non è col Vescovo non è con la Chiesa».

Allontanando dunque le discordie, che non raramente il nemico tenta di seminare, specialmente ai nostri giorni, tra il pastore e il gregge, tenetevi strettamente uniti al pastore che Dio vi ha dato, e con lui, posponendo qualsiasi considerazione umana, siate solidali in ogni opera buona. Sia per voi sacra l’autorità del vostro Vescovo.

Tenete per certo che il ministero sacerdotale, se non è esercitato sotto il magistero del Vescovo, non sarà né santo, né efficace, né proficuo.

Custodite diligentemente l’obbedienza. L’avete promessa solennemente al Vescovo. Da quando siete diventati sacerdoti, non appartenete più al mondo, alla famiglia, a voi stessi, ma alla Chiesa.

Fuggite da quei preti, qualunque sia la loro dignità e intelligenza, che non sono sinceramente e apertamente con il loro Vescovo.

Voi parroci guardate sempre a Cristo, principe dei pastori, come al modello preferito. Come precedete nell’onore e nella dignità, così date esempio nella virtù e nel sollecito adempimento dei vostri doveri.

Prima di tutto dovete conoscere le vostre pecorelle, guidarle e custodirle. Compilate e conservate accuratamente i registri parrocchiali. Informatevi della vita e dei costumi dei vostri parrocchiani.

Vegliate che nel vostro popolo non s’introducano superstizioni e non si diffondano impunemente libri cattivi e giornali antireligiosi.

Individuate i corrompitori della gente. Preoccupatevi di distoglierli dalla via della corruzione, con tutti i mezzi che la carità vi può suggerire.

Tenete nota dei poveri, delle vedove, degli orfani, di tutti i bisognosi di aiuto. Soccorreteli col consiglio, col conforto e con l’aiuto; se non ne avete voi la possibilità, esortate caldamente altri ad aiutarli.

Nutrite soprattutto il popolo affidatovi con la predicazione della parola di Dio, con salutari ammonimenti, con l’amministrazione dei sacramenti, con l’esempio e con la preghiera.

Catechizzate i bambini. Esortate i padri e le madri ad accompagnare loro stessi i figli, le figlie, i familiari al catechismo.

Non omettete, specialmente le domeniche e le feste, durante la Messa, di spiegare ai fedeli il vangelo e altre letture della Messa e di illustrare il mistero del santissimo sacrificio, affinché, istruiti più accuratamente, assistano più religiosamente.

Almeno nelle domeniche e nelle feste solenni catechizzate, a misura delle loro capacità, le popolazioni a voi affidate e nutritele con parole di salvezza.

Ammonite spesso e caldamente i genitori a educare religiosamente la loro famiglia alla scuola delle virtù cristiane. Convinceteli a tenere in casa libri, da voi approvati, per leggerli, soprattutto alla domenica, e formare se stessi e la famiglia a una vita santa.

«Custodisci il deposito»: riflettete che lo si dice a ciascuno di voi, perché poniate ogni pensione e premura nel custodire il vostro gregge, come un deposito consegnato alla vostra fedele sollecitudine, perché sia custodito diligentemente e preservato dal male.

Insistete opportunamente e importunamente, anche con ammonizioni private, consigli, correzioni, rimproveri, per richiamare i peccatori sulla via della salvezza, con l’aiuto della grazia divina.

Siete partecipi dei nostri sforzi e della nostra sollecitudine, siete operai della messe a noi affidata: lavorate e combattete con noi, perché possiamo, con l’aiuto della misericordia divina, raccogliere, come grano buono, il nostro popolo nei granai celesti.

Voi sacerdoti giovani, che come coadiutori aiutate i parroci, non presumete di esigere da loro più del giusto. Vivete nella casa parrocchiale come amici fedeli, senza rivelare ad estranei quello che vi succede. Nutrite per il vostro parroco riverenza, amore, obbedienza; copritene con pietà filiale gli eventuali difetti.

Voi chierici, germogli d’olivo, delizia del padre, pensiero primo e dolcissimo del pastore, comportatevi come richiede lo stato ecclesiastico. Siete chierici, vale a dire eredità del Signore, e Dio stesso è la vostra eredità: come tali comportatevi, in modo da possedere Dio e da essere da Dio posseduti. Ponderate quanto sia necessario essere dediti ai vostri doveri, di quanta castità di vita e di costumi dovete risplendere. Vi ha scelti il Signore, perché stiate davanti a lui e lo serviate[67].

 

d) LA SCIENZA DEL CLERO

 

«La Chiesa è fondata sulla fede, ma è necessaria la scienza»

 

Senza dubbio, se nessuna società umana può essere costituita e sussistere senza la scienza; se non è possibile esercitare nessun ufficio nella società civile senza una scienza adeguata, quanto più la Chiesa crescerà ed aumenterà con la scienza, e gli obblighi ecclesiastici saranno adempiuti a dovere e resi fruttuosi. La Chiesa è fondata sulla fede, ma è necessaria la scienza per generare e custodire la fede; nella scienza è generata, nutrita, difesa, fortificata quella fede salutare che conduce alla beatitudine: la maggior parte dei fedeli, secondo quanto afferma S. Agostino, non possiede questa scienza, anche se possiede la fede salutare.

La scienza, come custodisce la fede, così custodisce l’integrità dei costumi. Ma nel nostro tempo gli uomini sdegnano o respingono questa scienza dei costumi e della fede: alcuni per odio, altri per poter indulgere liberamente ai loro vizi, altri ancora perché i sacerdoti non sanno esortarli alla sana dottrina e a far fronte ai contraddittori. La necessità della scienza del sacerdote perciò aumenta. Si deve infatti difendere la dottrina della fede non solo nelle città, ma in ogni luogo, perché dappertutto il nemico ha seminato la zizzania dell’errore: e questo è il dovere del sacerdote, custode della fede e vindice dell’integrità dei costumi. Ma come potrà difenderla e conservarla se la ignora e non la comprende rettamente?

È perciò un male l’ignoranza e la negligenza del sacerdote verso la scienza. Anzitutto perché chi evita d’istruirsi cadrà nel male (Prov. 17, 26); in secondo luogo perché il pastore ignorante sarà deriso da coloro che lo circondano; infine perché sarà testimone della corruzione del popolo e non potrà porvi rimedio. Che cosa si può sperare dal ministero del sacerdote che non possiede la scienza dovuta? Quale sarà la fede negli atti del culto divino, quale la direzione sicura nel tribunale della Penitenza, quale la vigilanza sul gregge affidato? È il servo inutile, al quale è riservata la pena meritata: sarà gettato fuori nelle tenebre con le mani e i piedi legati.

Se la Chiesa qualche volta ha subìto danno dalla defezione dei popoli e dalla corruzione dei costumi, lo si deve ascrivere soprattutto all’ignoranza dei suoi ministri[68].

 

 

«Due doti rendono completo l’uomo di Dio: la santità e la scienza»

 

Due doti rendono completo l’uomo di Dio: la santità, che lo rende gradito a Dio, e la scienza, con la quale istruisce i fedeli (...). Senza la scienza il sacerdote causa gravissimi e irreparabili danni alla Chiesa.

Essa esperimenta ogni giorno e sempre più dolorosamente quale pericolo importi che il pastore non riesca a trovare i pascoli, che la guida ignori la via da percorrere, che il vicario non conosca la volontà del Signore (S. Bernard. Declam.).

Non è sufficiente che il sacerdote risplenda solo per santità o solo per dottrina. Dove sono coloro che affermano essere sufficiente al sacerdote l’innocenza? (Hier. ad Fabiol.). Non è sufficiente che i prelati si comportino bene e siano di costumi integri, se non vi si aggiunge la conoscenza della dottrina (Grat. Test. 36, c. 2), poiché il comportamento retto di un sacerdote senza la parola mantiene sì i santi nella santità mediante l’esempio, ma non può condurre gli erranti e gli ignoranti alla conoscenza della verità (Chrys. hom. 10 in Math.). D’altra parte la scienza da sola è pericolosa, se la vita è macchiata da opere cattive.

Infatti il solo risplendere è vano; il solo ardere è insufficiente: l’ardere e il risplendere costituiscono la perfezione[69].

 

 

«La necessità dello studio»

 

Benché nessuno neghi la necessità della scienza, pochi si applicano veramente ad acquistarla.

Vi sono alcuni che, prima di entrare in cura d’anime, si danno con passione allo studio; ma ottenuto il beneficio, buttano i libri, convinti d’avere appreso abbastanza per le necessità del popolo incolto al quale sono destinati. Vana scusa, Ven. Fratelli. Anche se nella maggior parte dei casi è vero che una scienza comune è sufficiente per le questioni ordinarie, spesso s’incontrano difficoltà e complicazioni, dalle quali non è facile districarsi. Perciò imitino i medici e gli avvocati più diligenti che, quando sono liberi dalla cura dei malati e dalla difesa delle cause, si dedicano alla consultazione dei libri della loro arte. Si diano dunque ad uno studio intenso per offrire una soluzione conveniente alle nuove difficoltà che si presentano. Come i soldati maneggiano le armi anche quando non esiste il pericolo di un’irruzione nemica, così i sacerdoti, se non vogliono macchiare gravemente la loro coscienza, non cessino mai di usare i libri, che sono le loro armi[70].

 

 

«La scienza dei santi»

 

La scienza dei santi si compendia in tre punti:

 

1)      la scienza alla quale devono attendere i sacerdoti è la conoscenza dei mezzi di perfezione: perciò apprendano il metodo della preghiera e della meditazione, possiedano a perfezione il metodo dell’esame di coscienza e degli esercizi di pietà;

2)      si dedichino allo studio di quanto riguarda il sacrificio della Messa e gli altri Sacramenti e la recita del Divino Ufficio, in modo da conoscere, secondo la loro possibilità, il significato dei riti e delle cerimonie;

3)      la scienza che serve direttamente alla direzione delle anime, cioè la teologia dogmatica, morale, ascetica e mistica. Ognuno deve tenere presso di sé un testo di autore approvato, relativo a ciascuna di queste materie, e consultarlo attentamente ogni giorno. Queste sono le opere principali che servono all’acquisto della scienza per i nostri sacerdoti: le raccomandiamo caldamente a tutti e singoli.

Mentre però raccomandiamo questa scienza al nostro clero, non condanniamo affatto la cultura profana: ma, una volta assicurata la scienza ecclesiastica, ancora una volta lodiamo le altre. Alto onore per il ceto ecclesiastico, se qualche suo membro gareggia per strappare la palma ai laici anche nelle altre scienze. Dio è il Signore delle scienze e bisogna ricondurre anche la scienza profana ad obbedire al Cristo[71].

 

 

e) LA PROMOZIONE DELLE VOCAZIONI

 

«Il moltiplicare i sacerdoti è lo stesso che dar vita a tutte le opere buone»

 

Il moltiplicare codesti sacerdoti è lo stesso che dar vita a tutte le opere buone immaginabili.

Fratelli miei, diceva ai suoi missionari quell’incomparabile eroe della carità che fu S. Vincenzo de’ Paoli, pensiamo pure finché vogliamo, e troveremo di non poter contribuire a cosa più grande che a formare un buon prete.

Volete conoscere il merito sovrabbondante che viene ad acquistarsi chi accoglie nel Seminario i piccoli del Signore? Udite Gesù medesimo: Chi accoglie voi, Egli dice ai suoi Apostoli, accoglie me; e chiunque avrà dato da bere ad uno di questi piccoli un sol bicchiere di fresca acqua a mio riguardo, in verità vi dico: non rimarrà senza la sua ricompensa. Quale poi sia per essere questa ricompensa, udite di nuovo Gesù Cristo: Chi riceve un profeta come profeta, riceverà la mercede del profeta; vale a dire, come spiega il Crisostomo, chi aiuta a formare un ministro del Vangelo e a lui, come tale, porge soccorso, egli ha parte a tutto il bene che fa il ministro, e avrà da Dio la mercede stessa che avrà il ministro, mercede immensurabile[72].

 

 

«Studiatevi di preparare quasi altrettanti voi stessi»

 

Miei amati fratelli, parroci e sacerdoti carissimi, studiatevi di preparare fin d’ora quasi altrettanti voi stessi che valgano poi a compensare la Diocesi, quando avrà il dolore di perdervi. A tal fine osservate se nelle vostre parrocchie venga crescendo qualche fanciullo di ingegno aperto, d’indole schietta, di carattere vivace, ma insieme docile, studioso, modesto, d’illibati costumi e portato al servizio degli altari. Quando vi sia, prendete a coltivarlo con particolare premura: ve lo raccomando. D’accordo coi suoi genitori, vedete di ascriverlo alla sacra milizia (...).

Felice il parroco che avrà cooperato a dare almeno un prete alla Chiesa! Sia pure che nel campo del Padrone evangelico egli non abbia forse lavorato sempre con tutta quella diligenza e premura, con tutto quel fervore che il bisogno dei tempi richiedeva. Potrà nondimeno presentarsi pieno di fiducia al divin Giudice, sapendo di lasciare chi proseguirà sulla terra la sua celeste missione, sapendo che per mezzo di lui egli continuerà in certo qual modo ad evangelizzare, ad istruire, a presentare sempre nuovi manipoli al Padrone della messe[73].

 

 

«Felice chi dà un sacerdote alla Chiesa»

 

Neppure temer dovete che sieno deluse le vostre speranze. Quand’anche sull’albero della carità non vedeste quaggiù maturare i frutti desiderati, quei frutti matureranno a conto vostro nelle aiuole del Paradiso. Fuori di metafora: non mai al cospetto del Signore l’opera virtuosa va perduta. Quand’anche dei giovani leviti, raccolti nel Seminario, i più fossero costretti a lasciarlo, e solo a pochi fosse dato di toccare la meta, quei pochi nondimeno varrebbero un tesoro, sarebbero una letizia del cielo e della terra.

Fra cento gocce di pioggia che cadono al suolo, novantotto diventano fango; ma delle altre due, una cade sulla fronte del bambino nel lavacro battesimale e dona un figlio alla Chiesa; l’altra cade nel calice del Sacerdote, si immedesima col Sangue di Cristo e dona agli uomini Dio. Felice, ripeto, mille volte felice chi dà un Sacerdote alla Chiesa![74]

 

 

«Quante vocazioni perdute per colpa dei genitori»

 

Voi ben sapete quante preziose vocazioni vadano miseramente perdute per colpa degli stessi genitori. Non tralasciate quindi di porre sotto gli occhi dei padri e delle madri le terribili conseguenze onde si rendono responsabili in faccia a Dio, quando alla vocazione dei propri figli direttamente ed apertamente si oppongono, quando con invincibile resistenza chiudono loro le porte del Santuario, quando con blandizie e con minacce costringono a trascinare le ignobili e pesanti catene del mondo chi era nato a dilatare sulla terra il regno di Dio.

Premuniteli da quell’amore disordinato e sensuale che ad alcuni di essi fa stimare quasi perduti e per la famiglia e per il casato quelli tra i loro figliuoli che vestono le sacre divise. Oh, quanti esempi vediamo noi di genitori, i quali, dopo aver attraversato la vocazione dei figli per mire terrene, si accorgono, ma troppo tardi, di aver preparato a sé stessi ed ai figli medesimi una vita d’infelicità e di sventure!

Ricordate loro pertanto, o venerabili fratelli, che se hanno da guardarsi dallo spingere i figli per una via che non è la loro, debbono pure guardarsi dal ritrarli da quella sulla quale Dio li chiama. Insegnate loro come lungi dal contrastare quella vocazione e rammaricarsene, debbono, mediante la cristiana educazione, coltivarla, svolgerla, difenderla e tenersene altamente onorati, come nei tempi più belli della fede se ne tenevano onorati i nostri maggiori. Dite loro altresì essere la vocazione al mistero sacro come un germe delicatissimo, inserito dalla mano stessa di Dio nell’anima che viene a pellegrinar sulla terra. Porranno essi quel germe in condizioni propizie? Con celere movimento lo vedranno crescere, fiorire, dar frutto. Lo porranno in condizioni contrarie? Esso morirà inevitabilmente senza un miracolo della onnipotenza divina[75].

 

 

«I Seminari: li amo come la pupilla dei miei occhi»

 

I suoi Seminari li ha pure la Diocesi piacentina, e certo a me nulla sta più a cuore di questi cari e religiosi Istituti. Oh! sì, io li amo; li amo come la pupilla degli occhi miei, perché è nelle crescenti speranze del sacerdozio ch’io vedo un pegno della futura prosperità del mio gregge. Per questo mi assoggettai di buon grado a sacrifici enormi, per questo io continuo a fare anche oggi tutto che mi è possibile; ma le sole mie forze, o cari, non bastano. Ho bisogno, e bisogno grande del vostro aiuto (...).

I nostri Seminari sono poveri, e poveri generalmente sono i giovanetti che vengonvi ammessi. Quasi tutti, com’è noto, escono da famiglie poco o nulla provviste di beni di fortuna, e perciò più o meno bisognosi di soccorso, benché la retta sia minima.

Quale strazio al cuore di un Vescovo il dover tante volte negare l’ingresso nel Seminario a giovanetti di belle speranze, e ciò per mancanza appunto di mezzi! Qual dolore sentirsi riferire che altri, di speranze ancora migliori, si dovranno, per lo stesso motivo, rimandare alle proprie famiglie, senza che a lui sia dato provvedere!

Solo la vostra carità, fratelli e figli miei, può togliermi da questa angustie; ed è appunto su di essa ch’io faccio assegnamento. Io spero che anche questa volta non invano avrò fatto ad essa ricorso.

Io vorrei che ciascuna parrocchia, e almeno ciascun Vicariato della Diocesi, si proponesse di fondare nel Seminario un posto gratuito pei chierici poveri[76].

 

 

«Ho i Seminari pieni»

 

Ho i Seminari non solo pieni, ma rigurgitanti di Chierici e, se anche le volessi, non potrei accettare giovani di altre Diocesi. I preti, voi le sapete, sono come le medicine. Non bisogna prenderne più del necessario, che altrimenti guai! Fra qualche anno, se va di questo passo, io non saprò più dove collocare tutti i miei. È la reazione di Dio, che risponde così a chi volle impoverire il Clero per assottigliarne le file[77].

 

 

«Mi chiamerei fortunatissimo di vedere molti del mio Clero dedicarsi alle Missioni»

 

Mi chiamerei fortunatissimo di vedere molti, almeno alcuni del mio Clero dedicarsi all’opera sublime delle Missioni. Sebbene anche qui la penuria di sacerdoti cominci a farsi sentire, io nondimeno, lungi dall’oppormivi, non avrei per essi che parole d’encomio e d’incoraggiamento, persuaso come sono che uno dei mezzi più efficaci per mantenere la fede tra noi, sia quello di procurarla ai popoli che non la posseggono ancora.

Ascritto già a cotesto Istituto delle Missioni, e trattenuto dall’appartenervi personalmente dal volere del compiante Mr. Vescovo di Como, vi appartengo però sempre coll’affetto e faccio voti ardentissimi che Dio lo prosperi e benedica e possa corrispondere e per numero e per valore di soggetti al nobilissimo suo scopo[78].

 

 

5. IL LAICO

 

Ogni uomo è interprete e sacerdote dell’universo, legge il libro delle realtà terrene e ne loda l’Autore, Signore e Padre. Il laico scopre e svela nelle realtà temporali il riflesso dell’eternità. È il sacerdote della casa e della società civile.

È apostolo della verità, della parola, dell’esempio, della carità, della vera civiltà, dell’autentico progresso. Per il battesimo è sacerdote, per la cresima è soldato e testimone.

In cooperazione e comunione con il sacerdozio ministeriale, offre un contributo suo proprio e indispensabile alla rigenerazione cristiana del mondo. La Chiesa è sua, come lo è degli ecclesiastici. Come cosa sua l’ama, la difende, la annunzia con coraggio. Non si vergogna del Vangelo: in un secolo laicizzato lo testimonia apertamente, con la professione esplicita della fede, con la coerenza, con l’energia delle proprie convinzioni, con attività concorde e disciplinata.

 

a) IL SACERDOZIO DEI FEDELI

 

«L’uomo interprete e sacerdote dell’universo»

 

Se noi non siamo l’ultimo fine delle cose create, certamente nell’ordine fisico siamo l’immediato loro scopo, poiché tutte ci sono sottemesse, tutte servono a noi: constituisti eum super omnia opera manuum tuarum; omnia subiecisti sub pedibus eius.

Perché infatti diffonde il sole i torrenti inesausti di sua luce? Chi rapisce alla elettricità le sue forze, destinandola a percorrere determinate vie, a divenire strumento di trazione, di movimento, di vita novella? Chi costringe un raggio solare a trasformarsi in magico pittore delle opere della natura e dell’arte? Chi aggioga l’aria e il vapore al proprio carro per vincere nella corsa il volo degli uccelli? Chi misura col calcolo la distanza dei pianeti, la loro superficie, ne determina il peso, ne analizza la sostanza? Quale creatura scruta il cammino degli astri scintillanti? Perché ha Iddio creati con tanta magnificenza i tesori del firmamento, della terra e del mare?

Tutte queste meraviglie non si spiegano, tutte queste cose non hanno ragione di essere, di moltiplicarsi, di durare senza l’uomo; tutte nella propria natura e fine vi rivelano la necessità dell’uomo nella creazione; forse senza di esso cadrebbero nel primitivo nulla. Noi siamo il fine immediato, temporaneo, subordinato della loro esistenza e durata.

L’universo adunque è per noi come un gran libro, in cui stanno registrati gli innumerevoli benefizi del Creatore; a noi il leggere sulla faccia delle cose la parola dell’amore, della sapienza, dell’onnipotenza di Dio, che dal nulla per noi le trasse, e dal rientrare nel nulla per noi le preserva. All’uomo quindi è assegnato l’onore e il dovere, nell’impotenza delle altre creature, di rendersi per esse interprete e sacerdote dell’universo nell’intonare in presenza della soggetta natura l’inno di gloria e dell’universale riconoscenza al creatore![79]

 

 

«Cittadino degli anni eterni»

 

La religione cattolica che ha fatto conoscere all’uomo la sua grandezza rivelandogli chiaramente quel fine altissimo a cui è ordinato, gli ha imposto altresì dei doveri proporzionati alla sublimità di questo fine medesimo. Il cristiano non può più restringersi nel suo operare tra gli angusti limiti della ra­gione e del tempo, senza rinnegare la sua origine divina e la sua nobile destinazione.

Cittadino degli anni eterni egli deve abbracciar col pensiero quell’orizzonte immenso, che la rivelazione ha dischiuso al suo sguardo, dove la terra non figura che come un riflesso del cielo, e l’eternità come la sanzione ultima delle umane azioni. Considerati sotto questo aspetto (che è il solo vero), gli avvenimenti più strepitosi perdono tutta la loro importanza, o per meglio dire, non hanno altra importanza che quella che loro deriva dalla Religione, complicata per mille rapporti in tutte le umane cose. L’innalzamento e la caduta degl’imperi, le rivoluzioni dei popoli, l’agitarsi e il rimescolarsi delle nazioni, non sono che un giuoco di poca polvere nella immensità dello spazio. La religione sola apparisce come l’unico affare veramente importante, e la sua propagazione e il suo trionfo, come la suprema ragione della provvidenza divina negli umani eventi.

In questo disegno grandioso nulla si vede più isolato; un essere si collega all’altro, un’azione all’altra, tutti gl’individui come tutte le nazioni hanno il loro ufficio, e la parte di lavoro assegnata alla perfezione dell’edifizio. Compierla, questa parte, è un corrispondere alle intenzioni della Provvidenza, un intrecciarsi nel tempo quella corona eterna di giustizia che S. Paolo si vedeva già sulla fronte prima di morire; lasciarla imperfetta, è un perturbar l’ordine stabilito da Dio, un tradire la sua aspettazione; è un aggravar se stessi della reità di quel servo che seppelliva il talento invece di trafficarlo[80].

 

 

«Apostoli esser dovete anche voi, laici»

 

Apostoli esser dovete anche voi, o fratelli; uomini cioè di azione e di sacrifizio, zelanti dell’onor di Dio, dell’onor della Chiesa, della salute delle anime. Forse ché non potete anche voi, benché laici, esercitare, nel piccolo mondo che vi circonda, l’apostolato della parola, usando nel conversare, nell’istruire, nel correggere un linguaggio che edifica? l’apostolato dell’esempio, professando apertamente, senza umani riguardi, la vostra fede? l’apostolato della carità, soccorrendo poveri, visitando infermi, consolando afflitti, facendo a tutti del bene? l’apostolato della civiltà, cooperando alla distruzione del peccato che fa miseri i popoli e all’incremento della giustizia che fa prosperare le nazioni? Sì, sì! Nei supremi bisogni della patria ogni cittadino è un soldato. Nei supremi bisogni della Chiesa dev’essere un apostolo, e un fervido e generoso apostolo, ogni credente[81].

 

 

«Anche il laicato ha la sua missione apostolica»

 

Non sono anche i laici soldati di Cristo? Dunque essi pure devono mettere mano alle armi in sostegno e difesa del suo regno (...). L’azione del clero ha dei limiti che egli non può varcare, quando per difetto di mezzi, quando per limitazione di forme, e dove per ragioni di convenienza, dove per opposizione che gli è fatta. Il laico può trovarsi dove non può andare il prete; spesso una sua esortazione è meglio accolta che dalla bocca del prete (...). Anche i laicato ha il suo apostolato e, lasciatemi dir così, la sua missione apostolica[82]

 

 

«Ogni cristiano nasce apostolo»

 

Non tutti, è vero, siete chiamati come gli Apostoli a predicare il Vangelo, ma tutti siete obbligati con proporzione e conformemente al vostro stato, a zelare la causa della Religione, a sostenerne la difesa, a promuoverne la gloria, giacché ogni cristiano, scrive Tertulliano, nasce Apostolo, onde impedire che si accresca il partito dell’errore, si metta in desolazione il campo del divino Agricoltore, si facciano scismi e divisioni e cresca quella mortale freddezza, peggiore di morte, che impedisce l’attenzione ai propri doveri, alla pietà, alla parola di Dio, all’emendazione dei costumi, all’esercizio delle cristiane virtù (...).

Chi non sente la necessità di aver parte all’Apostolato per la difesa della verità e della Chiesa, segno è che non ha ricevuto i doni dello Spirito Santo, che non può rimanere ozioso quando entra in un cuore. Egli è uno spirito attivo, fecondo, pieno di efficacia e di virtù e chi lo ha dentro di sé parla volentieri di Dio e delle cose divine, è piene di zelo per istruire i suoi fratelli nelle verità della dottrina cristiana, si dichiara pronto sempre a morire per la causa di Gesù Cristo e della sua Chiesa[83].

 

 

«Non siete una vecchiezza che tramonta, ma una giovinezza che sorge»

 

Se può sembrar lontano il tempo che la società traviata torni al retto sentiero, voi specialmente, o buoni laici, cui la sociale apostasia desta ribrezzo ed orrore, cui il nome di Dio è nome di riverenza e di affetto, voi potete affrettare l’ora sospirata e disporre gli animi dei vostri fratelli al ravvedimento, professando voi al cospetto di tutti la fede vostra, gloriandovi del carattere di cristiani, raddoppiando di operosità e ascrivendo a vostro onore poter servire il Signore, poterlo glorificare nei vostri discorsi, negli scritti, nei vari incontri della vita.

Voi potete molto, giacché voi, come ben vi definì un insigne pubblicista, non siete una vecchiezza che tramonta, ma una giovinezza che sorge. Tocca a voi impadronirvi della società, rifarla cristiana, lavorando con larghezza di idee, con tenacia di propositi, affinché lo spirito cattolico si insinui dappertutto e investa tutto ciò che è parte ed elemento della vita intellettuale, morale, e spesso anche fisica dell’uomo.

Quanti insegnamenti, che per lagrimevoli pregiudizi tornano sospetti sulle labbra del clero, non fanno invece profonda impressione su quello del secolare! Quante porte, che rimangono chiuse davanti al ministro di Dio, non si spalancano invece davanti all’uomo del mondo, che potrebbe, volendo, recare con sé il tesoro inestimabile della fede! quanti modi di accostarsi ai fratelli, disingannarli, parlare degnamente di Gesù Cristo e della sua Chiesa, che avete voi per relazioni quotidiane indispensabili, che ai prete non si offrono o si offrono assai di rado. Quale apostolato non potrebbe essere il vostro in mezzo alla società, e quanto fecondo![84].

 

 

«Voi siete i sacerdoti della casa»

 

L’opera dei sacerdoti non potrebbe conseguire intieramente il suo scopo, se non venisse coadiuvata dai genitori. A voi pertanto, o padri, o madri, a voi che ne fate le veci, ancora una parola. Le labbra dei genitori, scrive S. Gregorio Magno, sono i primi libri dei figli. Sì, sta a voi educarli, come insegna l’Apostolo, nella disciplina e nella istruzione del Signore, cioè nella sua santa legge e nella sua dottrina evangelica.

Come fino dalle fasce li avvezzate a riverirvi, a farvi un saluto, una carezza, a balbettare colle loro infantili labbra il vostro nome; così dalle fasce avvezzateli ad unire le loro manine per salutare devotamente il Signore; a pronunciarne con rispetto il Nome santissimo, ad invocarlo, ad adorarlo in ogni luogo e ad unirsi a Lui coi vincoli della fede, della speranza e dell’amore (...).

Non lasciate poi occasione per istillare nel loro cuore sentimenti nobili ed elevati, per innalzare la loro mente a celesti pensieri. Sia un insegnamento il vostro che si divide e quasi si stempera in ogni azione, che non vestendo il severo apparato della cattedra, non  ne sente l'aridità e non ne infonde la noia, che sa farsi intendere e piacere al tardo come al facile ingegno, che donato da una parola, da un cenno, e fin da uno sguardo, da un sorriso, ha con    il  precetto insieme e gli stimoli a praticarlo.

L'istruzione religiosa è oggetto di ragione e di sentimento: la ragione è degli anni adulti, il sentimento è degli anni bambini, quindi la madre come quella in cui il sentimento predomina, è anche l'educatrice più amabile e più potente. I ricordi di una madre non si dimentican più.

O madri, o madri! giovatevi di questa dolce e sublime influenza di cui vi forniva  il Creatore; giovatevene per allevargli i figli degni di Lui e poterglieli offrire ogni giorno ostie vive e gradite. Voi siete i sacerdoti della casa, come il Sacerdote è la madre nella Chiesa. Tutte le vostre delizie siano nel formar Gesù Cristo nel cuore dei vostri figli. Raffaello si è immortalato dipingendo sulla tela i lineamenti di nostro Signore trasfigurato. Più felice e più grande la madre cristiana fa dei suoi figli immagini vive del Figliuolo di Dio. Più giustamente di un famoso pittore ella può dire: pingo aeternitati,  lavoro per l'eternità![85].

 

 

«In ogni fibra del corpo sociale fecero penetrare lo spirito di Gesù»

 

Vi stia davanti l'esempio degli avi (...). Anche riguardo alla vita pubblica essi diedero l'esempio di quello che dobbiamo far noi. Solleciti, come scrive un insigne apologista, più che della forma politica, della giustizia e santità delle leggi; persuasi che la religione, essenzialmente superiore ai civili partiti, dev'essere servita da tutti, non servire a nessuno; alieni del pari dalla presuntuosa arroganza che vuol che a suo senno si governi la Chiesa e dalla prudenza carnale, prodiga verso il mondo di concessioni e simulazioni colpevoli, veri seguaci del Redentore, veri discepoli del Vangelo, veri patrioti, essi in ogni fibra del corpo sociale fecero penetrare lo spirito di Gesù Cristo e crearono le stupende armonie del mondo cristiano e della cristiana civiltà.

Se quello spirito, o miei cari, abita realmente in voi, non può fare che non dia segni di vita, che non si traduca in azione. Dalla vostra anima deve passare ad altre anime, alla vostra famiglia, ai parenti, agli amici, ai servitori, ai commilitoni, ai condiscepoli, agli scolari, ai cittadini vostri, a tutto quel grande o piccolo mondo che vi circonda. Questo sacerdozio, questo apostolato laicale fu sempre un dovere e una gloria, oggi è assoluta, suprema, urgente necessità[86].

 

b) L’AZIONE DEL LAICO

 

«La forza laica della Chiesa di Cristo»

 

All'azione del clero deve andare armoniosamente congiunta l'azione del laicato (…). Contro la Chiesa laica di satana deve opporsi non solamente la forza sacerdotale, ma anche la forza laica della Chiesa di Cristo. È alle due forze insieme unite che Dio ha riserbato in ogni tempo la vittoria. Le porte dell'inferno, egli ha detto, non prevarranno contro la mia Chiesa giammai. Ora la Chiesa, nel suo completo significato, la Chiesa, diletta sposa del Nazareno, la Chiesa regno immortale del Dio vivente, la Chiesa corpo mistico di Gesù, non è costituita dai soli sacerdoti, né dai soli Vescovi, né dal Papa solo, ma dai Pastori insieme e dai fedeli, benché gli uni dagli altri dipendano.[87]

 

 

«Siate mediatori nostri»

 

Certamente non perirà la Chiesa per le presenti battaglie, come non è perita per quelle ben più formidabili di diciannove secoli, ma sarebbe un disconoscere l'economia della Provvidenza divina l'astenersi dal cooperare al suo trionfo, per questo che venne affidata al sacerdozio (...).

Gesù Cristo (...) potrebbe egli senz'altro difendere e conservare la sua Chiesa, ma per grande sua degnazione chiama gli uomini all'onore di esserne i cooperatori; chiama non solo il sacerdozio, ma anche il laicato; chiama uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, sapienti e illetterati.

Comprendete pertanto la nobiltà e grandezza della vostra missione, o laici, e fate di corrispondervi degnamente (...). Siate mediatori nostri, come noi siamo a vostro vantaggio mediatori di Dio (...). Che giova con interminabili geremiadi lamentare lo scadimento della fede, la corruzione del costume, l'universale disordine, se poi non vogliamo incomodarci per nulla, se nulla vogliamo fare per rimediarvi, se al momento della lotta abbandoniamo il campo e corriamo vilmente a nasconderci? E che! Non fummo tutti segnati in fronte col crisma della fortezza, tutti arruolati alla milizia di Cristo?[88].

 

 

«Ogni uomo è apostolo della verità»

 

Tutti i mezzi leciti per influire su questa società, la quale, cattolica nella sua maggioranza, è governata da una minoranza indifferentista e anticristiana, devono essere adoperati con coraggio, con costanza, con disciplina da tutti. Dico da tutti, perché sarebbe errore gravissimo il credere esser la difesa della religione debito esclusivo del clero, mentre invece è un dovere generale di tutti coloro che la professano.

La Chiesa che è il corpo mistico di Cristo, è un corpo morale, composto di molte membra, diverse sì le une dalle altre, ma tutte unite a formare un sol corpo, con tale conformazione e distribuzione che si giovano a vicenda e tutte contribuiscono alla vita, al vigore, alla sanità, alla conservazione del corpo stesso. Pertanto siccome è formata la Chiesa di clero e di laici, così non può stare il clero senza i laici, né questi senza del clero. No, la religione non è un patrimonio di cui il clero solo sia usufruttuario; essa è a vantaggio di tutti e quindi di tutti ne è la difesa (...).

Non v’è età, ufficio, o stato esente da questo dovere; come non v’è ufficio, età o stato escluso dai suoi beneficii. Quando al contrario la religione si dilegua e le coscienze si avviliscono e la libertà si spegne, è forse iattura del solo clero? non è forse anche il laicato e tutta insieme la società che ne risentono danni gravissimi? Inoltre, una fede la quale può mirare con occhio indifferente l’imperversare del male senza commoversi e che in mezzo alle bestemmie e agli scandali non sa trovare nel suo zelo altro migliore espediente che concentrarsi in se stessa per non perire, è una fede che forse ad altri potrà parer buona, ma che io, dico il vero, non so di che sorte sia. E poi la religione è la verità: debito di ogni uomo che possiede la verità è di propagarla, di farne parte a chi non la conosce e di difenderla con tutte le forze dell’animo quando è attaccata. In questo senso ogni uomo è apostolo della verità, come ogni uomo può esserne il martire[89].

 

 

«Laicato e Chiesa, due cose indissolubilmente sorelle»

 

Bello e consolante lo spettacolo che ne sta ora innanzi! a fianco dei sacri Pastori, e frammisti ad un’eletta di Sacerdoti, nei vediamo qui una schiera non meno eletta di laici, tutti animati dal desiderio del bene, tutti infiammati di nobile ardore per la più santa delle cause, qual è la causa della Chiesa (...).

Oggi, purtroppo, fra il laicato e la Chiesa, tra queste due cose, indissolubilmente sorelle, si è cercato di innalzare come un muro di divisione. Per meglio riuscirvi, che hanno fatto i seguaci dell’odierno liberalismo? Si sono studiati di attaccar odio alla Chiesa, dipingendola agli occhi del popolo coi più tetri colori. Tutti i nomi più cari e più santi furono da essi, dirò così, profanati e volti a significati abbominevoli per valersene appunto contro di lei. Il patriottismo, la libertà, la dignità umana, la scienza, la fratellanza, la eguaglianza, il progresso (nomi che sulle loro labbra suonano ironia e grondano sangue), furono chiamati a raccolta contro le persone e le cose e le istituzioni della Chiesa.

Orbene: conoscere, amare, obbedire questa Chiesa, interessarsi delle sue lotte e dei suoi trionfi, propagarne le dottrine, aiutarne i ministeri, tutelarne i diritti, ripararne i danni, confortarne i dolori, ecco, specialmente ai dì nostri, uno dei più grandi doveri dei cattolici, ecco a che debbono tendere gli sforzi, insieme uniti, del clero e del laicato[90].

 

 

«Vogliamo esser cristiani davvero»

 

Noi vogliamo esser cristiani davvero, cristiani di fede e di opere. Sacerdoti o laici, colti o indotti, ricchi o poveri, vogliamo unirci in una sola famiglia, ciascuno all’ombra del nostro tempio e tutti, quasi un cuor solo e un’anima sola, offrirci al Padre dei fedeli, al santo Vicario del Principe della pace e della giustizia, obbedienti e docili esecutori di tutto ciò che vuole e desidera per il bene inseparabile della religione e della patria.

Vogliamo essere uniti fra noi da veri fratelli, non solo nel tempio, ma anche fuori del tempio, per aiutarci e confortarci a vicenda, per zelare l’onore di Gesù Cristo ed estenderne il regno nelle famiglie, nelle scuole, nelle pubbliche amministrazioni, per assicurarci e godere, senza alterigia, senza brama di dominare, il diritto di quella vera libertà cristiana che deve essere uguale per tutti, e non l’assurdo privilegio di settarie combriccole.

Vogliamo difendere dai mali esempi e dalle perverse dottrine, dal malcostume e da ogni azione corrompitrice la povera gioventù a conforto delle loro famiglie, a vantaggio e decoro del paese.

Vogliamo la libertà della Chiesa, la libertà del nostro Capo, la libertà del nostro culto, la libertà del lavoro, la libertà di santificare la festa, la libertà di esercitare i nostri diritti più sacri, la libertà insomma dei figliuoli di Dio[91].

 

 

«Vastissimo è il campo del laicato oggi»

 

Vastissimo è il campo del laicato oggi. Promuovere, aiutare, diffondere la buona stampa; unirsi in Comitati e Società cattoliche, e queste organizzare; richiedere senza tregua la istruzione religiosa nelle scuole e il riposo festivo; concorrere, fin dove è lecito, al governo della cosa pubblica, mediante l’intervento alle elezioni amministrative; combattere ov’è necessario, con la parola e coi fatti, la deleteria influenza dell’abito massonico, infiltratosi ormai dappertutto; mandare a spasso, quando se ne presenti l’occasione, quei prepotenti, quei vili che nei Municipi osano talvolta offendere i sentimenti più delicati di un popolo, permettendo che se ne oltraggi la fede e se ne calpestino i diritti più sacri, le tradizioni più care; raccogliere i giovani al prime sbocciar della vita negli Oratori festivi e nelle scuole cristiane, preservandoli così dalla corruzione del mondo; venire in aiuto all’augusta povertà del Comun Padre coll’obolo dell’amor filiale; con quello dei chierici poveri rifornire di nuovi ministri il Santuario; con istituzioni di credito estirpare l’usura e sovvenire ai bisogni della classe specialmente operaia; reclamare calmi, prudenti, nelle vie regali, ma forti, ma coraggiosi, ma senza titubanza, la libertà e l’indipendenza vera e reale del Sommo Pontefice, nostro capo e nostro padre, nel modo voluto da lui che ne è il solo giudice... sono tutte opere, una più necessaria e meritoria dell’altra, che valgono a confondere i nemici della fede, ad alimentare in noi la fiamma della divina carità e a mostrarci veramente, quali dobbiamo essere, degni figli della Chiesa di Gesù Cristo[92].

 

c) LA CONFESSIONE DELLA FEDE

 

«Io non mi vergogno del Vangelo»

 

Nelle cose di religione, trattisi di domma o di morale, di precetti e di consigli, di leggi di Dio o della Chiesa, di culto o di gerarchia, del Papa, dei Vescovi, o del minor sacerdozio, non solo il nostro linguaggio, ma la nostra vita dev’essere come un grido, che dica alla terra: Io non mi vergogno del Vangelo (...).

È l’ora di professare e praticare a viso aperto la nostra fede. È l’ora di dare opera vigorosa alla rigenerazione cristiana del popolo, illuso e irritato dalle bugiarde promesse di chi, in luogo di benessere e di ricchezza, non gli ha dato che umiliazioni e miseria. È l’ora di circondarlo della nostra carità, in nome di Gesù Cristo, perché non porga l’orecchio a bugiarde dottrine e a promesse ancor più fallaci. È L’ora di schierarci compatti attorno al nostre Duce Supremo, il Vicario di Gesù Cristo[93].

 

 

«Forse che il martirio non è per noi?»

 

Forseché il martirio non è per noi? Lo Spirito Santo dice ad ognuno nelle divine Scritture: agonizza per l'anima tua e sino alla morte combatti per la giustizia. Questa giustizia è la verità di Cristo, dalla quale coloro che si dipartono, pensano cose ingiuste, e facendosi operatori di iniquità, incorrono l'odio eterno di Dio (…).

Per questa verità bisogna combattere strenuamente fino all'agonia e alla morte. E un'ora di questa agonia nella vita, o tosto o tardi, suona per tutti. Non fosse altro, dice un Dottore, l'assidua lotta dello spirito colla carne, il dolore di un'anima che è talora avvinta dalla terra come schiava, dal cielo ributtata indegna, è agonia, è martirio; e l'avere il coraggio dei proprii convincimenti, il portare una vita cristiana davanti a un mondo che ride, perché non ha il coraggio di credere, è un che vicino al martirio[94].

 

 

«Abbiamo a prendere apertamente partito per Dio»

 

Tanti si conservano cattolici ma per pusillanimità tengono nascosta la loro fede. Non condanniamoci al silenzio quando si bestemmia il nome tre volte santo di Dio e si schernisce il nostro Padre comune, il Romano Pontefice. Non siamo di quei cattolici di cui scriveva il profondo Pascal: indecisi per timidezza, indulgenti per calcolo, non si saprebbe bene ciò che essi pensino.

È giunto il tempo delle grandi affermazioni. Non siamo noi i figli degli eroi e dei martiri? non siamo noi gli eredi di quella fede che resisteva ai tiranni e ai manigoldi? Non professiamo noi quella fede che ha vinto il mondo? Se è insegnamento di questa fede che quaggiù siamo in continua lotta coi nemici spirituali, non lo saremo coi nemici della religione? Se l’amor della religione deve armarci a instancabile difesa di lei, il primo e più facile atto di difesa è il mostrarsi senza timore e senza ostentazione, con parole e con fatti, religiosi[95].

 

 

«Il coraggio del bene»

 

L’ora è suonata di mostrare ai figli del secolo, che proclamansi liberi, qual sia la vera libertà e in che consista. Che se la vita del cristiano è sempre una milizia, che sarà ai dì nostri? Noi possiamo illuderci quanto vogliamo, ma la guerra, ed una guerra quanto mai insidiosa e feroce arde oggi da un capo all’altro del mondo contro il cattolicismo (...). Tocca a noi, figliuoli della vera Chiesa di Cristo, il sostenere intrepidi questo combattimento, preclaro e santo per eccellenza: il manifestare allo sguardo degli amici e dei nemici tutta la forza e l’entusiasmo del coraggio cattolico, la forza e il coraggio di un popolo raggiante di tutto lo splendore della fede e della speranza cristiana.

Ah, il coraggio del male l’hanno i tristi sino all’impudenza, e solo ai buoni il coraggio del bene farà difetto? L’avranno essi a perdersi, non noi per salvarci? Quelli saranno pronti alla rovina della gioventù, noi, per educarla cristianamente, timidi e peritosi? Rinunciano quelli ad ogni riguardo, calpestando le onorate abitudini, le leggi, la coscienza, la volontà di tutto un popolo; e noi, inondati dalla luce divina di diciannove secoli, sostenuti da quanto di vero e di buono si accoglie in terra, noi benedetti e incoraggiati dal Cielo, noi sicuri dell’immortale corona trepideremo? (...).

Voi soprattutto, o giovani, cara speranza della Chiesa e della patria, non dimenticate giammai che le lotte e i trionfi debbono incominciare dal vostro cuore. Il vostro cuore è il primo campo in cui si suscitano e si preparano le grandi questioni, i più sacri interessi della Chiesa, della famiglia, del civile consorzio (...). Non vi lasciate sedurre dalle ciance di un mondo che ride perché non ha il coraggio di credere. Fuggite gli apostoli dell’errore, come fuggireste alla vista di un aspide velenoso. Approfondite con lo studio i principii della nostra religione santissima, abbiate la scienza della fede, siate credenti per convinzione profonda e allora nulla potranno contro di voi le seduzioni tutte del secolo. Vincitori voi stessi leverete allora sempre più in alto il vessillo della cristiana verità, non temerete altro che Dio e sarete veramente liberi[96].

 

 

«Abbiate l’energia delle vostre convinzioni»

 

L’energia, ecco ciò che manca nei più ai giorno d’oggi. L’energia non è punto la fermezza, poiché questa può essere anche una forza inerte; l’energia non deve punto confondersi con la fedeltà e la costanza, poiché essa è causa, non effetto, di queste due virtù. L’energia non è punto la violenza, poiché la violenza si esaurisce in uno sforzo passeggero e sterile. L’energia è la forza dell’anima e della volontà, ma una forza che resiste e che progredisce, che sostiene tutti gli assalti e che vince tutti gli ostacoli: è una virtù conquistatrice.

In mezzo alle lotte più ardenti, essa si mantiene nei limiti precisi della verità; essa domina e dirige con autorità calma e sovrana tutte le facoltà dell’intelligenza e tutti gli slanci del cuore. È l’energia che crea le grandi imprese (...).

Abbiate anche voi questa energia; l’energia anzitutto delle vostre convinzioni. Quando uno ha dietro a sé diciannove secoli di luce, di gloria e di beneficenze; quando uno dietro a sé ha un esercito invincibile di apologisti e di dottori, la scienza e il genio, la castità e il sacrifizio, gli apostoli, i martiri; quando, oggi ancora, la Chiesa riempie di tante opere maravigliose la terra, oh, è ben certo di parlare e di operare con Santa indipendenza e con nobile fierezza! Si ha ben diritto di guardare in faccia l’errore, senza impallidire!

Abbiate energia contro le passioni. Anche queste possono riuscire strumenti efficaci di bene, se noi sappiamo frenarle e dirigerle mediante l’energia della volontà. È la folgore che tutto schianta e distrugge nel suo passaggio, ed è la folgore che, diventata docile nella mano della scienza, va a portare attraverso l’oceano il pensiero dell’uomo colla rapidità del lampo.

Avete dell’attività e dell’ardore? venite. Il campo da percorrere non è che troppo vasto. Leggo il vostro programma, Signori: organizzazione dei cattolici nell’Emilia; azione cattolica; atti di religione e di culto; stampa; scuole ecc. Vi prende ambizione? Indirizzatela alla conquista di tutto ciò che è bello, di tutto ciò che è buono, di tutto ciò che è vero. Sì, vi è un’ambizione santa: è quella che ci grida continuamente: più alto! più alto ancora! più alto nella fatica, più alto nella virtù, più alto nel sacrifizio, più alto nell’influenza rigeneratrice! più alto! excelsior, excelsior!

Abbiate l’energia dell’apostolato, ché ogni cristiano deve appunto essere apostolo. Come possedere la verità, vederla, sentirla, amarla, e non sentire prepotente il bisogno di diffonderla, di comunicarla agli altri?

Abbiate l’energia che sa resistere nell’ora della prova e del combattimento, ché ogni cristiano deve appunto essere soldato (...). Combattete da forti, ma insieme con carità. Gli avversari, dirò con un insigne scrittore moderno, per quanto maligni, appartengono ancora all’architettura del bene e se Dio vibra dei colpi gagliardi, si muteranno. Recate la vostra mano nel santuario del cuore; scorretene ad una ad una tutte le fibre: troverete anche la fibra dell’amore. Toccatela colla cortesia che è sorella della carità; quella fibra si muoverà e voi avrete conquistato un’anima immortale, e curvato allo scettro della verità un nuovo cuore. La verità cristiana, ricordatelo sempre, vuole al suo servizio non già uomini che uccidono, ma che salvino; non richiede carnefici, ma vittime. Pensate che l’Apostolo descrivendo l’armatura del soldato cristiano gli dà i calzari, che egli chiama preparazione del Vangelo di pace. Nella scuola di Gesù Cristo combattere e vincere è amare. Amore è trionfo, l’odio sconfitta[97].

 

 

«Il carattere, che produce la fermezza e il coraggio»

 

Il più bel pregio dell'uomo nel consorzio civile è il carattere, frutto di convinzioni profonde; il carattere che produce alla sua volta la fermezza e il coraggio nel far palesi a fronte alta e in faccia a chicchessia, quando occorra, la propria opinione. Brutta piaga dell'età nostra è purtroppo la mancanza di questo carattere, onde spesso gli uomini non s'intendono fra loro, perché, veri camaleonti, cambiano idee, opinioni, linguaggio, a seconda delle persone che avvicinano (…). E' ora di finirla con le mezze coscienze e le codarde paure. O perché non useremo anche qui di tutta la libertà nostra?[98].

 

 

«È tempo di scuoterci, è tempo di agire»

 

A noi quanti siamo, per divina misericordia, credenti, l’adoperarci per salvare da maggiori rovine la società e la patria, tanto più che anche noi, diciamolo francamente, non siamo senza colpa. Fummo troppo lungamente deboli, incerti, quasi paurosi del mirar fosco e dell’andar pettoruto degli audaci demolitori di quella fede, che ci doveva esser cara più della vita; e, se non bruciammo l’incenso ai loro idoli, ci nascondemmo e li lasciammo padroni di nuocere e di vuotare le casse.

È tempo di scuoterci, è tempo di agire (...). Chi, in tanta febbrile attività dei malvagi, si tiene in disparte, è un traditore, un codardo. L’Evangelo è pieno di allegorie, di precetti, di rampogne, di anatemi contro l’ignavia degli infingardi e la sterilità delle anime oziose, e nessun vizio vi è più spesso e con tanta forza sfolgorato come questo.

Che giova, dirò a costoro, il muovere continui lamenti sui mali che vi affliggono, se poi nulla fate per porvi rimedio? Giova ad una cosa sola: a rendere più baldi i nostri nemici, i quali ravvisano in ciò la vostra pusillanimità, la vostra debolezza. Non sapete che i fatti di un’epoca hanno d’ordinario le loro radici nell’epoca anteriore, che l’ordine dei fatti tien dietro all’ordine delle idee, e che, per conseguenza, se vogliamo un miglior avvenire, dobbiamo fin d’ora prepararcelo? (…).

Non è bontà, non è fede, ma condannabile presunzione quella di tutto aspettare dai miracoli. Il vero fedele crede sì ai miracoli, ma sa benissimo che questi non sono i mezzi ordinari coi quali Iddio governa il mondo, crede ai miracoli, ma è ben persuaso che questi non si opereranno mai da Dio né a soddisfare la vana curiosità degli sciocchi, né a premiare l’inerzia e l’infigardaggine di nessuno[99].

 

 

«La società cristiana non respinge i Nicodemi, ma vuole il fuoco di Pietro»

 

I timidi e i pusillanimi si facciano robusti, poiché la società cristiana non schiaccia gli imbelli, ma ha bisogno di leoni, non respinge i Nicodemi, ma vuole il fuoco di Pietro (...). Se tutti insomma quelli che sono cattolici di dentro, tali si mostrassero coi fatti, chi non vede che il bene principierebbe a cozzar alla pari col male e i diritti della massima porzione dei cittadini sarebbero più apprezzati da quelli ancora da cui, diciamolo pure, i cattolici si sono lasciati sopraffare? Ebbene, sia questo il compito vostro: operare il bene unitamente, francamente e coraggiosamente[100].

 

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1 Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 8-10.

2 Omelia di Pasqua, 1879 (AGS 3016/4).

3 Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, pp. 17-18.

4 Omelia di Pasqua, 1880 (AGS 3016/4).

5 Id., 1893.

6 Omelia di Pentecoste, 1879 (AGS 3016/6).

7 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 38-40.

8 Lett. Past. (.,.) 3 Novembre 1881, Piacenza 1881, pp. 23-25.

9 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 25-27.

10 Ibid., pp. 35-36.

11 Omelia di Ognissanti, 1886 (AGS 3016/8).

12 Il Concilio Vaticano, Como 1873, pp. 115-117.

13 Omelia di Ognissanti, 1886 (AGS 3016/8).

14 Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1879, Piacenza 1879, pp. 17-18. È da notare che nell’epoca «religione cattolica» e «vera fede» erano puri sinonimi.

15 Omelia di Ognissanti, 1897 (AGS 3016/8).

16 Ibid.

17 Il Concilio Vaticano, Como 1873, pp. 119-120.

18 Omelia di Pentecoste, 1898 (AGS 3016/6).

19 Omelia di Ognissanti, 1897 (AGS 3016/8).

20 Per l’inaugurazione del Tempio del Carmine in Piacenza, 17.2.1884 (AGS 3018/2). La citazione latina è tratta da S. Agostino.

21 Pel suo ritorno da Roma, Piacenza 1882, pp. 21-22.

22 Cattolici di nome e cattolici di fatto, Piacenza 1887, pp. 15-16. Lo Scalabrini definisce «nuovo liberalismo» l’atteggiamento degli «intransigenti» oltranzisti (cfr. Biografia, pp. 677-680).

23 Ibid., pp. 16-20. L’Autore deplora il «sistema» degli «intransigenti» più radicali, che tacciavano di eterodossia o di disobbedienza i «rosminiani» e i «conciliatoristi» che da loro dissentivano in materie opinabili.

24 Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, p. 18.

25 Ringraziamenti, Piacenza 1901, p. 5.

26 Il santo giubileo, Piacenza 1886, pp. 20-2 1. Ancora una volta l’Autore deplora le violente polemiche degli «intransigenti» e il loro tentativo di fatto, di «scavalcare» l’autorità dei vescovi col pretesto di salvaguardare quella del Papa.

27 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 45-46.

28 Al venerabile clero e dilettissimo popolo, Piacenza 22.9.1894.

29 Omelia di Natale, 1876 (AGS 3016/1).

30 Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 14-15.

31 Il Concilio Vaticano, Como 1873, pp. 214-215.

32 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 10-13.

33 Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, pp. 16-17. Alcuni «intransigenti» rimproveravano a Leone XIII di avere abbandonata la rigida politica che Pio IX aveva adottato contro il governo italiano.

34 Lett. a G. Bonomelli, 23.5.1883 (Carteggio S.B., p. 126). Il «partito» era quello degli «intransigenti» più radicali. «Quel tal programma»: «Piangendo i mali della Chiesa, mi darò interamente all’orazione ed all’esercizio del sacro ministero, facendo da me ciò che stimerò opportuno al bene delle anime e non mi curando di altro che di prepararmi alla morte» (Id., 19.9.1882. Ibid., p. 71).

35 Id., 6.5.1891 (ibid., pp. 284-285).

36 Id., gennaio 1886 (ibid., p. 191). La massima è di Antonio Rosmini.

37 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 14-15.

38 Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 31-32.

39 Ibid., pp. 18-19. La Lettera Pastorale fu scritta in occasione dello «scisma del Miraglia» (cfr. Biografia, pp. 872-905).

40 Lett. Past. del 23.1.1878, pp. 1-5. La Lettera fu scritta dopo l’assalto che il vescovo subì dagli anticlericali per aver obbedito agli ordini della S. Sede in occasione dei funerali di Vittorio Emanuele II (cfr. Biografia, pp. 624-628).

41 Ibid., pp. 5-7.

42 La Chiesa Cattolica, Piacenza 1888, pp. 30-31.

43 Cattolici di nome e cattolici di fatto, Piacenza 1887, pp. 24-25. L’Autore sostiene, contro gli  «intransigenti», che il primo «diritto» della Chiesa è la carità.

44 Ibid., p. 27.

45 Parole dette in occasione del disastro dell’isola d’Ischia, 4.8.1883 (AGS 3018/23).

1 Discorso sul SS. Crocifisso, 1880 (AGS 3017/3).

2 Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima dell’anno 1893, Piacenza 1893, pp. 13-14.

3 Obolo di S. Pietro, Bologna 1900, pp. 5-8 (Lettera collettiva dei vescovi emiliani, redatta da Mons. Scalabrini).

4 Il Concilio Vaticano, Como 1873, pp. 172-173.

5 Omelia di Pentecoste, 1900 (AGS 3016/6).

6 Al Venerabile Clero e Dilettissimo Popolo della Città e della Diocesi, Piacenza 1878, p. 5.

7 Lett. a Leone XIII, 15.2.1879 (AGS 3019/2).

8 Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1879, Piacenza 1879, p. 5.

9 Atti e documenti del Primo Congresso Catechistico..., Piacenza 1890, p. 238.

10 Omelia di S. Pietro, 1899 (AGS 3016/7).

11 Sull’Opuscolo La Lettera dell’E.mo Card. Pitra - I commenti - La parola del Papa, Piacenza 1885, pp. 20-21

12 Lett. a Pio IX, 5.4.1876 (AGS 3019/1) (trad. dal latino).

13 Lett. a Leone XIII, 27.3.1893 (AGS 3019/2).

14 Lett. Past. (...). 15 Agosto 1895, Piacenza 1895, pp. 6-7.

15 Ibid., pp. 11-12.

16 Lett. a Leone XIII, 21.1.1901 (ASV-SS, Rub. 3/1901, fasc. 3, Prot. N. 61381).

17 L’elezione del nuovo Pontefice Pio X, Piacenza 1903, pp. 5-6.

18 La prima Lettera Enciclica di Sua Santità Pio X, Piacenza 1903, pp. 6-7.

19 Spirito di allegrezza, Piacenza 1878, pp. 4-5.

20 Universo Nostro Clero, Piacenza 1888, pp. 3-4 (trad. dal latino). La Lettera fu scritta in occasione del decreto Post Obitum, che condannava 40 proposizioni del Rosmini (cfr. Biografia, pp. 707-722). I preti piacentini erano divisi in «tomisti» e «rosminiani» (cfr. ibid., pp. 696-702).

[1] Prima Lettera Pastorale, Como 1876, pp. 1-2.

[2] Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 19-20.

[3] Lett. Past. (...) per la Visita Pastorale, Piacenza 1876, pp. 5-7.

[4] Discorso per il giubileo episcopale di Mons. G. Bonomelli, Cremona 1896, pp. 7-8.

[5] Ibid., pp. 8-10.

[6] Ibid., pp. 12-14.

[7] Per la consacrazione di Mons. Angelo Fiorini, 26.11.1899 (AGS 3018/4).

[8] Lett. a G. Bonomelli, 10.6.1892 (Carteggio S. B., p. 297). Leone XIII aveva minacciato di togliere al Bonomelli il governo della diocesi di Cremona.

[9] Id., 2.3.1893 (ibid., pp. 102-103). Il «povero Arcivescovo», umiliato da D. Davide Albertario, era Mons. Luigi Nazari di Calabiana, di Milano (Cfr. Biografia, pp. 553-554).

[10] Id., 14.1.1893 (ibid., p. 88). Il «noto giornale» è «L’Osservatore Cattolico» di Milano (cfr. Biografia, pp. 551-553).

[11] Lett. al Card. G. Simeoni, 14.1.1889 (AGS 3/1). L’«opuscolo» è Il disegno di legge sulla emigrazione italiana, in cui lo Scalabrini richiede al governo l’esenzione dei chierici aspiranti missionari dal servizio militare in cambio di un «servizio civile» di 5 anni, da compiere facendo scuola agli emigrati.

[12] Ibid. «L’Osservatore Cattolico» aveva insinuato che lo Scalabrini aveva mandato il fratello prof. Angelo a ispezionare la situazione religiosa delle collettività italiane all’estero (cfr. Biografia, pp. 34-35).

[13] Prima Lettera Pastorale, Como 1876, pp. 2-3.

[14] Discorso per il giubileo episcopale di Mons. G. Bonomelli, Cremona 1896, pp. 14-15.

[15] Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 42-44. La “pietra di scandalo” era il prete apostata D. Paolo Mi­raglia (cfr. Biografia, pp. 872-905).

[16] Discorso per il giubileo episcopale, 1901 (AGS 3018f13).

[17] Sull’Opuscolo La Lettera dell’E.mo Card Pitra - I commenti - La paro­la del Papa, Piacenza 1885, pp. 13-14. L’opuscolo deplorato dallo Scalabrini sosteneva gli “intransigenti” estremisti, che pretendevano di essere l’unica voce “cattolica” e facilmente tacciavano d’eresia i loro avversari.

[18] Ibid., pp. 18-20.

[19] Lett. al Card. A. Agliardi, s.d. (AGS 3020f2). Il Card. Wlodinsir Czacki di solito manifestò idee concordanti con quelle dello Scala­brini. Il “giornalismo” era quello di Albertario, Des Loux, Nocedal, ecc. L’“opuscolo” sarà pubblicato nel 1899 col titolo: Il socialismo e l’azione del clero.

[20] Lett. a Leone XIII, 16.8.1885, pubblicata in Leonis XIIL Epistola ad Archiepiscopum Parisiensem, Roma 1885, pp. 144-145. Con la Lette­ra al Card. Guibert, arcivescovo di Parigi, Leone XIIL aveva con­dannato gli eccessi del giornalismo più intransigente (cfr. Biografia pp. 580-581).

[21] Sull’Opuscolo La Lettera dell’E.mo Card. Pitra - I commenti - La parola del Papa, Piacenza 1885, pp. 21-22.

[22] Ibid., pp. 17-18.

[23] Obbedienza, unione, disciplina (AGS 3018f20): è una bozza prepa­rata dallo Scalabrini per una Pastorale collettiva dell’episcopato emi­liano.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Discorso per il giubileo episcopale di Mons. G. Bonomelli, Cremona

1896, pp. 10-11.

[27] Omelia di Natale, 1885 (AGS 3016f1). Nel 1885 gli Evangelici Me­todisti avevano aperta una chiesa a Piacenza.

[28] Cattolici di nome e cattolici di fatto, Piacenza 1887, pp. 2 1-22. L’Au­tore difende qui il Bonomelli, accusato di “liberalismo” perché auspi­cava la conciliazione tra la S. Sede e lo Stato italiano (cfr. Biografia, pp. 679-682).

[29] Ibid., pp. 23-24. È qui citato M. Salzano, il Cattolicismo nel secolo XIX.

[30] Lett. al Card. M. Rampolla, 17.7.1893 (ASV-SS, Rub. 3f1893, fasc.1, Prot. N. 13276).

[31] Lett. a Leone XIII, 19.11.1881 (Carteggio SB., pp. 39-40). Per “ri­voluzione nella Chiesa” lo Scalabrini intendeva la violazione del “principio gerarchico”, cioè dell’autorità del vescovo, in dipendenza dal Papa e non da sacerdoti o laici, sulla diocesi (cfr. Biografia, pp. 524-53 1).

[32] Omelia di S. Pietro, 1898 (AGS 3016f7).

[33] Discorso all’Accademia per il giubileo episcopale, 1901 (AGS 30 19f2).

[34] Lett. a Leone XIII, 28.4.1903 (AGS 3019f2).

[35] Elogio funebre di Mons. Angelo Bersani Dossena vescovo di Lodi, 1887 (AGS 3018f7).

[36] I diritti cristiani e i diritti dell’uomo, Bologna 1898, pp. 3-4 (Lettera Pastorale collettiva dell’episcopato emiliano, redatta dallo Scalabri­ni).

[37] Lett. a G. Bonomelli, 22.9.1881 (Carteggio SB., p. 16). “L’Osser­vatore Cattolico” s’era ingerito indebitamente in un affare interno della diocesi di Piacenza, quale la destituzione del rettore del semi­nario can. Savino Rocca per motivi disciplinari (cfr. Biografia, pp. 495-503).

[38] Lett. a Leone XIII, 26.9.1881 (AGS 3019f2).

[39] Lett. a G. Bonomelli, agosto 1882 (Carteggio SB., p. 64). Mons. Guindani era vescovo di Bergamo.

[40] Id., 11.9.1881 (ibid., p. 14).

[41] Id., 28.4.1890 (ibid., p. 267). Le “censure dell’Inquisizione” erano state preannunciate per le “note” del Bonomelli ai libri del Mon­sabre, da lui tradotte in italiano, ma furono scongiurate dallo Scala­brini (cfr. Biografia, pp. 759-765).

[42] Id., 19.9.1882 (ibid., p. 70).

[43] Id., 22.11.1881 (ibid., p. 35).

[44]Prima Lettera Pastorale, Como 1876, p. 4.

[45] Unione colla Chiesa, obbedienza ai legittimi Pastori, Piacenza 1896, pp. 22-23.

[46] Il prete cattolico, Piacenza 1892, pp. 20-21.

[47] Ibid., pp. 15-16.

[48] Ibid., pp. 16-17.

[49] Discorso al clero nella congregazione dei casi di coscienza, 1877 (?) (AGS 3018/1) (trad. dal latino).

[50] Il prete cattolico, Piacenza 1892, p. 25.

[51] Circolare del 7.2.1898, Piacenza 1898, pp. 22-23.

[52] 3° discorso del 2° Sinodo, 4.5.1893. Synodus Dioecesana Placentina Secunda..., Piacenza 1893, p. 195 (trad. dal latino).

[53] Ibid., pp. 195-196.

[54] Il prete cattolico, Piacenza 1892, pp. 37-38.

[55] 2° discorso del 2° Sinodo, 3.5.1893. Synodus Dioecesana Placentina Secunda..., Piacenza 1893, pp. 179-180 (trad. dal latino).

[56] Ibid., pp. 180-181.

[57] Ibid., pp. 181-182.

[58] 3° discorso del 3° Sinodo, 30.8.1899. Synodus Dioecesana Placentina Tertia..., Piacenza 1900, p. 248 (trad. dal latino).

[59] Ibid., pp. 248-249.

[60] Ibid., pp. 249-250.

[61] Ibid., p.251.

[62] Il prete cattolico, Piacenza 1892, p. 32.

[63] Fede, vigilanza, preghiera, Piacenza 1899, p. 17.

[64] 3° discorso del 3° Sinodo, 30.8.1899. Synodus Dioecesana Placentina Tertia..., Piacenza 1900, p. 255 (trad. dal latino).

[65] Ibid., pp. 253-254

[66] Ibid., pp. 252-253.

[67] Traduzione parziale delle Monitiones fatte dal vescovo nel 3° Sinodo (ibid., pp. 204-216).

[68] 3° discorso del 2° Sinodo, 4.5.1893. Synodus Dioecesana Placentina Secunda..., Piacenza 1893, pp. 187-188 (trad. dal latino).

[69] Ibid., pp. 185-186.

[70] Ibid., pp. 189-190.

[71] Ibid., p. 191.

[72] Opera di S. Opilio, Piacenza 1892, pp. 10-11.

[73] Ibid., pp. 13-14.

[74] Ibid., pp. 19-20.

[75] Ibid., pp. 14-15

[76] Ibid., pp. 7-9

[77] Lett. a G. Bonomelli, 14.10.1897 (Carteggio S.B., p. 342).

[78] Lett. a Mons. G. Marinoni, 27.3.1882 (Archivio del Pontificio Istituto Missioni Estere, Milano).

[79] Per l’inaugurazione del Tempio del Carmine in Piacenza, 17.2.1884 (AGS 3018/2). Il pensiero dello Scalabrini sui «re1igiosi» si può ricavare dalla Parte V, «La vita religiosa».

[80] Seduta I annuale dei Comitati parrocchiali (1882?) (AGS 3018/18).

[81] Panegirico di S. Colombano, 9.9.1894 (AGS 3017/4).

[82] «Il Catechista Cattolico», 1901, v. I, pp. 257-258.

[83] Omelia di Pentecoste, 1876 (AGS 3016/6).

[84] Unione, azione, preghiera, Piacenza 1890, pp. 8-10.

[85] Educazione cristiana, Piacenza 1889, pp. 31-33.

[86] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima dell’anno 1893, Piacenza 1893, pp. 21-23.

[87] Azione Cattolica, Piacenza 1896, pp. 16-17.

[88] Ibid., pp. 18-20.

[89] Per l’inaugurazione dei Comitati diocesano e parrocchiali, 18.4.1881 (AGS 3018/18).

[90] Apertura IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 11.6.1897 (AGS 3018/18).

[91] Chiusa IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 12.6.1897 (AGS 3018/18).

[92] Apertura IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 11.6.1897 (AGS 3018/18).

[93] Chiusa IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 12.6.1897 (AGS 3018/18).

[94] Pel solenne riconoscimento delle reliquie dei SS. Antonino e Vittore, Piacenza 1880, pp. 29-30.

[95] Per l’inaugurazione dei Comitati diocesano e parrocchiali, 18.4.1881 (AGS 3018/18).

[96] Discorso nella festa di S. Antonino, 1893 (AGS 3017/5).

[97] Parole per la II Adunanza regionale dei Comitati cattolici, 24.4.1889 (AGS 3018/18).

[98] Come santificare la festa, Piacenza 1904, p. 33

[99] Apertura IV Adunanza regionale dell’Opera dei Congressi, 11.6.1897 (AGS 3018/18).

[100] Per l’inaugurazione dei Comitati diocesano e parrocchiali, 18.4.1881 (AGS 3018/18).