PARTE I

 

UOMO DI DIO E PER DIO

 

 

1.         CRISTO ALFA E OMEGA

 

 

Cristo è tutto: divinità e umanità, trascendenza e immanenza, causa e fine di tutto il creato, centro del mondo visibile e invisibile, prima sorgente e termine ultimo della nostra vita, la Via, la Verità, la Vita. Dio è amore: con un unico atto di amore abbraccia Cristo e gli uomini, unificando l’umanità nel Figlio. Cristo è il Dio diventato «nostro», per farci «suoi». Noi siamo una «estensione» di Cristo. La vita cristiana è Cristo che vive in noi. L’«imitazione di Cristo» è vivere da membri del Capo che ricapitola in sé tutte le cose: è amare diventando simili.

Cristo è l’Emmanuele: nell’Eucaristia il Verbo incarnato «si estende» in noi, è vita della Chiesa e dei suoi membri, cibo che alimenta l’uomo nuovo, viatico del pellegrinaggio terreno, divinizzazione della creatura umana, germe della vita eterna. La pietà eucaristica è l’essenza della pietà cristiana: la partecipazione al sacrificio e al sacramento, l’adorazione, la riparazione ci rendono partecipi del sacerdozio eterno di Cristo.

Cristo è morto in croce per nostro amore. Il suo sacrificio domanda il sacrificio nostro. Per con-risorgere dobbiamo con-morire: è il significato della penitenza cristiana, che ci spoglia dell’uomo vecchio per rivestirci dell’uomo nuovo secondo Cristo. Solo la Croce redime e salva. Il cristiano vi trova la sua gioia: fac me cruce inebriari!

 

 

 

 

 

a) IL DIO IN NOI: RICAPITOLARE TUTTO IN CRISTO

 

«È il Verbo di Dio, l’Alfa e l’Omega, il Messia»

 

Chi è Gesù Cristo? Egli è l’Alfa e l’Omega, il principio ed il fine (Apoc. I, 8). Egli anteriore a tutti, il primogenito e principe d’ogni creatura (Coloss. I, 15). Egli l’erede, il centro del mondo visibile e invisibile (Heb. 1, 2), il compendio dei secoli (Heb. XIII, 8). Senza la luce che sfolgora da Lui tutto è caligine; senza l’opera di Lui, l’ordine della natura e della grazia, l’uomo e il mondo, il passato e il futuro sono un libro chiuso a sette sigilli (Apoc. V, 1)[1].

 

 

«Il centro della creazione»

 

Gesù è il centro comune della creazione; è l’anello prezioso che unisce l’opera dell’Onnipotente al Creatore divino; è la meta di tutte le opere e dei disegni tutti della Provvidenza; è la ragione suprema, ultima di tutte le mire di Dio nella umanità redenta di cui è capo; è la norma di tutti i nostri progressi, essendo la sola vera luce, che illumina ogni uomo, e quindi l’intiera umanità[2].

 

 

«Il Verbo di Dio si è fatto carne e pose stanza fra noi»

 

Mistero grande, mistero ineffabile, mistero dolcissimo! Vuol dire adunque che il Verbo di Dio si è fatto carne e pose stanza fra noi (Jo. 1, 14), che la divinità si è unita alla umanità e che l’Invisibile è apparso visibile, l’Onnipotente si è reso debole, l’Eterno ha cominciato ad essere, l’Immenso si è limitato, divenuto ciò che non era senza cessare di essere ciò che era (Philip. II, 6). Vuol dire che se un tempo le nazioni temevano al solo nome di divinità, noi abbiamo un Dio che non vuol essere temuto, ma amato (Ad Rom. VIII, 15). Perciò depone la gloria; occulta la maestà, spogliasi di ogni apparato di grandezza per non comparire altro che uomo (Philip. II, 7).

Esso è Colui che abita nell’altezza dei cieli, che passeggia sulle ali dei venti e che misura d’un guardo la terra, Egli è Dio (Jo. I, 1); ma teme quasi di comparirlo e pare che si studi di non lasciar apparire di Sé che la sola umanità per rendere affatto popolare la sua clemenza (Tit. III, 4)[3].

 

 

«In lui siamo involti dal Padre in un solo atto di amore»

 

Iddio ama il suo Figliuolo e lo ama essenzialmente ed è impossibile che si compiaccia in altri che in Lui, perché l’amore di Dio è infinito e non può avere altro oggetto che un oggetto infinito: Hic est Filius meus dilectus in quo mihi bene complacui (Matth. XVII, 5). Ma quel Figliuol suo diletto si è fatto uomo. Dunque in lui ama l’uomo. Con una sola compiacenza e dilezione, in Gesù abbraccia tutto, anche il corpo, anche la carne, anche l’anima. Ora noi siamo quella carne, quelle ossa, noi siamo quella natura, siamo un corpo con Cristo ed in Lui e per Lui siamo fatti figliuoli di Dio, anzi lo stesso Figliuolo di Dio che si estende in noi. Dunque noi pure in Lui siamo involti e compresi dal Padre in un solo atto d’amore, e come in noi e su noi si allarga e distende la figliuolanza per cui Cristo è Figliuolo di Dio, così a noi pure si allarga ed estende anche l’amore del Padre e perciò nel suo Figliuolo per sé grato e diletto a Lui, anche noi siamo fatti essere a Lui grati e diletti: gratificavit nos in dilecto Filio suo[4].

 

 

«Tutto abbiamo in Gesù»

 

Gesù Cristo è la luce del mondo (Jo. VIII, 12), è la Via, la Verità e la Vita (Jo. XIV, 6), è il vincolo d’unione, il bacio di pace fra il cielo e la terra, fra l’uomo e Dio (Eph. 11, 14). È Gesù il nostro Redentore, il nostro Maestro, il nostro Avvocato, il nostro Esemplare, il nostro Medico, il nostro Capo, il nostro Compagno, il nostro Fratello, il nostro Amico, il nostro Conforto, il nostro Asilo, la nostra Gloria, il nostro Giubilo, la nostra Grandezza. Egli è il Pontefice della nuova alleanza, il Sacerdote eterno, il Mediatore tra Dio e gli uomini, la vittima dei nostri peccati, la nostra vera ed unica Felicità. Egli la porta per cui dobbiamo entrare nel suo regno, la Pietra angolare e il fondamento su di cui l’edificio spirituale deve essere innalzato. Egli il Pane delle anime nostre, l’Autore e il Consumatore della nostra fede, il nostro Premio, la nostra Corona, la nostra Vita, il nostro Tutto. È a Lui, è a Gesù che dobbiamo la grazia e l’amicizia del Padre, la confidenza e la libertà dei figliuoli di Dio. È a Lui, è a Gesù che dobbiamo tutti i beni che da Dio riceviamo, di natura, di grazia e di gloria. È a Lui, è a Gesù che siamo tenuti se Iddio ci conserva, ci sostiene, ci difende, se non ci castiga a seconda dei nostri meriti, se più a lungo ci sopporta e ci aspetta. Da Gesù tutti ci derivano i lumi, i consigli, le ispirazioni, i buoni pensieri, i pii desiderii. Da Gesù il coraggio nei pericoli, la forza nelle tentazioni, la sofferenza nei dolori, la pazienza nelle avversità, la perseveranza nel bene: in omnibus divites facti estis in Christo (I Cor. 1). Sì, tutto abbiamo in Gesù, tutto possiamo in Gesù, tutto speriamo, tutto otteniamo da Gesù, essendo Gesù che ha voluto umiliarsi per noi, sacrificarsi per noi, farsi tutto per noi (I Cor. I)[5].

 

 

«È nostro, veramente nostro, interamente nostro»

 

Facendosi uomo ecco che, Egli, l’Eterno, l’Immenso, il Creatore e Signore dell’universo, il Re Immortale dei secoli, è divenuto il nostro amico, il nostro fratello, il compagno del nostro esilio. Da questo giorno, sino alla fine del tempo, Egli non ci abbandonerà più, vivendo prima trent’anni della nostra vita mortale e continuando poi a dimorare con noi sotto i veli Eucaristici: Se nascens dedit socium.

Con una finezza d’amore ancor più singolare, Egli si farà nostro cibo. Nulla è a noi più intimo dell’alimento, il quale assimilandosi alla nostra sostanza conserva e rinnova le nostre forze. Ed è appunto sotto questa forma che Gesù vuole appartenerci: convescens in edulium.

Non basta. Sulla Croce Egli si farà nostra vittima. Per redimerci dal peccato e dalla morte Egli verserà fino all’ultima stilla il suo sangue e sacrificherà la sua vita, costituendosi prezzo del nostro riscatto: se moriens in praetium.

Finalmente, dopo essersi donato a noi in tutti cotesti modi, Egli coronerà i suoi beneficii donandosi agli eletti negli splendori della gloria per essere la loro ricompensa eterna: se regnans dat in praemium.

Sì, Gesù da questo giorno, è nostro, veramente nostro, interamente nostro. Sia egli per noi ogni cosa. Felice chi arriva a comprenderlo, e comprendendolo, non cerca, non brama, non vuole in ogni cosa che Gesù![6].

 

 

«È necessario che viva in noi Gesù Cristo»

 

È necessario che viva in noi Gesù Cristo; è necessario che G.C. operi in noi continuamente, potendo Egli solo riconciliare la terra col Cielo, potendo Egli solo amar Dio quanto è amabile e rendere a Lui quell’onore che gli è dovuto.

Ma come può Egli Gesù Cristo vivere in noi? L’abbiamo detto: mediante il suo spirito: in hoc cognoscimus quia in eo manemus et ipse in nobis, quoniam de spiritu suo dedit nobis (I Ioan, V, 13); e lo spirito di G.C. è spirito di umiltà, è spirito di carità, è spirito soprattutto di annegazione, di sacrificio, di penitenza[7].

 

 

«Viene sulla terra per farci vivere della sua vita»

 

Gesù viene sulla terra per farci vivere della sua vita, per renderci, a così dire, una cosa sola con lui. Io sono venuto, dice egli stesso, affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente. Ora questa vita che Gesù viene a comunicarci unendosi all’anima nostra, è la sua vita istessa.

L’unione di Gesù coll’anima cristiana, ecco il fondamento di tutto l’ordine soprannaturale. Per essa l’uomo si eleva fino alla partecipazione della natura divina e in essa eleva tutto quanto il creato. Ogni cosa è vostra, grida l’Apostolo, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia il presente, sia il futuro. Voi poi siete di Cristo, e Cristo è di Dio: omnia vestra sunt. Vos autem Christi, Christus autem Dei.

Parole ammirabili che tutta ci rivelano la sublime economia dell’Evangelo. Unita al Verbo per l’Incarnazione, l’umanità sacrosanta di G.C. è divenuta in lui una sola persona. Uniti noi a G.C. per un’unione meno perfetta sì, ma oltre ogni dire intima, noi siamo come un’estensione di lui medesimo, noi gli apparteniamo come le membra appartengono al corpo. Unum corpus sumus in Christo[8].

 

 

«Egli stesso deve essere la nostra vita»

 

Né solamente dobbiamo vivere in Gesù Cristo, ma ancora egli stesso deve essere la nostra vita e deve vivere in noi. Vivere in noi col suo spirito, colla sua grazia, coll’impressione dei suoi misteri, coll’applicazione dei suoi meriti, coll’efficacia dei suoi Sacramenti, e, sopra tutto, con quello del suo Corpo e del suo Sangue, di maniera che possiamo dire coll’Apostolo: non sono io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me: vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus (Gal. II, 20). Ciò vuol dire, scrive il mellifluo Dottore di Ginevra, S. Francesco di Sales, che Gesù abita nel nostro cuore, e vi regna da padrone e da re; che il suo spirito si estende, si dilata in noi, e come un calore vitale ci signoreggia, raddrizza tutto, riscalda tutto, santifica tutto, divinizza tutto, ed ama nel cuore, pensa nella mente, parla nella lingua, opera nelle mani, e le forze si consumano in Lui, gli studi si fanno per gloria sua, i doveri si compiono per la sua grazia, i dolori si patiscono per amore suo, i sollazzi, il nutrimento medesimo, si prendono per dar gusto a Lui, il suo trono è innalzato in mezzo al cristiano: regnum Dei intra vos est (Luc. XVII, 21).

Una moneta deve avere la impronta del suo Sovrano, ché altrimenti non vale, non ha corso nel commercio e le opere del cristiano non valgono alla compra del cielo, mentre nulla piace all’eterno suo Padre se non rende l’immagine del Figlio suo e non ne porta in certo modo il carattere. Noi, noi medesimi, o V.F. e F.C., non verremo introdotti alla gloria, se non saremo trovati conformi a cotesto divino Esemplare (Rom. VIII, 29)[9].

 

 

«Gesù per specchio, Gesù per modello, Gesù per sigillo»

 

Il modo di conversare sia quello di Gesù (...), lo sguardo degli occhi sia quello di Gesù, la mansuetudine dei modi sia quella di Gesù; Gesù per specchio, Gesù per modello, Gesù per sigillo. Egli a proferire i giudizi, a tracciare le vie, a decidere le scelte; egli a governare, a dirigere, a padroneggiare la nostra vita, Egli finalmente il nostro amore, il nostro gaudio, la nostra corona, il pensiero della nostra mente, il battito del nostro cuore, l’ala delle nostre aspirazioni, il suono che addolcisca le nostre orecchie, il balsamo che lenisca i nostri dolori, il bastone che ci regga nel terreno pellegrinaggio, l’inno e il cantico il quale echeggi sulle nostre labbra, e dal tempo ci accompagni all’eternità[10].

 

 

«Renderci altrettante sue copie»

 

Un pittore, che voglia fedelmente ritrarre sulla tela qualche persona amata, che fa egli? tiene sempre gli occhi su quella persona, per non dar tratto di pennello che non serva a formar qualche tratto dell’originale. Così dobbiamo in certo modo far noi. Bisogna che tutti i nostri pensieri, che tutte le nostre parole, che tutte le nostre azioni, che tutti i nostri desiderii, che tutte le nostre disposizioni, che tutti i nostri patimenti, sieno come altrettanti tratti di pennello, che formino ed esprimano in noi qualche tratto della vita di Gesù Cristo, fino a renderci, per così dire, altrettante sue copie.

Ciò avverrà, V.F. e F.C., sapete quando? Quando noi giudicheremo di tutte le cose come Gesù Cristo medesimo ne ha giudicato. Quando ameremo ciò che Egli ha amato e in quella maniera medesima che Egli l’ha amato. Quando avremo nel nostro cuore quei medesimi sentimenti e quelle disposizioni medesime che ha Egli avuto nel suo cuore.

Non tutti, è vero, siamo obbligati a vivere in una sì grande esteriore povertà, quale fu la povertà in cui Egli visse; come non tutti siamo obbligati a soffrire i tormenti ineffabili che egli ebbe a soffrire; ma tutti indistintamente, grandi e piccoli, ricchi e poveri, sacerdoti e laici siamo obbligati ad essere nelle sue stesse interiori disposizioni di povertà, di umiltà, di carità, di sacrificio e di tutte le altre cristiane virtù, in modo che siamo pronti a tutto sacrificare, a soffrire tutto, anche la morte, piuttosto che venir meno alla santa sua legge: hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu (ad Philipp. 11, 5).

Non ci illudiamo però, o Dilettissimi. Noi non avremo mai questa interiore conformità con G.C., se non avremo con G.C. qualche conformità anche esteriore. La vita di G.C., dice l’Apostolo, deve manifestarsi nella nostra come mortale (Ad Cor. IV, 11)[11].

 

 

«Discepoli di un Dio povero, umile, crocifisso»

 

Sì, dobbiamo anche nel nostro esteriore far comparire di essere discepoli di un Dio povero, umile, crocifisso. Senza di questo a che gioverebbe il protestarci e il vantarci cristiani? Sarà sempre vero, che qualunque cosa noi facciamo avrà per movente o lo spirito del vecchio uomo o lo spirito dell’uomo nuovo. Se regoliamo il nostro esteriore coi sentimenti del primo, siamo colpevoli; se collo spirito del secondo, tutto è santo in noi, tutto in noi partecipa della vita di Gesù Cristo, poiché Gesù Cristo non vive in noi che mediante il suo spirito (...).

Non basta quindi operar bene, essere onesti, vivere, come suol dirsi, da galantuomini, combattere e soffrire in qualsiasi maniera, perché cristiana possa dirsi la nostra vita; non basta. Bisogna assolutamente far tutto questo coll’occhio a Dio, coll’intenzione a Gesù Cristo, colla sommissione, coll’amore e collo spirito di Gesù Cristo. Dev’essere Gesù Cristo il principio e il fine delle nostre operazioni, l’anima della nostr’anima, la vita della nostra vita[12].

 

 

«È Cristo che accende l’amore»

 

La vita consiste principalmente nell’amore senza il quale, dice S. Giovanni, si mimane nella morte. E la grazia del Salvatore è quella che riempie l’anima di questo balsamo di vita. È Cristo che accende questo amore, mostrando il prodigio incomprensibile della sua morte, che urge, spinge con dolce violenza a riamare e sacrificarsi per la sua gloria e la salvezza dei nostri fratelli: Charitas Christi urget nos. È Cristo che accende questo  amore, ridonandoci nella sua Risurrezione la prova più luminosa della sua divinità e il pegno più sicuro della nostra futura Risurrezione. È Cristo che accende questo amore col miracolo continuo dell’Istituzione Eucaristica, il mistero dell’amore per eccellenza, con cui Egli si perpetua sui nostri altari[13].

 

 

«L’amore non dice mai: basta»

 

Egli arde per noi del più fervido amore e l’amore non dice mai: basta. Per noi ha vissuto Gesù una vita di continui stenti, non vede l’ora di consumarla per noi (Luc. XII, 50). E venne quell’ora, venne l’ora del sacrificio e si vide la tragica scena di un Dio che muore, e che muore crocifisso per l’uomo (Ad Rom. V, 9)! Che può dirsi o pensarsi di più grande, di più ammirabile per eccesso di carità?

Nessuno certamente, come afferma lo stesso Gesù Cristo, può mostrare maggior carità che quella di dar la vita pei suoi amici (Io. XV, 13). Ma quale carità non fu la sua a voler morire per noi suoi nemici, egli nostro Dio, nostro Creatore, da noi offeso e oltraggiato? Ciò considerando l’Apostolo, diceva: appena si trova chi voglia morire per un uomo giusto, ma Iddio ha dimostrata in questo la sua grande carità verso di noi, che essendo noi ancora peccatori, Cristo morì per noi (Rom. V, 7). E perché morì? Perché lo volle Egli stesso (Is. LIII, 7), che altrimenti nessuno avrebbe potuto a ciò obbligarlo, come egli disse (Io. X, 1 7). Ma perché lo volle? Non per altro, se non perché ci amava: Dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis (Ephes. V, 2)[14].

 

 

«Amate Gesù»

 

O Gesù, tu sei la vera fonte di ogni nostro bene, e lo fosti sempre, e lo fosti costantemente, e lo sei ancora. Gesù, e al profferir questo nome, il cuore s’intenerisce, lo spirito si commuove, e l’anima spiega il volo della speranza. Gesù, e questo nome è più dolce alla bocca che un favo di miele, più gradito all’orecchio che il suono dell’arpa, al cuore più soave che la gioia più pura! Oh amiamolo, amiamolo Gesù! e chi ameremo noi, se non amiamo questo dolcissimo Salvatore? (...).

Amate Gesù, state uniti a Gesù, ché tutta la perfezione del cristiano sta appunto qui: l’unione con Gesù Cristo. Qui dimora il principio d’ogni bene, il fondamento e l’origine d’ogni nostra grandezza. Io sono la vera vite, dice il Signore, e voi siete i tralci: Ego sum vitis vera et vos palmites (Jo. XV, 5). Ora come un tralcio, staccato dalla vite, inaridisce e muore, così morirete anche voi, se disgiunti da Gesù Cristo. L’unione con Gesù Cristo è cosa vitale per noi; tolta questa, siam morti noi, e morte sono le cose nostre e diventiamo cadaveri, come è cadavere un corpo che è privo dell’anima (...).

È un caro fratello, a cui dobbiamo stringerci nel cammino della vita, sorreggerci, camminare con esso, perché da lui, come abbiamo già detto, ci viene ogni grazia, il valore d’ogni azione, la forza stessa di compierla, la vita insomma, e lo spirito dell’anima nostra[15].

 

 

b) IL DIO CON NOI: CRISTO NELL’EUCARISTIA

 

«Chi crede nell’Eucaristia, crede tutte le verità cristiane»

 

Chi crede nell’Eucaristia, crede, si può dire, tutte quante le verità cristiane. Crede l’ineffabile Trinità delle persone nell’assoluta unità dell’essere divino; crede l’incarnazione del Verbo, la sua immolazione per noi. La sua gloriosa risurrezione e ascensione al cielo; crede la divina maternità della Vergine e la missione dello Spirito Santo sopra gli apostoli con lei congregati; crede la divina istituzione della Chiesa, la sua indefettibilità e la necessità di esserne vivi membri per conseguire la vita eterna (...).

Essa è il capolavoro della mente e del cuore di Dio, il centro di nostra religione, il punto di contatto dove il finito e l’infinito, la natura e la grazia si congiungono nell’ineffabile amplesso della verità e dell’amore per essenza (…)

Ai piedi dei nostri altari si trova il Golgota, dove piangiamo abbracciati alla croce, e il Tabor dove ci fabbrichiamo tabernacoli per inebbriarci alla pace celeste; (...) ivi ha luogo l’agonia del Getsemani e il mattino della risurrezione, la morte mistica e la sorgente della vita[16].

 

 

«La più perfetta soluzione del problema dell’Emmanuele»

 

Predicate come nelle parole: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, si contenga la più perfetta soluzione del problema dell’Emmanuele, del Dio con noi, soluzione che per tanto tempo ha tenuto sospeso il cuore dell’umanità, la quale, essendo di origine divina, cerca ognora di comunicare personalmente col suo principio ed ultimo fine. Per quelle parole infatti non solo Betlem, Nazaret, Cafarnao, Tiberiade, Gerusalemme, la Palestina insomma, ma tutta la terra è divenuta l’abitazione dell’Uomo-Dio. Ora egli abita indifferentemente nelle basiliche delle grandi città, come nella rustica chiesa che gli offre il povero campagnolo, o nella tenda di fronde dove l’adora il selvaggio; ora si è reso accessibile a tutti: ai greci come ai barbari, al popolo d’Israele come ai figli del deserto[17].

 

 

«L’Eucaristia è il centro della Chiesa»

 

L’Eucaristia è il centro della Chiesa, il compendio del culto divino, l’albero di vita piantato nel mezzo della Chiesa, le cui fronde danno refrigerio alle genti. È il fermento nascosto dalla Sapienza Incarnata in questo sacramento; e se l’anima fedele l’applica alle tre sue facoltà, la razionale, la concupiscibile e l’irascibile, cioè alla mente, allo Spirito e al cuore, tutto l’uomo diventa spirituale. Questo fermento inoltre, se sarà introdotto dalla Chiesa per il ministero dei sacerdoti nei diversi strati sociali, cioè nel corpo dirigente, nella società giovanile e in quella coniugale, renderà più giudizioso questo mondo insipiente; radunerà le genti disperse nell’unico corpo della Chiesa; e renderà costanti in ogni opera virtuosa quanti prima rimanevano inerti di fronte al bene[18].

 

 

«Tutto gravita verso l’Eucaristia»

 

L’Eucaristia è nel mondo spirituale ciò che è il sole nel mondo fisico. Nella maniera medesima che tutto gravita nel firmamento verso quest’astro magnifico, la cui luce e il cui calore diffondono ovunque la fecondità e la vita, così tutto gravita del pari verso l’augustissima Eucaristia. È per lei solo che l’università delle cose create, le quali discendono incessantemente dal Creatore, a Lui ritornano incessantemente[19].

Finché noi camminiamo pellegrini sopra questa terra, oltre di un soccorso soprannaturale, che ci sostenga nelle dure lotte della vita, ci è pur necessaria una vittima immacolata per offrire a Dio in espiazione dei nostri peccati. Il soccorso lo troviamo nella santissima comunione, è la vittima nella messa, la quale altro non è che il sacrificio della croce, attraverso dei secoli al cospetto di tutte le generazioni (...).

Come l’Eucaristia è un’estensione dell’incarnazione, così la è pure del sacrificio del Golgota. Questo, per verità, si offrì una sola volta, in poche ore, a Gerusalemme, mentre quest’altro viene offerto in ogni istante del giorno e in tutti gli angoli della terra. Chi lo ignora? durante il sonno del nostro emisfero, veglia l’altro, ed altri fratelli pregano per noi, altri sacerdoti tengono sospesa, fra il cielo e la terra, la vittima eucaristica, da cui scorre il sangue di Cristo, come un torrente misterioso di vita, che percorre l’universo da un capo all’altro(...).

Se il Figlio di Dio, nella prima oblazione, si diede per tutti, in quest’altra della messa si offre per ciascuno in particolare. Esso viene, in ogni momento, a cancellare il chirografo del decreto che è contro di noi, causa i nostri peccati, e via lo toglie affiggendolo, col suo corpo adorabile, all’altare della croce. E se grandi sono i debiti che l’uomo, peccando, contrae con Dio, assai più grande è il prezzo di sua redenzione. Egli è tuttavia riscattato non a prezzo di cose corruttibili, di oro, o di argento, ma al prezzo del sangue dell’Agnello senza macchia, sangue di valore infinito, perché di persona divina; sangue di cui una sola stilla basterebbe a redimere il mondo. Quindi, come l’oceano ad una goccia di acqua, così sovrabbondano alla nostra colpa i meriti di Cristo nella messa[20].

 

 

«Alla messa si accende la vita soprannaturale della Chiesa»

 

La messa non è solamente la redenzione quotidiana e la salute del mondo, ma anche l’alimento della vera e solida pietà, e la fornace a cui si accende la vita soprannaturale della Chiesa. Domandate infatti a questa vergine sposa del Nazzareno come nutra e susciti in tanti suoi figli il sentimento del sacrifizio sino all’eroismo, e come la povertà, le miserie, da cui siamo oppressi, le abbia quale argomento di speciale amore verso di Noi. Essa vi risponderà additandovi l’iscrizione che adorna il suo altare: così Iddio ama gli uomini! Sublimi parole, che esprimono una più sublime verità. E veramente, dacché l’eternità generò il tempo, mai l’orizzonte della carità cristiana tanto si dilatò, quanto dal momento che il Verbo di Dio immolò se stesso sotto la specie del pane e del vino. Allora solo comprese che il sacrifizio è la consumazione della vita pura, nobile e santa; allora solo desiderò di dare vita per vita, amore per amore[21].

 

 

«Una Messa!»

 

Una Messa! è il compendio di tutti i sacrifizi antichi, nei quali si svolgeva la corrente degli atti religiosi che l’umanità univano a Dio; sacrifizio unico, olocausto insieme ed ostia pacifica e vittima per il peccato. Una Messa! è il sacrifizio della croce che si avvicina a noi, per risparmiare alla nostra fede un faticoso ritorno ad un passato lontano e sforzi troppo facilmente vani per la nostra debolezza e negligenza. Una Messa! è l’immolazione di un Dio che in qualche modo ci è posto in mano, affinché noi ci pigliamo la parte che ci conviene nei tempi, nelle condizioni, nella misura e pei fini dalla Provvidenza determinati. Una Messa! è un Dio che adora, un Dio che ringrazia, un Dio che placa, un Dio che implora. Una Messa! ancora una volta, essa è la corona del culto religioso, il centro della vita cristiana, il suggello più splendido della grandezza e potenza del sacerdote[22].

 

«Nell’Eucaristia abbiamo un convito mirabile»

 

Mi appello alla vostra esperienza, v.f. Non è forse vero che, celebrato il divino Sacrificio, vi torna insipido tutto ciò che il mondo dà come buono? In tutto ciò che vi sta davanti, non vedete forse come un ammonimento ad esser solleciti, non abbracciate forse ogni avversità come esercizio di virtù?

Certo che dalla celebrazione della Messa viene una più soave propensione al raccoglimento, un più forte istinto di preghiera, una segreta dolcezza nel disprezzo di sé, un desiderio di perpetua immolazione, la scelta della vita nascosta in Cristo, le meravigliose ascensioni a Dio.

Nell’Eucaristia, dunque, abbiamo un convito mirabile, del quale nulla esiste di più prezioso e salutare. È il cibo che nutrì la nostra infanzia spirituale, fa crescere la nostra adolescenza, corrobora la maturità, impedisce d’invecchiare e tiene lontana del tutto la morte (...).

L’Eucaristia è il centro di tutta la Religione, il compendio delle opere divine e, per così dire, il sommario del Verbo; per questo motivo fu la devozione prima ed essenziale dei cristiani; senza la tessera di questa devozione uno non può chiamarsi cristiano, perché gli manca il capo, che è Cristo.

L’Eucaristia è la più salutare di tutte le devozioni; in essa ci è rivolto l’invito di Cristo: «Venite a me voi tutti che soffrite e siete caricati e io vi ristorerò» (Matt. XI, 28). In essa ospita alla sua tavola i peccatori, dimentica ogni peccato, riveste di grazia. In essa Cristo, come l’aquila che provoca al volo i suoi piccoli e svolazza sopra di loro, spiega le sue ali sopra i giusti, li raccoglie e li porta sulle sue spalle, e li innalza alla magnificenza della santità (Deut. XXII).

Cristo nell’Eucaristia crea gli apostoli, fortifica i Martiri alla corona del trionfo, suscita le vergini: infatti è «il sacro convito nel quale si prende in cibo Cristo, si rievoca la memoria della sua passione, la mente si riempie di grazia e ci viene dato il pegno della gloria futura» (Off. Corp. Ch.)[23].

 

 

«Fu la prima norma di vita nella Chiesa»

 

L’Eucaristia fu veramente la prima norma di vita nella Chiesa. Cristo era tutto in tutti; Cristo nell’Eucaristia era la vita di tutti i cristiani. Così agli inizi della Chiesa; ora vediamo che i tempi sono cambiati e che altre forme di pietà si sono in un certo senso sostituite alla fede e all’amore per Cristo: voglio dire il culto dei Santi e il dovuto omaggio di devozione filiale alla Madre di Dio.

Non lo dico per deplorare o sminuire neppure minimamente tali devozioni: nessuna gelosia nelle mie parole. Lodo ardentemente queste manifestazioni e direttive della pietà: anzi lavoro e mi sforzo, quanto posso, perché si affermino e si diffondano sempre più: sono infatti molto utili alla pietà e volute dalla divina bontà.

Come la contemplazione degli Spiriti beati ha una duplice «teologia», quella  «mattutina» che dalle perfezioni divine viste in Dio discende a contemplare l’opera del Signore, e quella «vespertina» che parte dalle opere divine per assurgere alla contemplazione di Dio stesso; così è della pietà dei fedeli. Alcuni, appoggiandosi, come a dei gradini, al culto dei Santi e della Madre di Dio, vogliono arrivare a Dio; altri invece, più utilmente, s’impossessano dello stesso Cristo, mediante la fede, e mediante Cristo accedono al Padre, per abbracciare quindi anche i Santi. Tutt’e due le vie conducono allo scopo; ma bisogna porre attenzione che, forse, mentre insistiamo sulla mediazione e sull’esempio dei Santi, non venga meno la nostra fede e il nostro amore per Cristo.

Ardentemente dunque io auspico che l’amore di tutti per Cristo emuli e superi la devozione che si professa verso la Madre di Dio e i Santi. Cristo infatti «è la via, la verità e la vita», come disse egli stesso; e «nessuno viene al Padre se non attraverso me» (Joan. XIV, 6, 17). Anche Paolo: «Per lui abbiamo accesso in un solo Spirito al Padre» (Ephes. II, 18)[24].

 

 

«Cristianizza il nostro essere individuale»

 

La comunione è la sorgente da cui l’anima attinge l’acqua che sale alla vita eterna; è il luogo dove si rimarginano le sue ferite; è, in una parola, il principio e il termine di quell’unione con Dio elevata alla più sublime potenza, e condotta a quell’ultimo grado di perfezione che si possa attendere nell’ordine presente. Infatti, se nell’incarnazione il Verbo di Dio si è unito personalmente all’umana natura, nella comunione si unisce di più alla nostra personalità. Per tal modo, Egli divinizza la nostra essenza, cristianizza, dirò così, il nostro essere individuale, e la sua unione con noi ha per emblema quella stessa che trasforma l’alimento nella sostanza del corpo che si nutre. Perciò, coloro che si comunicano, come lasciò scritto un santo dottore, hanno Gesù alla mente, al cuore, al petto, agli occhi, alla lingua. Questo Salvatore raddrizza, purifica e vivifica tutto. Egli ama nel cuore, intende nella mente, infonde vigore nel petto, vede negli occhi, parla mediante la lingua, e muove ogni altra potenza. Egli opera tutto in tutti, ed essi non vivono più in se stessi, ma è il Verbo di Dio che vive in loro, e fissa alle loro azioni mete più nobili ed elevate, e motivi più puri e più perfetti[25].

 

 

«Germe luminoso di risurrezione»

 

Il pane comune, che viene dalla terra, dice S. Macario, non ci può dare la vita eterna; ma quel pane, che ha origine dal corpo beato di Cristo, unito alla divinità, conferisce l’immortalità a chi lo riceve. La carne del Signore, dopo che è mangiata non è distrutta, né il suo sangue dopo che è bevuto cessa, perché entrambi sono indissolubilmente uniti alla divinità. Quindi, il corpo glorioso del Signore mette un germe luminoso di risurrezione e d’incorruttibilità nel corpo corruttibile dell’uomo, e questo germe, fecondato dal sangue di Colui che vinse la morte, si sviluppa e cresce finché l’uomo rinnovato deponga, come veste inutile, la carne mortale, e, mostrando tutto lo splendore della sua vita nascosta in Dio, entri nei tabernacoli eterni[26].

 

 

«Penetrare nello spirito della sacra liturgia»

 

L’istruzione astratta, speculativa, benché eccellente, non basta da sola: dev’essere accompagnata dalla pratica. Se tanti cristiani, mentre celebrano i divini misteri, se ne stanno in chiesa scomposti, svogliati, e stranieri a tutto quanto vi si compie, è appunto perché non iscorgono nei sacri riti altro che la forma esteriore. Or bene, voi insegnate loro a distinguere le diverse parti delle sacre funzioni, fateli, in qualche modo, penetrare nello Spirito della sacra liturgia; tosto la loro mente si concentrerà nel pensiero di Dio, e le loro labbra, naturalmente, si apriranno alla preghiera. Non esiste animo tanto freddo, che valga a salire dal sensibile all’intelligibile, e non si senta rapito dal culto cattolico, il quale tutto converge sull’Eucaristia, allo stesso modo che nei templi innalzati dal genio cristiano, tutte le linee architettoniche sono coordinate al santuario[27].

 

 

«Buttar tempo nelle confessioni?»

 

Né qui voglio tacere di altri sacerdoti, che stimano buttar tempo quando sono richiesti del loro ministero da anime privilegiate, le quali amano appunto di frequentare molto il tribunale della penitenza, e, ancor più spesso, cibarsi delle carni dell’Agnello immacolato. Il meglio che si possa dire di costoro è, che non pensano, o non sanno che, come non si dà vita senz’anima, così non v’è parrocchia vivente della rigogliosa vita di Cristo, qualora essa manchi di un certo numero di fedeli, che si confessino spesso, e si comunichino quasi tutti i giorni. Sono queste anime che, coll’esempio delle loro virtù, eccitano gli altri al bene; sono esse che fanno risplendere l’ideale della perfezione cristiana; sono esse finalmente le zelatrici d’ogni opera buona, che s’inizi e si compia nella parrocchia. Beato quel parroco che saprà formare tali anime, coltivandole con attenzione tutta particolare. Il tempo che, con discrezione, vi avrà speso intorno, sarà il meglio impiegato, poiché esse faranno scendere sulle nostre popolazioni quella grazia che varrà a preservarle dalla corruzione; e, se già corrotte, le trasformerà, come trasformò appunto il mondo greco e romano nei tempi apostolici, e condusse poi, lungo il corso dei secoli, tante altre nazioni ai piedi della croce[28].

 

 

«La comunione frequente»

 

Un cristiano quindi, adorno della grazia santificante, abbia pure imperfezioni, e cada in mancanze veniali, egli è tuttavia figliuolo di Dio, erede del paradiso, e perciò degno di assidersi, anche quotidianamente, al grande banchetto, che Gesù Cristo tiene apparecchiato nella sua Chiesa, qualora se ne parta dal medesimo con fervore sempre crescente, e con desiderio maggiore di ritornarvi. Perché dunque si dovrà richiedere dai fedeli una straordinaria purezza di mente, di cuore e di opere, prima di ammetterli a tale convito? La miglior disposizione per accostarsi degnamente all’Eucaristia non è appunto la frequente comunione? Oh! se tutti avessero più alto concetto della bellezza e della nobiltà di un’anima in grazia, certo, il ripristinamento della comunione frequente non tarderebbe ad effettuarsi, con vantaggio grandissimo, incalcolabile del popolo cristiano e dello stesso civile consorzio[29].

 

 

«La pia pratica della visita quotidiana»

 

Un mezzo efficace per istabilire e sviluppare la devozione a Gesù sacramentato, lo troverete, in prima, nella pia pratica della visita quotidiana a Lui, prigioniero d’amore nei nostri tabernacoli. Questa è certamente una salda testimonianza del sincero amore dei popoli verso la divina Eucaristia, come, per lo contrario, il lagrimevole abbandono, nel quale è lasciata da molti, sembra smentire la fede.

Quanto non è bello il mettere le anime nostre in frequente e familiare colloquio con Gesù, con una pratica tanto salutare? Beato, esclama il profeta, colui che abita presso il santo tabernacolo. Il Signore è la sua forza e la sua luce, il rimedio a tutti i suoi mali, il balsamo per tutte le sue ferite, il conforto per ogni sua pena. Ai piedi dell’altare l’anima dimentica il mondo, le miserie della vita, poiché dove è Gesù non è più dolore, ma gaudio anche tra le più amare tribolazioni. Questo è il luogo in cui il fedele, nel segreto del suo cuore, ascolta voci misteriose e soavi, e dal quale poi parte col vivo desiderio di tornarvi; con quel santo desiderio che sempre lo volge dove si trova il suo bene, e dove fa tesoro di forze soprannaturali.

Tutti quindi rendano quest’omaggio quotidiano alla divina Eucaristia. Io lo raccomando ai fanciulli, perché Gesù li avvii sul sentiero della virtù; lo raccomando ai giovani, perché Gesù dia loro forza per resistere agl’incantesimi e alle seduzioni del vizio; lo raccomando a chi è sul declinare della vita, perché Gesù lo aiuti a guardare sereno in faccia alla morte[30].

 

 

«Adorazione diurna e notturna del SS. Sacramento»

 

In alcune parrocchie della diocesi, lo dico con viva compiacenza, è già istituita l’associazione per l’adorazione diurna del santissimo Sacramento: io amerei vederla sorgere an­che in tutte le altre. Dove la popolazione è numerosa, si riuscirà facilmente. Se poi la parrocchia contasse pochi abitanti, e non fosse possibile stabilirvi l’adorazione quotidiana, non potrebbe esservi tenuta almeno due o tre volte la Settimana, e specialmente nei dì festivi? Confido nello zelo dei miei ottimi collaboratori, e nella sollecitudine, che, in ogni circostanza, addimostrarono i miei amati diocesani, pel culto eucaristico.

Ma se è cosa sommamente cara il trattenersi di giorno innanzi Gesù, è pur bello il vigilare ai Suoi piedi nel silenzio e nella calma della notte! S’imita così gli abitatori della celeste Gerusalemme, i quali non cessano mai dal celebrare le glorie del Signore (...).

Vedete, quindi, o fratelli e figli amatissimi, di comprendere l’importanza di questa adorazione notturna, di stabilirla nelle vostre parrocchie, e di praticarla, almeno una volta all’anno (...).

Per tutto quanto si riferisce all’Eucaristia, mai vi esca dal labbro quell’insipiente parola: questa cosa è impossibile. L’impossibilità, in quest’ordine, non ha luogo, se non per coloro che rifuggono dall’abnegazione e dal sacrificio[31].

 

 

«Davanti a quell’Ostia di perdono e di pace»

 

È qui davanti a quell’Ostia di perdono e di pace, che sentiamo acquetarsi il tumulto dei terreni affetti, temperarsi la sollecitudine delle cose mondane, fiaccarsi l’orgoglio, svegliarsi l’amore e la compassione dei prossimi, eccitarsi la gara di opere sante, i desiderii di vita migliore. Non sentite escire da quel Tabernacolo una voce che nobilita e impreziosisce gli stessi patimenti, assicurando che le lacrime versate sull’altare sono contate da Colui che si prende cura del giglio del campo, dell’uccello del bosco, dell’ultimo capello del nostro capo? Oh! certo, qui si ritemprano gli animi nella forza della rassegnazione e della speranza. Nulla è perduto qui, dove si trova la fiducia in Dio; qui tutti siamo figli di Dio; non è ludibrio del caso o della violenza chi attinge qui la fortezza, che sgorga da quel divin Tabernacolo (...).

Il tempio è il rifugio del povero, asilo delle anime tribolate e degli oppressi! Qui ci sentiamo tutti e davvero, non bugiardamente, fratelli; qui dinanzi al Padre comune scompaiono le distinzioni del fasto, della ricchezza, della potenza umana; qui ci proclamiamo e ci sentiamo tutti eguali, al banchetto comune di Gesù; qui allo spettacolo di un Dio che in Sacramento s’abbassa egualmente al piccolo e al grande e tutto eleva alla sua altezza, consacriamo, non la mendace democrazia del mondo, ma la vera democrazia di tutti i redenti[32].

 

«A Lui congiunti, tutti vi sentirete fratelli»

 

Unitevi pertanto in santa lega intorno a Gesù, ostia divina, in spirito di fede, di riparazione, d’amore. A Lui congiunti, tutti vi sentirete fratelli, tutti stretti ad un patto: all’amore vicendevole, e a procurare l’uno il bene dell’altro. Di qui nascerà quell’ordinata concordia, che vi renderà comuni le gioie come i dolori, il sorriso come le lacrime, ed ovunque spargerà il balsamo della rassegnazione e della speranza cristiana. Unitevi ed organizzatevi in associazioni di adoratori per le diverse ore del giorno, affinché la divina Eucaristia mai sia da voi abbandonata[33].

 

 

«Siete stati fatti partecipi del sacerdozio eterno di Cristo»

 

Comprendete l’altezza della vostra dignità. Siete stati fatti tutti partecipi del medesimo sacerdozio eterno, che lo stesso Figlio di Dio non si usurpò ma ricevette dal Padre (...).

Voi che avete raggiunto il sacerdozio, dovete, secondo l’Apostolo, avere anche voi qualche cosa da offrire (Hebr. VIII, 3), e appunto da questo deriva la vostra nobiltà. Voi sapete che la vittima del nostro Sacrificio è lo stesso Figlio di Dio, il quale è, nel medesimo tempo, il sacerdote principale, che offre per mezzo del vostro ministero, e il Dio al quale viene offerto.

Da questo sacrificio, l’azione più augusta e più sublime della Chiesa, valutate la vostra dignità.

Il sacramento e il sacrificio eucaristico è il tesoro della Chiesa, il suo sommo bene, la sua suprema bellezza: “Quale la sua bontà e quale la sua bellezza, se non il frumento degli eletti e il vino che germina le vergini?” (Zach. IX, 17). Sotto specie diverse, ormai puri segni, sono nascoste realtà eccelse: una carne che è cibo, un sangue che è bevanda. La Chiesa è formata da questo Sacramento, e tutte le sue ricchezze si assommano nel pane e nel vino. A voi l’ordine di arricchirvi di tale tesoro e di arricchirne gli altri. Così ha istituito questo sacrificio: volle affidarne l’amministrazione ai soli sacerdoti, ai quali spetta riceverlo e darlo agli altri (Offic. Corp. Ch.).

L’Eucaristia, tesoro dei sacerdoti, è nello stesso tempo un deposito affidato alla loro fedeltà e alla loro custodia. Ma si tratta di un “deposito” di natura particolare, ben diversa dai soliti. Per legge, chi riceve un “deposito” deve custodirlo e conservarlo fedelmente in modo da restituirlo integro al richiedente. Non è così l’Eucaristia: è un deposito di frumento, che sarebbe delitto nascondere: “chi nasconde il frumento sarà maledetto dal popolo” (Prov. XI, 26) (...).

L’Eucaristia è il segno sotto il quale siete stati adunati: “Il Signore ci ha radunati con la comunione del calice, col quale assumiamo Dio stesso, non col sangue di vitelli” (Off. Corp. Ch.).

L’Eucaristia è la vostra stella. Vi è apparsa nella fanciullezza, e vi ha condotti a Cristo: ha guidato la vostra adolescenza, ha fortificato la vostra giovinezza; sia nella maturità e nella vecchiaia il vostro “potente protettore, sostegno della virtù, refrigerio e ombra, prevenzione dall’inciampo; aiuto in ogni frangente, esaltazione dell’anima, luce degli occhi, salute, vita e benedizione!” (Eccl. XXXIV, 19-20).

Tutto quello che siete e che avete, v.f., tutto vi deriva dall’Eucaristia: è la pura verità dire che da ogni lato il sacerdote è trincerato dall’Eucaristia, che in tutto è contrassegnato dall’Eucaristia[34].

 

 

«Cristo nell’Eucaristia è il libro offerto ai sacerdoti»

 

Ripensate le parole che udiste nella vostra ordinazione: “dignoscite quod agitis” (Pontif. Rom.). In realtà Cristo nell’Eucaristia è il volume offerto ai sacerdoti, perché lo divorino. Numerosi sono gli scritti dei Dottori e dei Padri, dai quali potete raccogliere messe abbondante di dottrina. Avete la Somma di S. Tommaso, che tratta in modo veramente angelico del venerabile Sacramento; avete la spiegazione della Sacra Scrittura nel catechismo del Concilio di Trento, pubblicato appositamente per la vostra istruzione. Avete anche i libri ascetici, primo dei quali il libretto dell’Imitazione di Cristo, che nel libro IV parla come nessun altro dell’Eucaristia. Hanno trattato dell’Eucaristia anche numerosi scrittori moderni, che vi forniranno molti suggerimenti utili.

Ognuno ricordi con l’Apostolo: “Mihi omnium sanctorum minimo data est gratia haec, evangelizare investigabiles divitias Christi” (Efes. III, 8). Non sono nascoste in questo Sacra­mento tutte le ricchezze del Cristo?[35].

 

 

«Sia la vostra devozione interiore ed esteriore»

 

Se bramate davvero richiamare in vita nelle vostre parrocchie la devozione eucaristica, date a vedere, coi fatti, di averla voi per i primi, radicata profondamente nel cuore. Sia la vostra devozione interiore ed esteriore, e proceda da una viva fede e da un sincero amore per Gesù, ostia divina.

Ma ohimè! bisogna pur confessarlo: la fede, sovente, è languida, e, spesso, dopo tanti anni di sacerdozio non si ama ancora il divino Maestro, oppure lo si ama con un amore senza vita. Eppure il vero sacerdote non è che un uomo il quale vive, lavora e si sacrifica per Gesù sacramentato, unica meta di tutte le sue aspirazioni! Siete voi tali? il santuario, l’altare, il tabernacolo che cosa vi dicono? quali impressioni vi fanno? Dopo aver ricevuto il corpo e il sangue di Gesù non vi sentite, diceva s. Vincenzo de’ Paoli ai suoi preti, non vi sentite accendere il cuore dal fuoco divino? Or bene, questo fuoco, che ardeva vivissimo nel petto di quell’umile prete, di quell’eroe della carità cristiana, divora pure il vostro, oppure se ne rimane tuttavia freddo e agghiacciato?... Come mai potreste allora aver zelo per ispirare negli altri una devozione le mille miglia lontana da voi? Ve ne scongiuro: se non vi sentite chiamati ad una vita profondamente interiore e di alta contemplazione, siate però con Gesù sacramentato e di cuore e di opere, in privato e in pubblico, ora, e sempre. Spesso di Lui parla la vostra lingua, a Lui sospiri il vostro cuore, né trascorra ora del giorno senza che gli abbiate dedicato un pensiero di grata e affettuosa riconoscenza[36].

 

 

«L’adorazione perpetua dei sacerdoti»

 

Un’altra cosa mi sta sommamente a cuore, ed è che voi tutti, venerabili fratelli, vi ascriviate alla pia società di sacerdoti, istituita nella nostra diocesi, per l’adorazione perpetua.

Se tutti i fedeli debbono rendere a Gesù amore per amore, e riparare gli oltraggi che gli recano gli empi e i cattivi cristiani, voi, in un modo tutto particolare, dovete spargere lacrime alla sua presenza, e interporvi fra l’altare e i peccatori, quali ministri di pace e di perdono. Voi specialmente dovete vivere della vita eucaristica e far vostra delizia l’abitare presso il tabernacolo, ove attingerete la forza per sacrificarvi e morire per Gesù, a gloria di Dio e a bene delle anime. Ecco l’unico ideale del vero sacerdote[37].

La proposta mia si è che venga istituita in ogni Diocesi l’adorazione perpetua del SS. Sacramento fatta dal Clero obbligandosi ad un’ora di adorazione ogni tanti giorni (...).

Quale commovente pensiero il sapere che in ogni ora del dì e della notte un prete è prostrato innanzi a Gesù Sacramentato a pregare per sé, per i confratelli, per la Chiesa, pel suo Capo augusto, per la conservazione della fede, per la perseveranza finale dei pentiti, per quelli che sono vicini al giudizio di Dio (...).

Un prete, adoratore fervente del SS. Sacramento, ne sarà tosto l’eloquente apostolo, sarà infaticabile, costante e benedetto nel suo zelo; diverrà ingegnoso per discoprire quelle mille industrie, tutte proprie a risuscitare e a propagare questa devozione nelle anime; sì, lo zelo di questo prete, di questo Vescovo sarà benedetto e onnipotente[38].

 

 

«Tener presente l’Eucaristia in ogni discorso»

 

L’insistenza nella predicazione dell’Eucaristia esige che, cogliendo occasione da qualsiasi circostanza, ricordiate spesso ai fedeli Cristo nel suo Sacramento. L’Apostolo inculcava al discepolo Timoteo l’insistenza nella predicazione: «Predica verbum opportune». Fate così anche voi. Dalle varie circostanze del tempo, inverno o primavera, estate o autunno, potrete ricavare motivi per introdurre il discorso sull’Eucaristia; come pure dalla pioggia, dal sereno, dalle molteplici necessità e occupazioni degli uomini. Così il Cristo Signore coglie l’occasione di parlare del Suo Sacramento dalla preoccupazione della folla per il pane del corpo: «Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet, quem filius hominis dabit vobis» (Joan. VI, 27). Lo imitò l’Apostolo nel discorso agli ateniesi, prendendo lo spunto dall’altare del Dio ignoto.

Ma vi è un altro punto della massima importanza per l’insistenza della predicazione eucaristica: tener presente l’Eucaristia in ogni discorso, e concluderlo con l’Eucaristia. Discorrete di una virtù? Proponete l’esemplare perfetto, Cristo nell’Eucaristia. Trattate del peccato? Mostrate Cristo nel Sacramento, propiziazione per i peccati di tutto il mondo; additate nell’Eucaristia l’antidoto che ci libera dalle colpe quotidiane e ci preserva dai peccati mortali: Cristo medico e medicina. O mensa mirabile, che ci somministra l’umiltà contro la superbia, la carità contro l’invidia, l’elemosina contro l’avarizia, la castità contro la lussuria, le virtù contro tutti i vizi! (Tertull. De Resurrect.)[39].

 

 

«Il secolo XX sarà chiamato il secolo eucaristico»

 

Cristo, per mezzo di questo Sacramento, rende presenti, dinanzi a chi teme Dio, i suoi voti al Padre, cioè il sacrificio del suo corpo e del suo sangue, offerto sulla croce. Quale sarà il frutto di così sublime sacrificio? «Erit germen Domini in magnificentia et fructus terrae sublimis» (Is. IV, 2). Difatti mangeranno i poveri e saranno saziati: vivranno le loro anime per i secoli dei secoli. Rientreranno in sé i peccatori e si convertirà a Dio tutta la terra, e lo adoreranno tutte le stirpi. Mangeranno e adoreranno tutti gli uomini, cadranno in ginocchio al suo cospetto tutti i mortali. Dal nome del Signore prenderà nome la generazione avvenire; perché i cieli, cioè i sacerdoti, annunceranno la santità del popolo che sta per nascere, fatto dal Signore: sarà il popolo del SS. Sacramento, e il secolo XX sarà chiamato il secolo eucaristico. “Poiché del Signore è il regno e lui dominerà le genti” (Ps. XXI)[40].

 

 

«Nunc dimittis…»

 

Quando il Signore, nella sua infinita bontà e misericordia, mi avrà concesso di vedere profondamente radicata la devozione eucaristica nella mia diletta diocesi, allora non mi rimarrà più altro che esclamare col profeta Simeone: Adesso lascierai, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo... perché gli occhi miei hanno veduto il Salvatore dato da te, amato, ringraziato e venerato da coloro che sono nel tempo, e saranno nell’eternità, il mio gaudio e la mia corona[41].

 

 

“La più dolce delle consolazioni»

 

Nulla risparmiate, miei venerabili cooperatori, perché io venendo possa a tutti i miei figli dispensare il pane degli angeli, a tutti, dai giovinetti della prima Comunione a coloro che stanno sulla soglia dell’eternità. Sarà questa, fratelli e figli miei, la più dolce delle consolazioni che voi potrete procurare al vostro Vescovo in mezzo alle cure incessanti e alle gravi preoccupazioni del suo pastoral ministero[42].

 

 

c) IL DIO PER NOI: CRISTO CROCIFISSO

 

«Bando al Crocifisso? Il Crocifisso è il fondamento»

 

Una voce si è sprigionata da cento petti e ha fatto il giro del mondo nel secolo nostro, ha gridato e grida, bando al Crocifisso. E sgraziatamente in parte è riuscita nell’infernale intento. Dove una volta il Crocifisso era il più bell’ornamento delle case cristiane, oggi altre immagini hanno usurpato quel posto. Dove una volta la famiglia cristiana si ispirava al Crocifisso e da Lui pigliava nome ed esempio, oggi ben altri sono gli oggetti ai quali si ispira, ben diverse le norme che ha dinanzi. Ma bandito il Crocifisso dalle contrade, dalle scuole, dai parlamenti, tolto quel solo che poteva rimediare ai suoi mali, che ne è avvenuto della povera società? Io non voglio negare alcuno dei titoli pei quali va superbo il nostro secolo, le scienze progredite, le distanze scomparse e mille stupendi ritrovati, per cui l’uomo è riuscito a strappare alla natura i più riposti segreti, ma con tante meraviglie è lamento universale che in nessun’altra epoca la società fu più orrendamente scossa e agitata siccome nell’epoca nostra (...).

Si è mossa guerra al Crocifisso, ecco la vera causa di tante sciagure. È una verità questa che non si vuol affatto intendere da taluni: se ne incolpa l’ingiustizia degli uomini, la malvagità dei tempi; eh! no. Conviene lacerare la benda che nasconde agli occhi nostri la verità, convien penetrare più addentro. Il Crocifisso è il fondamento di tutte cose, scrive S. Paolo, chi sdegna di fabbricare sopra di un tal fondamento non può che accumulare rovine sopra rovine (...).

Gesù Crocifisso è il centro comune; è l’anello prezioso che unisce l’opera dell’Onnipotente al Creatore Divino; è la meta di tutte le opere e dei disegni tutti della Provvidenza; è la ragione suprema, ultima di tutte le mire di Dio nell’umanità redenta, la quale lungi da lui rende in se stessa l’immagine di un cieco, che vacilla e cade sotto i raggi del più splendido sole; è la norma di ogni vero progresso sociale, essendo egli la sola vera luce che illumina ogni uomo e quindi l’intera società[43].

 

 

«Stat crux dum volvitur orbis»

 

Cristo vince, Cristo regna, Cristo trionfa. Ne abbiamo anche oggi una prova in mezzo ai più grandi cataclismi della storia, in mezzo ai frantumi degli scettri e delle corone, tra il nascere e il morire di tutte le umane istituzioni, tra il sorgere e lo sparire di tutte le eresie, tra il fremito dei mari ruggenti nell’imperversare della bufera, sta la Croce, la Croce faro di luce inestinguibile, albero della nostra salute, trofeo glorioso di Lui, che la imporporò del divino suo sangue: «Stat crux dum volvitur orbis»[44].

 

 

«La Croce ci grida amore»

 

La Croce più di ogni altra cosa ci grida amore; amor grida la Croce, amor che si fece vittima d’espiazione per te, che a tal segno ti amò da morire per te su un patibolo; ma questo grido non l’intende chi non ripete coll’Apostolo: il mondo è crocifisso a me ed io al mondo. La Croce è la scuola più sicura dell’amore, guai dunque se traete i giorni dimentichi del mistero della Croce! mostrereste allora che il vostro cuore non arde d’amore, che venite meno al grande precetto che ci obbliga a collocare in G.C. tutti i nostri affetti, a stabilire nel vostro cuore il suo regno, che è il regno dell’amore.

Amate Gesù e allora intenderete che il popolo cristiano, il popolo dei credenti si compone solamente di coloro che onorano, che amano la Croce, o vi muoiono sopra...[45].

 

 

«Tota vita Christi crux et martyrium»

 

Egli è il gran modello della vita cristiana; modello, o miei cari, così essenziale che nella somiglianza con Lui, come attesta S. Paolo, consiste il segreto di nostra predestinazione. Ciò posto, io domando: qual vita tenne egli per salire al Cielo? Forse quella della ricchezza, della gloria, del piacere, o non anzi quella della povertà, dell’umiliazione, del dolore? Tutta la sua vita, scrive il Crisostomo, non fu altro che croce e martirio! Tota vita Christi crux et martyrium! Dal primo sino all’ultimo istante, quanta miseria, quanti disagi, quante fatiche, quante persecuzioni, quante calunnie, quante sofferenze, quanti dolori! E come dopo ciò non riconoscere nella penitenza il vero nostro bene, la via breve, sicura, unica di nostra salute?[46].

 

 

«Gesù Cristo parla a tutti: Fate penitenza»

 

Che cosa dice, o dilettissimi, il divino Maestro? Dice anzitutto, ch’Egli è venuto per chiamare i peccatori, ossia gli uomini tutti, a penitenza. Dice, che il regno dei Cieli vuol forza e che non lo conquistano che i forti. Dice: chi non porta la croce sua e non vien dietro a me, non può essere mio discepolo. Dice ancora: Fate penitenza. Soggiunge poi: Se non farete penitenza, tutti allo stesso modo perirete: nisi poenitentiam egeritis, omnes simul peribitis (...).

Dal suo labbro adorabile io non sento, direi quasi, che una parola, un insegnamento, un comando: Penitenza! E a chi lo dice? Lo dice a tutti, avverte l’evangelista S. Luca; prevedendo forse le false interpretazioni di tanti moderni cristiani, i quali vorrebbero restringere ai soli abitatori del chiostro la pratica di un precetto, come questo, così assoluto. Sì, Gesù Cristo parla a tutti: ai piccoli e ai grandi, ai giovani e ai vecchi, ai poveri e ai ricchi, ai re sul loro trono, ai religiosi nel loro ritiro, ai sacerdoti nell’esercizio del loro ministero, agli industriali nel loro commercio, agli artigiani nella loro officina, a tutti senza distinzione di grado, di condizione, di tempo, di luogo, di età: Dicebat autem ad omnes; perché dalla penitenza che ci tenga saldi nella legge di Dio, nessuno può dispensarsi, se pure non rinunzia prima alla sua eterna salvezza[47].

 

 

«L’esercizio della mortificazione evangelica»

 

Chiunque vuol venire dietro a me, dice Egli stesso il nostro divino Maestro, rinneghi sé stesso, porti la sua croce e con questa divisa mi segua: abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me. Rinneghi sé stesso, vale a dire, il proprio intelletto, col sottoporlo alla fede; la propria volontà, col far sempre quella di Dio; gli sregolati appetiti, col seguire in tutto unicamente il sacrosanto Evangelo. Porti, in secondo luogo, la sua croce, vale a dire, soffra con pazienza e con rassegnazione i mali tutti della vita presente, le tribolazioni, i disagi, le fatiche inerenti al proprio stato. Con questa divisa mi segua, vale a dire, cammini sulle tracce di G.C., si rivesta del suo spirito, entri nelle sue viste, sia animato dai suoi sentimenti, si conduca secondo le sue massime, si conformi alla sua volontà, si abbandoni alla sua Provvidenza. Ora, che significa egli tutto questo, se non che per vivere vita cristiana è necessario l’esercizio della mortificazione evangelica? La è tanto necessaria che senza di essa noi siamo perduti e perduti per sempre: nisi poenitentiam egeritis, è l’incarnata Verità che ci parla, omnes similiter peribitis (Luc. XIII, 3)[48].

 

 

«Due sacrifici indivisibilmente congiunti»

 

Bisogna supplire ciò che dal canto nostro manca alla sua passione: adimpleo, diceva infatti S. Paolo, adimpleo ea quae desunt passionum Christi in carne mea (Col. 1, 24).

Questa è la legge suprema a cui è subordinata la nostra salute. Il sacrificio di G.C. e il sacrificio nostro, sono due sacrifici egualmente necessari, sono due sacrifici che non placano la divina Giustizia, se non vanno indivisibilmente congiunti, perché il nostro sacrificio, scompagnato dal sacrificio di Cristo, è indegno di Dio; il sacrificio di Cristo, scompagnato dal nostro sacrificio, è inutile a noi. Così è spiegato in parte il gran mistero del dolore contenuto negli ordini presenti dell’universo. Così il dolore e la morte, piaghe inevitabili della natura, nello stato che ora è, furon cambiati in mezzo di perfezione, e di glorificazione; e perciò di conforto e anche di gioia, e in questa maniera riposti nell’ordine della divina sapienza e bontà. Quindi l’obbligo di uniformarci alla passione di G.C. se vogliamo essere a parte della sua gloria: adimpleo ea quae desunt passionum Christi in carne mea[49].

 

 

«Mortificandoci, noi vogliamo  non distruggere, ma edificare»

 

Taluni si fanno della cristiana penitenza un’idea molto superficiale e meschina, credendo che il mortificarsi sia un voler patire per semplice gusto di patire. No, dilettissimi, no. Ben più alta è la meta a cui aspiriamo. Mortificandoci, dirò con un filosofo illustre, noi vogliamo non distruggere, ma edificare; vogliamo reprimere la carne, ma per donare libertà allo spirito; spogliarci dell’uomo vecchio, ma per rivestire l’uomo nuovo; rinnegare la volontà nostra corrotta, ma per mettere in suo luogo la santa volontà di Dio; morire all’amore proprio, ma per vivere alla carità; abbattere il regno del male perseguitandolo in sé e nei suoi complici esterni ed interni, ma per fondare in noi il regno del bene, il regno della verità e dell’amore; perdere qualche cosa del presente, ma per assicurarci l’avvenire. Vogliamo, in altri termini, riprendere la nostra corona; essere non solo uomini, ma anche cristiani, regnare nel tempo e nella eternità[50].

 

 

«Riempirsi di letizia in ogni tribolazione»

 

Se l’animo suo fosse sempre festivo quanto la lettera che mi scrisse, dovrei rallegrarmi assai e se io valessi a porgerle un po’ di consolazione all’animo suo amareggiato a tutto sarei pronto. Ma spero che le ritorneranno la calma e la gioia. La Provvidenza conduce l’Eminenza Vostra per vie non comuni e per poco incredibili; ed è questo un motivo di gioia dei suoi veri amici e lo diviene anche per lei. La ragione e la fede ci insegnano ciò che sentiamo coll’intimo spirito, che tutto ciò che si fa, è voluto o permesso da Dio infinito amore e che talvolta pei disegni della croce, pur immeritata, vuole umiliati, non confusi, i suoi servi, che debbono meditare con gaudio le divine disposizioni, amare, ringraziare sempre, riempirsi di letizia in ogni tribolazione.

Le tribolazioni anche solo interne spargono una salutare amarezza sopra della vita presente, ci distaccano insensibilmente da tutto quello che è mortale e ci apportano il dono inestimabile di farci conoscere il nulla delle grandezze in mezzo alle grandezze, e non vi è grazia più bella.

Ma la sapienza di Dio, Eminentissimo, ha veramente disposto tutto con forza e soavità e se per qualche ora ci offre a bere un calice di amarezze, ci offre poi la bevanda di più graditi gaudii: è un calice misterioso che si alterna e beato chi sa appressarlo con incrollabile fedeltà alle labbra, unendosi così intimamente a Dio. La principale arma di cui abbiamo bisogno si è la pazienza coll’orazione[51].

 

 

«Andate, apostoli di Gesù Cristo, e non temete: vi accompagna la Croce»

 

Il segno di universale riscatto innalzato nel mezzo dei popoli è la Croce; la società dei primi redenti è la Chiesa; la parola che vola di luogo in luogo, di popolo in popolo annunziatrice di salute è l’apostolato cattolico. E, grazie al Cielo, dacché sul Golgota fu inalberato quel segno, dacché nel mondo comparve la Chiesa, la parola che annunzia la gloria di Dio, che illumina le menti, ravviva i cuori, rigenera le anime, e, attraendo da ogni parte i fratelli dispersi, ricompone nell’unità della fede, della speranza e dell’amore l’umana famiglia non ha cessato mai di farsi udire alle genti (...).

Andate, adunque, o generosi Apostoli di G.C. ove egli vi chiama. Vi aspettano, lo so, grandi fatiche, pericoli non lievi, tribolazioni molteplici, lotte e sacrifizii continuati, ma non temete: vi accompagna la Croce. Vi accompagna la Croce, accenno ai suoi passati trionfi, arra dei trionfi futuri a vostro conforto, la Croce che, già obbrobrio al gentile, scandalo al giudeo, ha preso possesso della terra (...).

Non temete: vi accompagna la Croce: la Croce è la difesa degli umili, la depressione dei superbi, la vittoria di Cristo, la sconfitta dell’inferno, la morte dell’infedeltà, la vita dei giusti, la pienezza di tutte le virtù. La Croce è la speranza dei Cristiani, la risurrezione dei morti, la consolazione del povero, il legno della vita eterna, la forza di Dio. Non temete; vi accompagna la Croce: è la Croce che forma gli eroi della Religione, che li sostiene, li anima, li guida, li rapisce, li rende superiori alla carne, al sangue, alle sue gioie, ai suoi dolori, infonde nell’animo loro i santi desiderii del martire di Cristo, che sa vivere e morire esclamando: Viva Gesù, viva la Croce, viva il martirio: absit gloriari nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi.

La Croce è follia pel mondo, ma per voi diverrà sapienza e vita e più vi varrà un’ora sola spesa a meditarla che lunghi anni consumati sui più dotti libri, che da soli gonfiano e perdono, e senza di loro, colla sola Croce si sale in alto nella scienza di Dio. Ah sì la Croce vi sarà un balsamo per ogni ferita, un lenitivo per ogni dolore, un sostegno per ogni debolezza, un conforto per ogni affanno, uno schiarimento per ogni dubbio, un lume per ogni oscurità. Nelle afflizioni, negli scoraggiamenti, nelle disillusioni stringetevi al cuore la Croce che v’ho consegnata, e coll’accento di un intero abbandono nelle mani di Dio, levando gli occhi al Cielo, ripetete: Fac me cruce inebriari; absit gloriari nisi in cruce D.N.I.C. e il cuor vostro si dilaterà e l’anima vostra si aprirà a tutte le dolcezze della cristiana speranza e le vostre opere saranno tutte rese preziose pel Cielo[52].


 

 

2. «VIVO NELLA FEDE DI GESÙ CRISTO»

 

La fede è una nuova creazione, per cui Dio ci dona se stesso, ci partecipa la sua vita. La fede è vita, non filosofia. È la verità, la perfezione, il bene.

Al dono di Dio l’uomo corrisponde con il dono di sé, che lo consacra a Dio, lo fa «santo». La vita del giusto è credere in Cristo, sorgente di tutte le virtù. La fede è grazia che «divinizza» l’essere umano, ispirando l’ascesi che eleva l’esistenza quotidiana all’unione con Cristo.

La fede è alimentata dalla preghiera, che è «Dio infuso nel nostro cuore». L’uomo orante è voce dell’universo, la preghiera è il vincolo dell’umanità, è comunione con la preghiera di Cristo e della Chiesa. La preghiera è l’onnipotenza di Dio messa a nostra disposizione. Chi non prega non vive.

La fede legge e interpreta la storia come storia di salvezza. Dio salva l’uomo nella storia dell’uomo. I suoi disegni sono misteriosi ma infallibili: non possiamo dubitare, la società umana si matura, anche attraverso la sofferenza e i cataclismi, per il Regno di Dio. Gli eventi storici e le trasformazioni sociali preparano l’avvento di un’umanità unita in un solo ovile sotto un solo pastore, facendo di tutti i popoli una sola famiglia di un unico Padre, per Cristo e la Chiesa.

Il progresso vero è Gesù Cristo. Fede e ragione, religione e scienza, teologia e filosofia, tutto è da Dio e di Dio, unica Verità.

 

 

a) IL MASSIMO DONO DI DIO

 

«La fede è il massimo dei doni di Dio»

 

La fede è un dono di Dio, il primo anzi e il massimo dei doni che Dio nella sua infinita misericordia ne abbia elargito. Infatti senza di essa è impossibile piacere a Lui, ed appartenere alla eletta schiera dei suoi figli; essa è l’inizio e il fondamento dell’umana salute, il cardine e la radice di ogni giustificazione (...).

Che è questa fede? È un raggio di luce, che si spicca dal trono di Dio e scende a illuminare la tenebra, fra cui vanno brancolando i miseri figli di Adamo; è una seconda creazione, grazie alla quale l’uomo, che era scaduto dalla sua dignità, si rialza dal suo nulla, grande ancora fino ad arrivare al Creatore; è la vita, non che altro, del genere umano, come nella mancanza di lei è morte (...).

Che è questa fede? È il solo mezzo, che dopo tutte le indagini e tutti gli studi per nobilitare l’uomo, sia atto ancora a medicare le nostre ferite, ad aggrandire la nostra piccolezza, essendo per lei che l’umana intelligenza scorre per il tempo e per l’eternità, e il nostro pensiero passa dall’ultimo granellino di sabbia alla immensità dell’Essere increato[53].

 

 

«La religione non è un sistema filosofico»

 

Questa Religione però (...) non è già una serie di verità speculative, ordinate unicamente a perfezionare l’intelletto, non è già un sistema filosofico, non è già un complesso di idee e nulla più. Ma come quella che dimana immediatamente da Dio, che è ad un tempo stesso la prima verità, il sommo bene, la infinita bellezza, la essenziale santità, il centro e la fonte di ogni perfezione, ella tende necessariamente a nobilitare, a divinizzare, in certa maniera, tutte le umane facoltà, indirizzandole al loro ultimo fine. All’intelletto essa è luce infallibile, che dissipandovi le tenebre accumulate dall’ignoranza e dall’errore, gli dischiude i tesori della divina sapienza. Alla volontà essa è ardore celestiale, che sollevandola oltre la cerchia dei beni limitati e caduchi, la innamora delle infinite bellezze del sommo ed eterno bene. Alla coscienza essa è regola sicura, che preservandola dai falsi dettami suggeriti dall’orgoglio e dalle corruttele, la armonizza coi dettami della legge eterna di Dio (...).

Essa, in una parola, è l’ordine, l’armonia, la pace, la perfezione di tutto l’uomo, vuoi in ordine a Dio, vuoi in ordine ai prossimi, vuoi in ordine a sé medesimo; immagine ed amore di quell’ordine, di quell’armonia, di quella pace, di quella perfezione, senza confronto più avventurosa, che gli è preparata nel Cielo[54].

 

 

«Che cosa sarebbe l’uomo senza la fede?»

 

La fede! Essa è che a Dio ci avvicina e ce ne scopre gli arcani; essa che illumina e sublima la nostra ragione, essa che nobilita i nostri affetti, essa che infonde nell’anima nostra il balsamo delle celesti consolazioni, il coraggio, la forza per sostenere le lotte della vita. Che cosa sarebbe l’uomo senza la fede? Senza la fede l’uomo nulla conosce di vero soprannaturale, nulla sa di santo, nulla può operare di bene e di virtuoso, che sia meritorio di eterno premio (...). Senza fede, l’uomo è perduto.

È la fede che ci rivela con sicurezza la nostra origine, il nostro decadimento, la nostra rigenerazione in Cristo, il nostro destino immortale. È la fede che ci addita tutti i mezzi per giungere a possederlo, quali sono i sacramenti, l’orazione, le opere buone. È la fede che ci fa riguardare tutti gli uomini come fratelli. È la fede che in tutti gli avvenimenti di quaggiù, lieti o tristi, ci fa vedere la mano pietosa di Dio, che tutto dispone per il nostro meglio[55].

 

 

«L’uomo non cerca che la perfezione infinita e l’infinito bene»

 

Creato da Dio per Iddio, non può il cuor dell’uomo esser perfetto che in Dio e con Dio, e siccome la perfezione è lo stato naturale, è il fine cui tendono tutti quanti gli esseri, così il cuore umano ha un’inclinazione innata, necessaria, indistruttibile di unirsi a Dio, di saziarsi in Dio e d’immedesimarsi con Lui: fecisti nos, Domine, ad te; et inquietum est con nostrum, donec requiescat in te. In questa vita ancora l’uomo non brama, non cerca, non vuole che Dio. Quindi il domandarlo a tutto ciò che lo circonda; quindi il volare incontro a tutto ciò in cui si trova una scintilla di bene, emanazione dell’infinita bontà; quindi lo sdegnar sempre i beni presenti e l’anelar del continuo ai lontani, perché i beni lontani gli si presentano come un non so che d’infinito. In quella maniera che all’eterno vero l’uomo aspira sempre in tutto quello che pretende conoscere, allo stesso modo, scrive S. Dionigi, al bene eterno egli sempre si volge in tutto quello che pretende di amare[56].

 

 

«Un uomo che ha con sé Iddio che cosa non ha?»

 

Dio propriamente ed essenzialmente è carità. Chi adunque sta nella carità sta in Dio e Dio in lui, perché una medesima cosa è Dio e carità: Deus charitas est: et qui manet in charitate in Deo manet et Deus in eo.

E un uomo che ha con sé Iddio che cosa non ha? Quid non habet si Deum habet? Ipse est pax nostra. Ha soprattutto la pace, quel riposo cioè degli affetti, quella calma del cuore sì soave, sì dolce, sì ineffabile, che avanza, al dir dell’Apostolo, ogni senso di terrena dolcezza: pax Dei quae exsuperat omnem sensum. Questo godimento dell’anima viatrice, questo stato di calma pieno di fiducia, questo riposo pieno di consolazione, quest’armonia piena di soavità, questa pace piena di amore, è in verità, il più bel saggio, la più vera immagine della beatitudine celeste, poiché, secondo la grave sentenza di Agostino, nella pace è riposta la beatitudine (...).

O pace dell’anima, vero tesoro, conforto e delizia di chi la possiede! o pace dell’anima, che cominciando nell’intelligenza per la fede alla parola divina, discende nel cuore per il possesso della divina carità; o pace dell’anima che non gustata non si arriva a comprendere, dove, dove trovarti quaggiù fuori della fede?[57].

 

 

«I misteri della fede spandono ombra e luce»

 

La fede è necessaria alla nostra condizione attuale, come è necessario affumicare il cristallo a chi guarda il sole, se non vuol essere abbagliato. È necessaria, perché essendo Iddio infinito e noi limitati, essa deve arrivar là dove la ragione non arriva. La fede è alla ragione ciò che il telescopio è alla nostra debole vista. Se voi in una notte serena alzate gli occhi al Cielo vedete una infinità di stelle, ma colà dove l’occhio nulla discerne, il telescopio scopre nuovi mondi e incognite meraviglie. Così il nostro spirito poco o nulla sa in ordine ai grandi problemi della vita. È la fede che ci rivela il mondo soprannaturale, dove ogni problema trova la sua ragionata e piena soluzione. È la fede che rischiara la nostra intelligenza, che ci illumina intorno alla nostra esistenza, al nostro destino avvenire. Le ombre del mistero devono, anziché diminuire la nostra fede, aumentarla (...).

I misteri della fede, impenetrabili in se stessi, sono poi ricchi di splendori ineffabili, e come la colonna che guidava nel deserto il popolo di Dio, spandono ombra e luce. Vedete di nuovo Betlemme. Un Dio che vagisce bambino! in una stalla! Quali ombre! quali misteri! Ma insieme quali sprazzi di luce! che magnificenza di portenti! Tutto era profetato. Il luogo, il tempo, il modo di tanti fatti erano scritti nei libri santi, molti secoli prima. Ed ora si sono commossi i cieli, moltitudini di spiriti celesti librati sull’ali d’oro intuonano il cantico della gloria, splendori di paradiso rompono le fitte tenebre della mezzanotte, illuminano le rozze mura delle capanne, il deserto, i pastori; la stella appare in Oriente, e i sapienti e i re si succedono ai pastori negli omaggi dell’adorazione; il cielo e la terra, gli angeli e gli uomini, il passato, il presente, l’avvenire formano intorno alla culla del cristianesimo come un immenso diadema di luce, che rende la nostra fede al sommo gloriosa e ragionevole[58].

 

 

 

b) LA RISPOSTA AL DONO DI DIO

 

«La fede è la sorgente di ogni santità»

 

La fede, voi sapete, è il principio, il fondamento, la radice di ogni giustificazione, e perciò la sorgente di ogni santità: Justus ex fide vivit. Solo dunque perché vissero di fede e conforme ai dettami della fede, i santi tutti divennero tali, divennero cioè, secondo gli eterni disegni della multiforme grazia di Dio, uomini di apostoliche fatiche, di meravigliose opere fecondi, uomini di orazione, di penitenza, di sacrificio, uomini che percorrendo la carriera mortale nelle svariate condizioni della vita si mostrarono angeli in carne, specchi sublimi di ogni più bella virtù, morti al mondo, vivi solo alla grazia del Signore, poco curanti del presente, ma sempre solleciti del secolo futuro: Sancti per fidem vicerunt regna, operati sunt iustitiam, adepti sunt repromissiones[59].

 

 

«Il giusto vive di fede»

 

Alla luce di questa fiaccola divina, il cristiano conosce in modo infinitamente più perfetto che qualunque dei più rinomati sapienti, il vero scopo della vita presente e il suo destino futuro; giudica delle cose umane, dei suoi doveri verso Dio, verso i prossimi, e verso sé stesso, in una maniera al tutto contraria alle apprensioni dei sensi e di gran lunga superione a tutti i lumi dell’umana ragione. Come coi sensi corporei vede, tocca e sente le cose materiali e sensibili, così colla fede infusagli, vede, tocca e sente le cose future e celesti: Justus ex fide vivit.

Crede, e la sua intelligenza è occupata ad intendere e a contemplare le cose credute meglio che se le vedesse cogli occhi del corpo. Spera, e le sue speranze sono concrete, reali, sostanziali per modo che i suoi affetti vi si avvinghiano tenacemente con tutta la energia di cui sono capaci. Ama, ed il suo cuore è fiamma che distrugge ogni dubbiezza, è vampa di fuoco, che si eleva al cielo. Egli quasi più non sente la terra; sente solo il suo Dio, vive del suo Dio, pensa, parla ed opera col suo Dio, e pel suo Dio soffre, combatte e muore: Justus ex fide vivit [60].

 

 

«La fede ispira tante virtù modeste, ma grandi»

 

La fede, qual fulgida stella, si leva sul mondo e lo illumina dall’uno all’altro polo con chiarezza stupenda (...).

Essa è che spinge il missionario ad abbandonar patria, parenti, amici, onori, ricchezze, e attraverso oceani tempestosi e orridi deserti, a penetrare nei più inospiti luoghi, nelle contrade più barbare e più crudeli in cerca di selvaggi per farli prima uomini, poi cristiani, senz’altra speranza che quella di coronare una vita di apostolo, una vita di stenti, di privazioni, di croci, colla morte di un martire.

Essa è che anima tante vergini a far sacrificio della loro gioventù, dei loro agi per dedicarsi all’istruzione delle figlie del povero, per apprestare nelle prigioni, negli ospedali, sui campi di battaglia, colla parola del conforto, i soccorsi della carità.

Essa è che ispira tante virtù modeste, ma grandi; ignote al mondo, ma note a Dio; virtù che abbelliscono il santuario della famiglia e vi mantengono, colla santità, l’ordine, la concordia, la pace. Essa è infine che incoraggia tanti di ogni sesso, d’ogni età, d’ogni grado a star fermi di fronte agli scandali più enormi, a non temere il biasimo dei mondani, né il sarcasmo degli empi, né la persecuzione dei tristi, né i pericoli della vita per non violare la modestia, per conservare la pietà, per confessare in faccia a tutti Gesù Cristo[61].

 

 

«Potessi santificarmi e santificare tutti»

 

Sebbene nei santi Esercizi, non posso tralasciare di inviarle tosto una parola di vivo ringraziamento del gentile ricordo. I nobilissimi sentimenti che volle esprimermi nel 27° anniversario della mia consacrazione a Vescovo di Piacenza, mi hanno soavemente commosso. È un lungo periodo pieno di croci e di amarezze, dono anch’esse della mano di Dio, che governa i Suoi pastori con una provvidenza piena di misteri. Così potessi santificarmi e santificare tutte le anime affidatemi![62].

 

 

«Mi spavento della indegnissima mia indegnità»

 

Oggi giorno della mia consacrazione. Mio Dio abbiate misericordia di questo povero Vescovo! Ahimè quanti anni perduti! È il 18°. Mi spavento della indegnissima mia indegnità. Bisogna che incominci daccapo: rendermi meno indegno della dignità divina di Vescovo: elevarmi - nobilitarmi - divinizzarmi. Episcopus post Deum terrenus Deus. Mio Dio, Nunc coepi col vostro divin aiuto. Rinnovo i proponimenti dei Santi Esercizii. O mio Signor Gesù Cristo, figlio di Dio vivo, abbiate misericordia di me povero peccatore[63].

 

 

«Mi offro a Lui con una vita santa»

 

Ut sisterent eum Domino. Maria SS. con Giuseppe porta Gesù al tempio per offrirlo all’eterno Padre in nome di tutto il genere umano - Quali pensieri ed affetti ebbe Maria in quell’oblazione solenne? E S. Giuseppe? Gesù si offre per la salvezza dell’umanità e di me affinché io mi offra a Lui con una vita santa.

È il giorno della grande oblazione: offri l’umanità SS. di Gesù Cristo al Padre e offriti con lei: Per ipsum et in ipso et cum ipso.

O mio Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di me povero peccatore[64].

 

 

«Nulla vi è di più naturale del soprannaturale»

 

Nulla vi è di più naturale del soprannaturale[65].

 

 

«Un Vescovo deve essere mosso in ogni azione dallo Spirito Santo»

 

Un Vescovo deve essere mosso in ogni azione dallo Spirito Santo, segreto motore dell’umanità santissima di Gesù Cristo.

Deve farsi violenza per farsi santo.

Il Vescovo deve essere vergine, confessore, martire.

Vergine per la purità di vita: guai si iniqua gerit in terra sanctorum; non videbit gloriam Domini! Piuttosto morire mille volte che macchiare l’altezza del carattere sacerdotale con un peccato carnale!

Confessore per lo zelo costante, per le fatiche incessanti del Sacro Ministero.

Martire soffrendo pazientemente le croci, le tribolazioni, le ingiurie, le noie delle udienze, ecc.

Essere sempre grave, irreprensibile, modesto, dolce e forte, grande e nobile in tutte le cose.

Elevarmi, nobilitarmi, purificarmi, divinizzarmi!

Tantum proficies quantum tibi vim intuleris[66].

 

«Prometto»

 

1° Una mezz’ora di meditazione giornaliera: almeno 20 minuti. Nei giorni di visita, di viaggio o di grandi feste, almeno 10 minuti. Mi obbligo sub gravi. Senza vincolo di voto prometto:

La lettura spirituale giornaliera.

La visita al SS.mo Sacramento: almeno una.

4° La recita del SS.mo Rosario.

5° L’Angelus, mattina, mezzodì, sera.

6° Le orazioni del mattino e l’esame di coscienza alla sera e dopo l’Angelus del mezzodì.

7° Rinnovare l’intenzione di far tutto a gloria di Dio innanzi alle azioni principali, come l’udienza ecc.

 

Ogni settimana

La confessione, ma, per carità, ben fatta, ben fatta!l... Mi ci vuole un altro confessore. Il presente è un santo prete, lo credo, ma non mi corregge. Sceglierò un altro.

Pregare e decidere.

Forse Dio vuole questo sacrificio per accordarmi la grazia che aspetto da tanto tempo.

 

Ogni mese

Un giorno di ritiro. La seconda domenica di ogni mese. Due meditazioni sui nuovissimi e due letture spirituali. Il resto del giorno passarlo, possibilmente, nell’orazione, come dovessi morire la sera stessa.

Farlo - farlo bene - con diligenza.

È la mia salvezza!

Se voglio, posso: Dio mio, aiutatemi.

Propositi particolari da osservarsi sub poena damnationis:

1° Prontezza nel cacciare ogni pensiero immondo... senza di questo si perirà... si perirà.

2° Custodia rigorosa degli occhi: ciò che per altri è nulla, per me è fatale.

3° Recitar l’ufficio nel miglior modo possibile, applicandolo ogni giorno per qualche bisogno particolare. Ogni sera esaminare come l’ho recitato.

Ogni mese una meditazione sul «digne, attente, devote»!...

Quanto tempo perduto! ...

4° Apparecchio e ringraziamento della S. Messa.

Oh! se potessi far prima la S. Meditazione! Quale apparecchio! Su, coraggio! Alzati per tempo. Mio Gesù Sacramentato, aiutatemi!

Hoc fac et vives.

Mi renderò famigliare l’uso delle sante giaculatorie... spesso... spesso...

Fac me cruce inebriari! Dio ci educa colle tribolazioni, colle umiliazioni, colle pene, colle noie del ministero, delle udienze: ci conserva, ci illumina, ci rende grandi: amar quindi le croci: stringere la croce pettorale al cuore e ripetere di frequente: Fac me cruce inebriari!...

Grande e vera devozione alla cara, soavissima Madre Maria[67].

 

 

«Propongo»

 

Propongo:

1° Un’oretta di meditazione compreso l’apparecchio alla Messa.

2° L’osservanza giornaliera delle pratiche di pietà promesse negli esercizi e l’uso frequente delle sante Giaculatorie.

Mio Dio: amor mio, mio tutto, aiutatemi! Maria SS.ma Assunta, Protettori miei, mi raccomando a Voi!

Recitare nel miglior modo l’ufficio digne, attente, devote.

Le ore 3a, 6a e 9a, Vespro e Compieta in ringraziamento: Mattutino e Lodi in apparecchio alla Santa Messa.

Avere sempre qualche intenzione particolare...

Mi renderò familiare l’uso delle giaculatorie.

Fac me cruce inebriari! ripeterò spesso stringendo al cuore la Croce pettorale.

Le umiliazioni, i dispiaceri, le ingiurie, le delusioni amare entrano nei disegni di Dio... non mi mancarono mai, né mi mancano al presente... Dio mio, siate benedetto!

Coraggio nella Croce di Gesù Cristo!

7° Costante tenera devozione alla Madonna. È Madre mia e tutto mi otterrà se le sarò vero e sincero devoto!

8° Farò, nei giorni un po’ liberi, uno studio sopra i Salmi usitati; noterò in appositi foglietti, da tenere nel breviario, il senso, l’ispirazione, lo scopo profetico, ecc...

Comincerò dalle ore... Ogni giorno un salmo! Quante benedizioni farò scendere su di me e sulla diocesi se reciterò da santo l’Uffizio!

9° Meditare spesso che il peccato di un Vescovo è quel Mysterium iniquitatis, pel quale, iam non relinquitur hostia.

Cosa da far agghiacciare il Sangue! Mio Dio, misericordia!

10° Nei giorni di ritiro, almeno, rileggerò queste note, facendovi sopra le più serie riflessioni...[68].

 

 

«Che lo Spirito Santo abiti in me, mi governi, mi conduca»

 

1. Lo Spirito Santo era il secreto motore dell’umanità SS. di G.C.: agebatur a Spiritu.

Lo Spirito S. infondeva nell’anima di G. C. quei trasporti di gioia purissima, ineffabile, divina di cui parla di Vangelo: è necessario:

che lo Spirito Santo abiti in me, mi governi, mi conduca - sine tuo numine nihil est... dev’essere il segreto motore di ogni mia azione - specialmente in questi Esercizi. Veni, veni, veni S. Spiritus!

2. Dio mi ha creato, bisogna servirlo - la creazione continua nella conservazione e la mia servitù è indistruttibile; gli Angeli e i Santi sono servi di Dio - gli Apostoli si gloriano di essere servi di G.C. Servus tuus ego sum - Bisogna dunque darsi al servizio di Dio ex toto corde.

Quanto è folle il Vescovo che non si dà toto corde al servizio di Dio puramente, semplicemente, senza secondi fini - Salvum me fac, Domine!

Quanto è felice l’uomo che si dà interamente al servizio di Dio. Gode gioie vivissime! Mio Dio aiutatemi! Veni, veni Sancte Spiritus!

3. Bisogna avere la santità interiore. G.C. è il solo Sacerdote: il sacerdozio è uno e sempiterno. Ogni prete e più il Vescovo è l’agente principale del sacerdozio di Cristo: quindi estote perfecti: è un comando.

Che fare? Imitare sempre e in ogni cosa G.C. Pensare come Lui, parlare come Lui, operare come Lui, vivere come Lui. O Gesù aiutatemi.

Fare un buon regolamento con la confessione ottiduana.

Metto questo sotto la protezione speciale di Maria delle Grazie[69].

 

 

«È necessaria la vita interiore»

 

Certo il governo di una Diocesi è cosa santa, viene dal soprannaturale ed in esso conduce, ma si è assai distratti! Io sento ogni dì più vivamente che per portare, senza cadervi sotto, il fardello episcopale della vita esteriore, è necessaria la vita interiore, nella quale soltanto si trova la consolazione, la forza, il sentimento interno, la luce, la pace che sostiene, il manna absconditum. Io le sento queste cose, le dico, ma quanto ad agire e a fedeltà a Dio sono lontano quanto la terra lo è dal Cielo; voi non le dite, ma le fate certamente e voi beato[70].

 

 

«Ecco l’unica mia aspirazione»

 

Le cose cui aspiro sono: fare il bene, far tutto il bene possibile, ecco l’unica mia aspirazione[71].

 

 

c) LA PREGHIERA ALIMENTO DELLA FEDE

 

«La preghiera è Dio infuso nel nostro cuore»

 

La preghiera è senza dubbio la funzione più nobile e più gloriosa che l’uomo possa esercitare in questo mondo e ci conferisce una grandezza al tutto sovrana. Non solo essa ci mette in intimo rapporto con tutto che vi è di vero, di bello, di santo in cielo e sulla terra, ma ci rende altresì partecipi dell’amicizia di Dio, delle sue più tenere effusioni, delle sue più intime confidenze. La preghiera è Dio che, invocato, discende; Dio versato, infuso nel nostro cuore, secondo la bella espressione di s. Agostino; Dio, nostro Creatore, nostro padre, nostro Redentore, nostro amico, nostro fratello, che ci guarda e ci ascolta, che sorride benevolo ai nostri omaggi e ai nostri affetti[72].

 

 

«Quando noi preghiamo, è l’universo che prega in noi e con noi»

 

In mezzo a questa creazione silenziosa e muta mancava una lingua per benedire il Signore, mancava un cuore per amarlo. Dio creò l’uomo, e, avvivandone le labbra, volle che la natura tutta quanta potesse trovare una voce che fosse come l’inno dell’adorazione e del ringraziamento. Questa voce, che sale a Dio in nome dell’universo, di cui l’uomo può dirsi l’organo e il rappresentante, è appunto la voce della preghiera.

Sì, dilettissimi, quando noi preghiamo, è l’universo che prega in noi e con noi, e l’universo di cui noi siamo un compendio, sono tutte le creature che prendendo una voce e un’anima, lodano, benedicono, ringraziano, glorificano, esaltano Colui che le trasse dal nulla: Benedicite, omnia opera Domini Domino[73].

 

 

«L’uomo solo resterà muto in mezzo a tanta armonia?»

 

Quando il sole piove sul mattino la sua luce sul fiore avvizzito, questo apre tosto il suo calice e, con un grazioso movimento, si drizza verso il benefico astro, quasi per attestargli, in quel modo che gli è dato, la sua gioia, la sua riconoscenza. L’erba che spunta, la stilla che cade, il vento che spira, l’uccello che vola, il mare che mugghia, la stella che brilla, tutta insomma la creazione non è altro, secondo il linguaggio dei Libri santi, che un immenso inno di benedizione e di lode al supremo Fattore. E l’uomo, questo re del creato, che tutto ha ricevuto dalla mano di Lui, la sovranità, la forza, l’intelligenza, la vita, l’uomo solo resterà muto in mezzo a tanta armonia? Si mostrerà l’essere più ingrato di tutti, perché di tutti il più favorito? Collocato più davvicino al trono dell'Altissimo, e ciò senza alcun precedente suo merito, non dovrà invece essere il primo a riconoscerne il supremo dominio? Non comanderà alla sua fronte di curvarsi, alla sua lingua di sciogliersi, a tutta la sua persona di prostrarsi e di rendergli l’omaggio della sudditanza dovutagli? Sì, dilettissimi, sì; il nostro corpo, che è della creazione il capolavoro, destinato con l’anima alla gloria, deve esso pure, seguendo gl’interiori movimenti, glorificare alla sua maniera il Creatore Supremo. «Il mio cuore e insieme la carne mia, esclamava il Profeta, esultano nel Dio vivo» e Gesù Cristo medesimo, in quanto uomo, pregava il celeste suo Padre con le ginocchia piegate e con la fronte curvata al suolo[74].

 

 

«La preghiera è il vincolo dell’intera umanità»

 

La preghiera rende l’uomo maggiore di sé, lo trasfigura, lo sublima, lo divinizza. Nella storia delle anime non vi è fatto più comune della conversione accordata alla preghiera dei santi. Di un Saulo persecutore ne forma un apostolo. E quanti Agostini sono figli delle lagrime e delle preghiere materne!

La preghiera è il vincolo della intiera umanità. Sieno pure immense le distanze, insormontabili fin che si vogliano le barriere che ci separano gli uni dagli altri, essa tutti avvicina, tutto riunisce. È la preghiera che stringe i viventi tra loro e i viventi coi trapassati, che collega la famiglia della terra con la famiglia del cielo, che forma tra la Chiesa militante, purgante e trionfante quel flusso e riflusso di suppliche e di intercessioni che la teologia chiama la Comunione dei Santi. Al di sopra di qualunque ostacolo essa, la preghiera, stabilisce come una corrente elettrica che va da fratelli a fratelli, e passando per il cuore di Dio, centro e focolare dell’amore, forma, si può dire, di tutti i cuori un sol cuore, di tutte le famiglie una sola famiglia[75].

 

 

«Lo stesso Verbo di Dio pregò»

 

E poiché il Verbo di Dio si fece uomo per ammaestrarci, non solo coi precetti, ma ancora cogli esempi, egli stesso pregò il Padre, egli che col Padre era una sola cosa, egli a cui il Padre aveva dato in potestà tutte le cose. Pregò raccolto nel deserto; pregò tutto solo sul monte, vegliando la intera notte; pregò alla tomba di Lazzaro e all’entrata in Gerusalemme; pregò prima di dar principio alla sua missione; pregò nel tempio, nel cenacolo, nel Getsemani, sul Calvario; pregò fino all’ultimo respiro per istrappare ai supplizi eterni l’umanità che in lui sbigottita tremava, sudava sangue e cadeva sotto i colpi di morte (...).

Ora, esclama s. Cipriano, se ha pregato Gesù, che era il Santo dei Santi, quanto più non debbono pregare i peccatori? Se prega il Capo, come non pregheranno le membra? E se il divino Maestro così profondamente ha sentito la necessità della preghiera, come non dovranno sentirla i discepoli?

Anche l’esempio della Chiesa nostra Madre deve persuaderci, o cari, della necessità della preghiera. Tutta la sua vita come quella del suo divin Fondatore, è, si può dire, una preghiera continua. Essa prega tutti i giorni e tutte le ore del giorno; prega per sé, prega pei figli che lottano in questo mondo, prega per quelli che usciti di questa vita gemono nel Purgatorio, prega ai peccatori la conversione, ai giusti la perseveranza, ai moribondi la finale vittoria, a tutti la grazia dell’eterna salute, prega Dio, la Vergine, i Santi; prega per i beni necessari alla vita, prega per la estirpazione degli errori, per il trionfo della verità e della giustizia, e i suoi templi risuonano sempre della preghiera[76].

Né solamente sulla terra, ma anche in cielo la Chiesa cattolica prega. Io, dice un pio e dotto scrittore, non ho mai recitato, o sentito recitare le Litanie dei Santi, senz’ammirare della gran legge della preghiera le misteriose profondità, le altezze sublimi. Sulle ali della fede levandoci in alto e penetrando nel glorioso santuario del Signore noi volgiamo attorno lagrimose le pupille, e genuflessi diciamo: Santa Maria, pregate per noi: santi angeli ed arcangeli, pregate per noi: santi apostoli, pregate per noi: santi patriarchi e profeti, pregate per noi: santi martiri, santi confessori, sante vergini, pregate per noi: Santi tutti del paradiso, pregate per noi. Nel cielo dunque si prega, e si prega da tutti. Pregano le vergini, pregano i confessori, pregano i martiri, gli apostoli, i profeti, i patriarchi, tutti i nostri fratelli che ci precedettero nella via della beata eternità. Non basta. Gli angeli, gli arcangeli, i troni, le dominazioni, i principati, le potestà, i cherubini, i serafini, tutti quanti gli angelici cori, pregano ancora. Che più? La Regina degli angeli e dei Santi, la corredentrice del genere umano, Maria Santissima prega essa pure. E voi, o mio Gesù, voi pure anche lassù pregate; pregate con la voce, con le cicatrici delle vostre piaghe, con lo spettacolo augusto della vostra umanità glorificata; voi state sempre vivo, alla destra del Padre, a fine di pregare continuamente per noi: semper vivens ad interpellandum pro nobis[77].

 

 

«L’uomo parla e Dio l’ascolta,  l’uomo comanda e Dio obbedisce»

 

Che cosa è infatti la preghiera? È la elevazione dello spirito a Dio, sorgente della vita, e il misterioso legame di quel commercio meraviglioso che esiste tra l’uomo e il suo Fattore. Essa impenna al volo l’anima nostra, la solleva al di sopra di questa regione di dolore, la trasporta in seno alla divinità. Il corpo è sulla terra, ma l’anima è in cielo. L’uomo parla e Dio ascolta, l’uomo comanda e Dio l’esaudisce; diciamolo arditamente, l’uomo comanda e Dio obbedisce: Voluntatem timentium se faciet, et deprecationem eorum exaudiet[78].

Questo colloquio lassù si chiama lode, estasi, amore, beatitudine, felicità sempiterna; quaggiù è un po’ di tutto questo, e si chiama preghiera. Essa è dunque sulla terra il preludio della vita immortale.

È appunto da questo contatto con la Divinità che l’uomo attinge sovrumana energia. Due grandi cose io ammiro in cielo e sulla terra: in cielo la potenza del Creatore, sulla terra la potenza della preghiera. Sia pur debole l’uomo quanto si voglia, se egli prega diventa forte della forza stessa di Dio: nihil potentius homine orante. Udite l’Apostolo: Io, egli dice, posso tutto, assolutamente tutto; omnia possum. E come mai? Io posso tutto per la preghiera; posso tutto in Colui che, invocato da me, da me pregato, mi corrobora, mi conforta, mi consola: omnia possum in eo qui me confortat.

La preghiera, quando sia umile, non solo agguaglia, ma supera, direi quasi, la potenza stessa di Dio: Dio è onnipotente, dice il Profeta, e chi può resistergli? La preghiera, rispondo io[79].

 

 

«I celesti parafulmini»

 

Al vedere i delitti moltiplicarsi oggi così spaventevolmente, domandasi da molti come mai il Signore pazienti tanto, e perché la folgore non scenda. Miei cari, levate lo sguardo alle cime del mondo spirituale; voi vedrete i celesti parafulmini. La folgore guizza fremendo, ma allorché vuol scoppiare, trovasi obbligata a seguire quei fili conduttori, e stupisce ella stessa di vedere la sua forza in un attimo spenta. Fuori di metafora. Voi osservate i buoni che pregano, i ministri di Dio che pregano, tante anime separate dal mondo che pregano. Ecco svelato il mistero. Quelle anime sono le sentinelle avanzate del genere umano, sono vittime volontarie che coi loro gemiti e le loro preci, rese dalla penitenza ancor più valide, placano la divina giustizia e fanno rientrare nel fodero la spada vendicatrice. Se noi potessimo penetrare nei segreti di Dio, stupiremmo al vedere qual posto grande occupi la preghiera dei giusti nei piano della Provvidenza e quale azione benefica ella eserciti sulla vita dei popoli e sui destini degl’imperi[80].

 

 

«Non vi è persona affrancata  dalla legge della preghiera»

 

Oh, sì! pregate. Non vi è persona affrancata da questa legge. Pregate se virtuosi, per mantenervi tali; pregate se peccatori, per risorgere dallo stato vostro lagrimevole. Pregate gli uni gli altri per andar salvi, poiché sta scritto: Molto può l’assidua preghiera del giusto. Pregate con umiltà, con fiducia, con perseveranza. Pregate fra le domestiche pareti e pregate nel tempio. Pregate specialmente con quella preghiera santa e sublime che Gesù Cristo stesso, come già vi ho detto, insegnò agli uomini, e con la quale domandiamo al Padre nostro che è nei cieli, la glorificazione del suo nome, la venuta del suo regno, l’adempimento del suo volere, il nostro cibo quotidiano, il perdono dei nostri falli, difesa ed aiuto in ogni nostra occorrenza[81].

 

 

«La preghiera è per noi un bisogno ingenito, istintivo, irresistibile»

 

Dio è autore supremo e sapientissimo di tutte le cose e tutto è nelle mani di Lui. Chi potrebbe negarlo, senza negare la propria ragione? In Lui, come dice l’Apostolo, noi viviamo, ci muoviamo e siamo. Egli ci ha dato l’essere, e in ogni istante l’essere ci conserva. Adunque se la nostra vita quaggiù è suo dono, se noi non siamo nostri, ma di Dio, è chiaro che a Lui dobbiamo perenne l’omaggio della nostra gratitudine, l’offerta della nostra sudditanza, il tributo delle nostre lodi, il culto della nostra adorazione, il sacrifizio di tutto noi stessi. E il sacrifizio è preghiera, il culto è preghiera, la lode è preghiera, la riconoscenza è preghiera (...).

La preghiera è per noi, creature ragionevoli, un bisogno ingenito, istintivo, irresistibile[82].

 

 

«Sa bene vivere chi sa bene pregare»

 

Quegli sa bene vivere il quale sa ben pregare, dice s. Agostino: Recte novit vivere, qui recte novit orare. La preghiera è la tessera del vero credente, è da sola una completa professione del cristianesimo, e compendia in sé l’esercizio di tutte le virtù più eccelse. Esercizio di fede, di speranza, di carità, di umiltà, di pentimento, di adorazione, di uniformità ai divini voleri, e come tale essa mai non può mancare di premio. Sollevando il nostro cuore a Dio essa ci distacca dai beni illusori di questa misera vita, e come tale essa alimenta in noi la vita dello spirito, ci avvezza alle cose dell’eternità, ci fa pregustare sulla terra la gioia e la pace degli eletti.

La preghiera è la luce, il calore, il nutrimento, il conforto, la vita dell’anima umana. L’anima soffre e vien meno se non respira quest’aria di cielo. Come il pesce, estratto dall’acqua, si dibatte e muore, così, dice il Crisostomo, muore l’anima che si sottragga a questo vitale elemento, che è la grazia di Dio respirata nella preghiera[83].

 

 

«Chiunque non prega non ha anima»

 

Chiunque non prega non ha anima. O non capisce, o non sente, o non ama.

La preghiera è la sorgente dei buoni e qualche volta dei grandi pensieri. Domandatelo a quelli che credono, è là ch’essi hanno trovato i lumi della fede; domandatelo ai santi, è là ch’essi han trovato i soccorsi della grazia; domandatelo ai geni, è là ch’essi han trovato i lumi della scienza[84].

 

 

«I disegni di Dio infallibilmente si compiranno»

 

Non vi scoraggi, o Dilettissimi, il prolungarsi dei mali. Ad un Dio onnipotente nessuna cosa è difficile, e nelle sue mani tutto serve al fine inteso. Anche i colossi che l’umano orgoglio ha saputo innalzare smisurati, immensi, sono da lui gittati a terra senza sforzo veruno. Ma si deve pregare e pregare costantemente e con fede per ottenere il trionfo della Chiesa e del suo Capo augusto, e se prodigi saranno necessari, Iddio li farà.

Pregò con fiducia e senza posa la Chiesa primitiva quando il Principe degli Apostoli era custodito in carcere e la perseveranza del pregare confidente inviò a Pietro un Angelo che, svegliatolo dal sonno in cui giaceva e rottegli le catene che lo tenevano legato, gli disse: Levati su, e viemmi dietro, e lo trasse dal carcere con infinita consolazione di tutti.

Pregò al principio di questo secolo con fiducia e costanza la Chiesa, immersa in grande tribolazione per le fortunose vicende del suo Capo. Ma quando ogni cosa pareva disperata, quando l’empietà con gioia infernale stava per intonare l’inno del trionfo e preparava la tomba per seppellirvi la Chiesa di G.C., ecco quasi per incanto caduta quella potenza formidabile e Pio VII, fra le acclamazioni dei popoli esultanti, in mezzo alla gioia indescrivibile del popolo piacentino, che commosse il venerando Vegliardo, che non cessava di esaltare la pietà e la fede dei vostri antenati e segnatamente del patriziato, eccolo far ritorno alla sua Roma e sedere tranquillo sulla Sede gloriosa di Pietro.

Anche al presente i tempi volgono tristi assai: la fede è ferocemente combattuta dai suoi nemici; la pietà è derisa; il giorno del Signore, il tempo sacro della Quaresima profanato (...).

La Chiesa, voi lo vedete, è stremata di ogni mezzo umano; le genti, nel fremito del delirio; i malvagi nelle tenebrose conventicole le giurano sempre guerra. Ma se tutti gli argomenti umani son svaniti, se la Chiesa non ha più armi per difendersi, ha però ancora un’arma che mai non si spunta, la preghiera. Questa è la nostra anima, questa è la nostra gloria[85].

 

 

d) LA STORIA LETTA NELLA FEDE

 

«Di questa catena la Provvidenza dirige le fila»

 

È legge della filosofia della storia che i grandi avvenimenti dell’umanità, come hanno ragione di effetto in rapporto ad altri avvenimenti che li precedono, così hanno essi ragione di causa in rapporto agli avvenimenti che li seguono.

Quindi quella catena di cause e di effetti che rappresenta il principio di causalità nell’ordine storico. Di questa catena la Provvidenza ha ordite e dirige le somme fila ai fini per essa intesi.

Ne segue da ciò che pretendere di voler distruggere i grandi fatti contemporanei, i quali non sono che conseguenza dei precedenti, e volerli distruggere o col dolce far nulla, oppure con una sistematica opposizione a priori, è per lo meno assai poco razionale. Se Napoleone I avesse voluto ricondurre la Francia al tempo di Luigi XVI o di Clodoveo, non sarebbe stato certamente né Console né Imperatore.

Che se all’opposto non disconoscendo quello che i tempi hanno operato, si distingua fra il bene ed il male, e si procuri di ricondurre l’umanità alle leggi della morale e della giustizia, con quegli argomenti che già un’altra volta hanno convertito il mondo, allora potrà sperarsi che gli avvenimenti, entrati nel dominio della storia, siano purgati dalla scoria che li involve, e siano indirizzati al vero vantaggio del genere umano[86].

 

 

«Il segreto della pazienza della croce»

 

Al vedere crescere rigogliosa la zizzania nel campo del gran padre di famiglia noi tremiamo più degli apostoli nel lago di Genezaret al suscitarsi della tempesta e come i servi della parabola vorremmo subito sradicare la mala erba, che il buon grano non ne soffra: temiamo che il disegno di Dio sia distrutto e gli empi trionfino. Quanto ci inganniamo nei nostri vani timori! Tutto è in mano a Dio. È una verità di fede. Dio è causa prima e l’uomo causa seconda, ma intelligente e libera, né sarebbe libera se non potesse allontanarsi dal disegno di Dio per seguirne un proprio. Dio potrebbe arrestarlo e punirlo sul fatto; che se non lo fa, S. Agostino ce ne ha dato la ragione luminosissima e tutto degna della bontà di Dio: omnis malus aut ideo vivit ut corrigatur; aut ideo vivit ut per illum bonus exerceatur; ma quanto al disegno di Dio non potrà mai nuocergli l’opera dell’uomo. Oh! siamo certi, che Dio lascia fare all’uomo finché esso non nuoce, ma invece rende servizio al suo divino disegno di trionfo per la Chiesa; ma allorquando gli reca impedimento, in un baleno cambia scena con quei mezzi misteriosi che tiene nelle sue mani e Balaam in un attimo è cambiato in un profeta al servizio di Dio. Quanti eventi nel mondo ci sembrano casi fortuiti, eppure sono disposizioni preparate da Dio, che quando meno vi si pensa atterra e rovescia tutti i castelli in aria degli uomini, che si credevano eterni (...). Dio conosce il tempo di edificare e il tempo di distruggere; e a tempo opportuno edifica e distrugge[87].

 

«I momenti della sua grazia non sono sempre i momenti della nostra impazienza»

 

Padrone assoluto e liberissimo dispensatore delle sue grazie dall’alto della sacra montagna di Sion ce le fa piovere come e quando meglio gli piace. A noi s’appartiene di starcene alle falde, umili e pazienti, per raccoglierle dalla sua mano munifica e liberale. Egli è padre che ci ama di immenso amore, né può non commuoversi alle sventure dei figli suoi; e quando non risponde subito alla nostra domanda, quest’è perché i momenti della sua grazia non sono sempre i momenti della nostra impazienza. Ma ben saprà ristorare colla grandezza dei suoi benefizii il ritardo che ci fece piangere e sospirare. Nulla perciò deve svellerci dal cuore la fiduciosa perseveranza per quanto lungo ci possa sembrare il ritardo del divino soccorso.

Mostriamo dunque che se Iddio vuol prendere sperimento della nostra fede, noi sapremo resistere generosi alla prova; che noi riposiamo tranquilli sopra la promessa infallibile di G.C. medesimo, che tutta la potenza dell’inferno non potrà mai prevalere contro la sua Chiesa, portae inferi non praevalebunt adversus eam; che il suo trionfo non può mancare, e sarà tutto insieme frutto e premio della nostra fiducia e della nostra preghiera. Ah, chi ha ferma in Dio la sua fede ed ha attaccata al Cielo l’ancora della sua speranza, spera contro la speranza istessa. Quando Cristo vorrà, comanderà ai venti e al mare, ed alla tempesta succederà tosto una grande bonaccia: et facta est in mari tranquillitas magna[88].

 

 

«Uomini di poca fede, perché dubitate?»

 

Il trionfo dei malvagi pertanto non deve punto disanimare i buoni, coloro, vogliamo dire, che si mantengono fedeli a Cristo ed alla sua Chiesa; giacché la condotta di Dio verso di Lei è piena sempre di sapienza infinita, non separando Egli mai il presente dall’avvenire e dalla eternità, e lo stesso suo apparente abbandono altro non essendo che un effetto del suo amore. La vita perciò della Chiesa è una vita di speranza immortale, né la sua speranza può andare fallita. S’ingannano dunque coloro, che si sforzano di attrarre a sé gli uomini della scienza, gli uomini del potere e delle ricchezze, la massa dei proletarii, per valersi della scienza, del potere e delle ricchezze, dell’influenza anche della forza affine di abbattere l’edificio innalzato da Cristo sulla terra e quasi si applaudono di esservi riusciti. Grandemente s’ingannano costoro; ma più grandemente s’ingannano quegli altri, i quali, in mezzo al flusso e riflusso di tante umane vicende, si irritano, si scoraggiano e quasi diffidano della Divina Provvidenza! Uomini di poca fede! Perché dubitate? Un vaso di creta, che, colpito da una verga di ferro, va in mille frantumi, è la figura di cui si serve il Profeta per dimostrare la facilità colla quale Iddio annienta i nemici dell’opera sua. No, non temete. Gloria e ignominia, dolore e allegrezza, turbamento e pace, vita e morte, maledizione e benedizione, tutto è riposto nelle sue mani. Egli disse al mare: calmati; e si calmò. Gli stessi cataclismi sociali, che mettono sossopra le nazioni e sconvolgono i regni, sono a Lui sottomessi ed è in suo potere arrestarli, per volgerli, quando gli piaccia, a prò degli eletti[89].

 

 

«Non sa la società che lavora a maturarsi per il regno di Dio»

 

Noi vediamo ora la società agonizzare, diremo così, per produrre un nuovo ordine di cose; non sa la misera che lavora, quasi a maturarsi pel regno dell’Uomo-Dio; non sa che lavora per preparare il campo alla vittoria universale della Chiesa e per compiere la profezia immancabile di Gesù Cristo: confidite; Ego vici mundum: confidate; Io ho vinto il mondo! Sì, o V.F. e F.C., come la grandezza materiale del Romano Impero fu da Dio ordinata a disporre la grandezza religiosa dell’Impero di Cristo, così questo affannarsi dell’odierno progresso e tutti gli sforzi del secolo nostro, le sue scoperte, i suoi calcoli, le sue intraprese, sono ordinate dalla Provvidenza divina al compiuto trionfo dei suoi eletti sparsi quaggiù sopra tutta la terra: omnia propter electos (2 Cor. IV, 15) (...).

Solleviamo adunque, o V.F. e F.C., solleviamo fra le oppressioni lo spirito; dilatiamo più che mai i nostri cuori, speriamo; ma la nostra speranza sia calma e paziente; speriamo; ma senza stancarci. Il servo fedele che aspetta il suo padrone non vien meno al dover suo perché il padrone indugia a venire. Se Dio, negli adorabili suoi disegni, tarda ad esaudirci, noi raddoppiamo la nostra confidenza, contrapponendo al giudizio degli uomini l’ineffabile verità delle divine promesse; alla incredulità del secolo una illimitata fiducia[90].

 

 

«Il cammino della vera libertà, della vera civiltà, del vero progresso»

 

Gli ostacoli che ancor sorgono a contrastare il piano divino scompariranno a poco a poco e verrà il giorno in cui le nazioni tutte conosceranno dove stia la loro vera grandezza; sentiranno il bisogno di far ritorno al Padre e ritorneranno. Qual giorno sarà quello, o Signori! Giorno avventurato, nel quale tutti gli accenti, tutte le voci in differenti favelle, come già nel grande Concilio piacentino, leveranno all’Altissimo il cantico del ringraziamento e della lode. Il sole della verità splenderà più luminoso e l’arcobaleno della pace, come dice un eloquente oratore, s’incurverà sulla terra in tutti i suoi gentili colori. Sarà come un arco di trionfo, sotto cui la Chiesa passerà vittoriosa e pacificatrice traendo a sé il mondo moderno; e la società, ridivenuta cristiana, continuerà nell’ordine e nella giustizia il cammino della vera libertà, della vera civiltà, del vero progresso[91].

 

 

«Nell’America... un disegno particolare della Provvidenza»

 

Il gran disegno di Dio, voi lo sapete, è la salvezza di tutti gli uomini per mezzo della sua Chiesa, creazione ammirabile del suo amore infinito, sua casa, sua città, suo regno. Ebbene: dilatare i confini di questo regno, chiamando alla luce della verità nuovi popoli e facendo loro gustare i beneficii della redenzione, ecco, o Signori, il pensiero vasto, l’aspirazione continua, il primo e più alto ideale di Colombo (...).

Quando Dio vuole fare qualche cosa di grande, lo manifesta senz’altro pei mezzi e gli strumenti che Ei sceglie allo scopo. E qualche cosa di grande ha voluto e vuol fare tuttora per l’America e con l’America. Volle infatti organizzarla così che nessun altro continente può starle a fronte per vastità, per magnificenza, per ricchezze. Là pianure sterminate, praterie senza confine e di una fecondità prodigiosa; là immense foreste popolate di alberi giganteschi; montagne la cima verdeggiante delle quali sembra toccare il Cielo; là fiumi sì larghi e profondi che corrono senza mai arrestarsi da un oceano all’altro; là tutte le temperature, tutti i climi, tutte le coltivazioni, tutte le produzioni del suolo, là tutti i tesori delle merci, tutti i minerali; là, a dir breve, riuniti tutti i doni che Dio ha diviso alle diverse parti del mondo.

Quando poi si tratta di aprire questo vasto continente alla evangelizzazione che fa egli? Vi manda ciò che vi è di più grande fra gli uomini: vi manda degli eroi e dei santi, a cominciare dal nostro Colombo, sino all’ultimo martire, che bagna del proprio sangue il suolo della nuova Inghilterra; sino ai figli del venerando D. Bosco, che ogni giorno dai loro sudori raccolgono frutti di religione e di civiltà ubertosissimi.

Non basta ancora: su quelle giovani nazioni Dio versa a piene mani col genio dei progressi materiali le benedizioni delle prosperità sociali. E tutto questo in qual modo, o Signori? Proprio nel momento che l’Asia e l’Africa per aver voluto sottrarsi ai benefici influssi dell’Evangelo, si trovano al colmo della barbarie; proprio nel momento che l’Europa, traviata da perverse dottrine, fa il tentativo di scuotere il soave giogo di Gesù Cristo, di vivere senza Dio. Chi non vede in questa sollecitudine, in questa predilezione, in queste larghezze di Dio, che nell’America a ogni cosa presiedono, un disegno particolare della sua Provvidenza, perché nulla manchi a quel continente per essere atto ad accogliere la soverchia popolazione di tutte le razze umane e darle tutte le prosperità, tutte le felicità possibili quaggiù, per essere atta a rigenerare il mondo precisamente al periodo di decrepitezza che attraversa, aprendo così alla fecondità divina della sua Chiesa un campo immenso, ove sarà compensata largamente dei tradimenti e dell’abbandono dei popoli che rifiutano vivere della sua vita?

Chi non vede manifesto il disegno di Dio? Mentre il mondo, o Signori, si agita abbagliato dal suo progresso, mentre l’uomo si esalta delle sue conquiste sulla materia dominata, e comanda da padrone alla natura, sviscerando il suolo, soggiogando la folgore, confondendo le acque degli oceani col taglio degli istmi, sopprimendo le distanze; mentre i popoli si sviluppano e si rinnovellano, le razze si mescolano, si estendono, o periscono; attraverso il rumore e al di sopra di queste opere innumerevoli e non senza di esse si sta compiendo un’opera più vasta, più importante, più sublime: l’unione in Dio pel suo Cristo di tutte le anime di buon volere. I servitori di Dio che lavorano sulla terra pei suoi disegni sono numerosi in tutti i tempi, ma nelle grandi epoche storiche di rinnovazione sociale ve n’ha più che non si veggano, più che non si conosca, che lavorano incoscientemente pei suoi ordini, per la sua gloria. Perché, o Signori, sappiatelo bene l’ultimo scopo prefisso all’umanità non è la conquista della materia per mezzo di una scienza più o meno progredita, né la creazione di quei popoli in cui s’incarna ad ora ad ora il genio della forza, della letteratura, della scienza, del governo, della ricchezza, no, ma l’unione delle anime in Dio per mezzo di Gesù Cristo.

Dio appunto tutto ha fatto e fa pel suo Verbo, Cristo Gesù. Dunque tutto ciò che Egli ha fatto pel nuovo continente americano lo ha fatto pel suo Cristo. Cristo ha fatto tutto per la sua Chiesa. L’America adunque ben si può dire l’eredità di Cristo; è la terra promessa della Chiesa.

Verrà tempo, o Signori, se i popoli non turberanno il piano divino, che le nazioni tutte avranno colà numerose colonie, ricche, oneste, religiose, fiorenti, le quali, pur conservando ciascuna l’indole propria nazionale, saranno politicamente e religiosamente unite. Da quella terra di benedizione si eleveranno ispirazioni, si svolgeranno principii, si spiegheranno forze nuove, arcane, che verranno a rigenerare il nuovo mondo, insegnandogli l’economia della vera fraternità, della vera uguaglianza, della vera libertà, di ogni vero progresso. Allora si compirà, ne ho fede, la grande parola di Cristo: un solo ovile, un solo pastore[92].

 

 

«La riunione dei popoli in una sola famiglia»

 

Iddio lo vuole! era il grido di Urbano II, ed è il grido del suo degno successore Leone XIII. Iddio lo vuole! Vuole che i popoli rammentino di essere cristiani; vuole la ragione riconciliata con la fede, la natura con la grazia, la terra col Cielo, l’opera delle creature coi diritti del Creatore. Vuole che lavoro e capitale, libertà e autorità, uguaglianza e ordine, fraternità e paternità, conservazione e progresso si chiamino e si aiutino anch’essi come contrapposti armoniosi. Vuole insomma che tutti gli elementi della civiltà, scienze, lettere, arti, industrie, ogni interesse legittimo, ogni legittima aspirazione, abbiano nella religione, nella Chiesa, nel Papato, impulso, norme, soccorso, elevazione, consacrazione divina.

All’epoca nostra, come a quella delle Crociate noi troviamo il Papa ritto sul suo trono, circondato dalla venerazione e dall’affetto di cento popoli diversi. Allora si chiamava Urbano II, oggi si chiama Leone XIII, ma in realtà non ha che un nome: si chiama Papa, e dalle sue labbra sublimi cadono le parole che guariscono le nazioni. La sua forza è in ogni tempo la stessa, universalmente generosa e benefica. Egli veglia sul nostro secolo morente, come vegliò sugli ultimi anni del secolo undecimo. Allora per salvare la società dall’Islamismo che le sovrastava, il Papa levandosi di fronte alle masse popolari iniziò qui la prima Crociata. Oggi, per salvare la civile famiglia dal socialismo che la minaccia, il Papa, entrando in comunicazione diretta colle masse cristiane, promulga la crociata contro le sette sovversive, la crociata a favore degli operai, e da ultimo quella che tutte le compendia e le incorona, la santa crociata per la riunione dei popoli in una sola famiglia. Dio lo vuole! e il volere di Dio senza dubbio si compirà[93].

 

 

«Il vero progresso è Gesù Cristo»

 

La Religione Cattolica, perfettissima nei suoi dogmi e nella sua morale, non ha nulla da aggiungere, nulla da variare e sta ferma in una sublime immutabilità. Qui è la via, la verità e la vita; ogni passo di civiltà tenuto su questa via è una vera benedizione, fuori di essa non è più civiltà, ma barbarie. E notate, Figli Carissimi; la Religione è immutabile, non immobile. Di qui intenderete quanto sia stolta la calunnia che le scagliano contro i figli del secolo, di non secondare l’umanità nelle vie dell’odierno progresso. Se il progresso è vero, sapiente e cristiano, la Religione Cattolica non solo vi seconda, diremo a costoro, ma vi precede. Essa, vedetela, ha un movimento storico di pressoché due mila anni; si muove coi vostri studii, piantando scuole e dirozzando le plebi; si muove colle vostre pedagogie, educando cristianamente i fanciulli; si muove colle vostre industrie, fulminando l’ozio e predicando la necessità del lavoro; si muove colle vostre arti, innalzando templi e mausolei; si muove col vostro valore, ispirando e santificando il genio delle battaglie. Certamente, l’immobilità è cosa morta, è legata ad una servitù inerte, è il cadavere che posa nel sepolcro; ma tale non è il carattere della Religione Cattolica la quale è immutabile e l’immutabilità è legata ad una operosità libera, è legata a Dio operosissimo di tutti gli esseri; giacché o Dilettissimi, come il nulla è immobile, così Dio, che è il tutto, è immutabile: Ego Dominus et non mutor.

 

Progresso nelle arti, progresso nelle scienze, progresso nelle industrie, no, non è questa il progresso cui maledice la Religione Cattolica; che anzi crede un delitto l’opporvisi, perché  ci vede la mano creatrice del tutto. Il progresso, cui ella non può non essere eternamente avversa, è il progresso nei delitti, nelle bestemmie, nei furti, nei suicidi, negli errori, nelle discordie, nella scostumatezza, nell’empietà, nell’egoismo; il progresso, a dir breve, nella irreligione (...).

Il vero progresso non è il far ostentazione di nuove strade, di nuove macchine, di nuovi sistemi; tutto ciò può ben dirsi l’ornamento, l’esteriore della civiltà; ma non è la civiltà, non è il progresso. Il vero progresso di un popolo è nella sua educazione, e l’educazione legittima, e al tutto civilizzatrice consiste, innanzi tutto e soprattutto, nello sviluppo delle facoltà intellettuali e morali; nello sviluppo del cuore e nella coltura della spirito; del cuore, sicché abbracci la virtù; dello spirito, sicché prevalga alla materia (...).

 

Gesù Cristo è il vero Autore del progresso, e il vero progresso non è altro infine che Gesù Cristo; Gesù Cristo vivente nell’uomo, Gesù Cristo che s’incorpora nella umanità e che incorpora l’umanità con sé medesimo, Gesù Cristo che si distende e s’innalza di grado in grado negli spazi e nei secoli, Gesù Cristo centro di ogni armonia che si ricompone, di ogni bellezza che si rinnova, di ogni grandezza che aumenta. Tutto ciò che vi è di più vero, tutto ciò che vi è di più santo, tutto ciò che vi è di più perfetto, deve uscire da Lui per ritornare a Lui, poiché Egli è il principio e la fine ed è la via che dall’uno all’altra conduce[94].

 

 

c) FEDE E RAGIONE SONO SORELLE

 

«Figlie al medesimo Padre celeste, la ragione e la fede»

 

La fede è bensì superiore alla ragione, ma non può mai avvenire che l’una sia in contraddizione coll’altra; che per l’una sia vero ciò, che per l’altra è falso, o che s’impaccino a vicenda nel proprio svolgimento. Chi pretende trovare questo contrasto, certo è che, o ha frainteso la fede, per non avere idea chiara del suo vero insegnamento, o ha falsato la ragione, togliendo per buoni argomenti i proprii sofismi. E come potrebb’essere altrimenti, se ambedue questi lumi partono da una stessa sorgente? Figlie al medesimo Padre celeste, la ragione e la fede, sono due rivoli dell’unica Verità, sono due raggi della medesima Luce, sono come due sorelle che dandosi la mano nel viaggio di questo secolo tenebroso, si uniscono a vicenda e si soccorrono di una alleanza indissolubile e perfetta. La fede con le sue dottrine rischiara e nobilita la ragione, la ragione con le giuste ricerche mette in luce la verità della fede; l’una coi suoi sussidii predica le meraviglie dell’altra, l’altra coi suoi misteri si rende non solo parte integrale della ragione, ma ne è la corona, il trionfo, l’apoteosi[95].

 

 

«La fede non teme la discussione, teme l’ignoranza»

 

La fede, no, non teme la discussione, non teme la luce; teme la ignoranza, teme la scienza superficiale e leggera, questa falsa scienza, che ha sempre data e dà pur troppo anche oggi il più largo contingente alla incredulità. Ditemi infatti: sono forse molti ai dì nostri coloro che agli elementi del Catechismo appreso in giovinezza, sentano il bisogno e il dovere di aggiungere uno studio della religione serio e profondo? Chi scorre i libri degli apologisti antichi e moderni che le prove razionali della religione mettono in luce, che ne mostrano le sublimi analogie e bellezze, che ribattono le difficoltà e calunnie ond’è fatto segno? sarà molto se ne conoscono il nome. Qual meraviglia pertanto se costoro, ancorché forniti d’ingegno, non sappiano in materia di fede ciò che sanno i fanciulli? S’intendono di tutto, se volete: di filosofia, di matematica, di storia, di letteratura, ma ignorano quella più importante: la scienza della religione, oppure ne hanno una cognizione monca, mista ad errori e pregiudizi volgari, quale hanno imparato leggicchiando il giornale scettico e blasfemo, quale hanno studiato sui libri alla moda, su romanzi che tutto travisano e confondono, su libri storici calunniosi a bugiardi, negli spettacoli e drammi teatrali più svergognati, sui banchi di un liceo o di una università, dove maestri troppo spesso scredenti la fanno bersaglio dei loro frizzi e dei loro motteggi[96].

 

 

«Il più stretto dovere di adoperarsi al trionfo della Fede e della Scienza»

 

Beatissimo Padre,

Il Comitato costituitosi a Piacenza sotto la presidenza onoraria dell’Ordinario a promuovere adesioni tra gli Italiani pel congresso Scientifico internazionale, che i dotti Cattolici nell’agosto del prossimo anno terranno a Friburgo di Svizzera, umilia ai piedi di Vostra Santità un esemplare della circolare che pensa diffondere tra i Cattolici studiosi; e supplica la Santità Vostra di voler benedire gli sforzi del medesimo affinché gl’Italiani concorrano in numero degno della Nazione, che gloriosa dell’insigne privilegio d’avere nel proprio seno la sede dell’Infallibile Maestro della Fede ha pure il più stretto dovere di adoperarsi al trionfo della Fede e della Scienza.

Degnisi la Santità Vostra benedire il Comitato Italiano ed i sottoscritti che prostrati al bacio del sacro piede si dicono con gioia

 

Della Santità Vostra

Umilissimi Figli

+ Gio. Battista Vesc. di Piacenza, Presidente Onorario

Alberto Barberis, C.M., Presidente[97].

 

 

«La funzione della scienza nel richiamare le anime a Dio»

 

Nel settembre 1894 si compieva per la terza volta un avvenimento della più alta importanza per la religione e per la scienza.

Dotti cattolici di ogni nazione, belgi e francesi in numero prevalente, tedeschi, austriaci, ungheresi, svizzeri, spagnuoli ed americani, non senza qualche rappresentante dell’Italia nostra, convennero in Bruxelles a tenere le Assise della cristiana sapienza in faccia alla Chiesa ed al mondo civile (...).

Tutte le scienze in quel Congresso rinvennero un posto condegno; in capo a tutte le dottrine religioso-apologetiche, e poi le filosofiche, le scienze sociali e giuridiche, le dottrine storiche e filologiche, le discipline matematiche, fisiche e naturali; alla quale compiuta enciclopedia del sapere non mancava pure l’ornamento dell’estetica cristiana.

 

Tanto tesoro di multiformi conoscenze scientifiche e di serene discussioni, consegnato ai nove volumi degli Atti del Congresso, non solo a testimonianza degli avanzamenti conseguiti, non può rimanere senza frutto. Se un dotto solo, che in sé armonizzi la scienza e la fede, è decoro e presidio alla religione e alla società, ben si può confidare che una numerosa ed eletta assemblea di dotti e di studiosi credenti di ogni nazione, obbligherà il mondo pervertito da una scienza scettica ed anticristiana, almeno a rispettare una religione, ai cui raggi fecondatori si avviva ogni fiore del sapere. Anzi non pochi degli ingegni più nobili, che non paghi delle meravigliose conquiste della scienza nell’ordine materiale, sono tormentati dal bisogno di assorgere ai più alti problemi della vita, trarranno conforto a levare più in alto il cuore alla contemplazione delle armoniche e rassicuranti soluzioni, che vi presta la scienza umana, mediante la luce della fede. E frattanto il lavorìo continuato e simultaneo in tutti i rami del grande albero scientifico, coordinato ad unità in queste universali adunanze di dotti, accumulerà materiali copiosi e multiformi ad innalzare vieppiù formoso l’edifizio della Apologetica cattolica. Ed esso obbligherà la ragione speculatrice e l’osservazione positiva, sulle traccie di una critica imparziale e severa, a tributare omaggio alla religione e a sciogliere l’inno della scienza alla verità del Cristianesimo, grazie alla quale tutti gli aspetti del vero rinvengono guarentigia, splendore e ordinata cospirazione in Dio: “quaecumque sunt a Deo, ordinem habent ad invicem et in ipsum Deum” (S. Tom.).

I felici esperimenti del passato, e queste liete e non fallibili aspettative dell’avvenire, sono già esuberante argomento ai sottoscritti per dare opera solerte in Italia alla preparazione del IV Congresso internazionale scientifico dei Cattolici già deliberato per l’agosto dell’anno 1897 in Friburgo di Svizzera; per il quale essi furono testé confermati dalla Commissione permanente dei Congressi scientifici internazionali nell’ufficio di Comitato promotore italiano.

Ma a conferire a tale intento si aggiungano inoltre motivi d’alto decoro per la nostra patria; mentre per un complesso di circostanze, che qui non è luogo di ricordare, il nostro paese nel Congresso di Bruxelles, fra 2500 aderenti di ogni nazione, non annoverava che 74 italiani, di cui due soltanto intervennero personalmente alle sedute (...).

+ Giovanni Battista Scalabrini Vescovo di Piacenza, Presidente Onorario

A. Barberis, Professore nel Collegio Alberoni, Membro della Commissione permanente per l’opera dei Congressi scientifici internazionali dei Cattolici, Presidente del Comitato italiano, Piacenza

Barone Demateis          Mons. Carlo Brera

Dr. G. Toniolo              Teol. L. Biginelli

Dr. Luigi Olivi   P.G. Giovannozzi

Mons. L. Brevedan       P. De Martinis

Conte Ed. Soderini       P.I. Torregrossa[98].

 

 

«La grand’opera del rifiorimento della Filosofia Tomistica»

 

Nel colloquio da me avuto coll’E.V.R. che mi rese tanto lieto cadde il discorso sul Divus Thomas e sull’opera dell’ab. Luigi Francardi. Del primo Ella avrà ricevuto i fascicoli ed io oso pregarla, E.mo Principe, di volermi dire il suo autorevole parere. Quel periodico fondato all’intento di cooperare alla grand’opera di rifiorimenti della Filosofia Tomistica, iniziato dal glorioso Nostro Santo Padre, è letto con generale soddisfazione, ricercato all’estero e conta un bel numero di associati tra i dotti anche laici. Un Rosminiano mi diceva giorni sono: dal Divus Thomas ho preso la convinzione che Rosmini non è S. Tomaso.

Mi preme quindi che quel periodico prosperi a vantaggio della buona causa ed è perciò che l’E.V. deve farmi piacere, del che ne la supplico anche a nome del Direttore, a dirmi chiaramente il suo avviso, pronti tutti a ritrattare, a spiegare e riformare qualunque espressione non fosse schiettamente conforme alla dottrina dell’Angelico Dottore (...).

Sto preparando il Decreto pel Patronato di S. Tomaso e per introdurre la spiegazione della Summa contra Gentes e quindi le altre opere per disporre così una Accademia vera e non apparente e senza litigi, e richiamare il già Collegio Teologico di S. Tomaso, che possiede una bellissima Cappella dedicata al Santo ed ha bellissimi Statuti encomiati dalla S. Sede. Io credo che questo ritorno ai veri principi sarà una delle glorie più belle del pontificato del Nostro Santo Padre e che non ostante le polemiche impetuose, che ritardano anziché agevolare lo scopo nobilissimo del S. Padre e lo spirito di partito che domina in coloro che forse non videro mai il cartone di un’opera di S. Tomaso, cose del resto inevitabili tra gli uomini, Egli raggiunga l’alto suo intento assicurandosi così un posto assai distinto nella serie dei Successori di S. Pietro. Se ne ha l’occasione, mi metta ai piedi del Grande Pontefice e mi implori una benedizione[99].

 

«La Chiesa si avvantaggia sempre dell’alto lavoro intellettuale dei suoi figli»

 

Non divido interamente i vostri timori per riguardo alle dibattute questioni bibliche. È Gesù Cristo che governa la Chiesa, la quale si avvantaggia sempre dell’alto lavoro intellettuale dei suoi figli. Vi vorrà certa grande oculatezza, perché niuno e sotto niun pretesto attenti all’arca santa. Ma questa non mancherà[100].

 

 


 

 

3. LE IMMAGINI DI CRISTO

 

Maria glorifica la Trinità divina. Associata a Cristo, è figura, profezia, madre della Chiesa. Maria Immacolata è l’umanità rigenerata che torna fra le braccia di Dio. Maria Assunta è la mediatrice tra cielo e terra. Madre di consolazione e di misericordia, la Madonna è madre nostra, se noi viviamo come suoi figli. La sua vita, meditata nel Rosario, è modello della vita cristiana.

I Santi, prodigi della grazia divina, sono gli uomini della fede e dell’obbedienza alla volontà salvifica di Dio. Come ora, tutti possono farsi santi credendo e obbedendo a Dio. La devozione ai Santi è la fedeltà alla fede che ci hanno trasmesso. Non possiamo dimenticare le tribolazioni patite dai nostri padri per generarci a Cristo: confidiamo in loro, amici di Dio e amici nostri.

I poveri sono l’immagine viva e parlante di Cristo, nato povero e morto nudo su una croce. Sono i suoi amici prediletti, la pupilla dei suoi occhi. Non possiamo essere amici di Cristo senza essere amici dei suoi amici. Se amiamo molto i poveri, gli ultimi, i diseredati, molto ci sarà perdonato. Se amiamo la povertà, amiamo Cristo che l’ha sposata.

 

 

a) MARIA

 

«Glorificò Dio, fu da Dio glorificata»

 

Chi glorifica Dio, dice il Signore, sarà da Dio glorificato. E chi più di Maria glorificò Iddio su questa terra? Ella glorificò Iddio Padre, Iddio Figlio, Iddio Spirito Santo.

Glorificò Iddio Padre, mentre col suo assenso all’Incarnazione del Verbo, fece sì che Iddio Padre vedesse dilatato il suo dominio, ingrandito il suo potere, vedendo fra i suoi sudditi un suddita di perfezione infinita. E in vero, essendo Cristo per la umanità inferiore al Padre, il Padre, in certo modo, venne ad essere Dio di Dio, e tale venne ad essere per Maria. Glorificò Iddio Figlio, mentre la infinita carità che negli eterni consigli lo indusse ad offrire se stesso per l’uomo poté solo appagarsi allorché apparve Maria e se per la generazione temporale fu Egli glorificato, fu glorificato appunto in quella carne che prese da Maria. Glorificò Iddio Spirito Santo, mentre non appena si fu ella dichiarata pronta ai voleri dell’Altissimo, il Divino Paraclito scese ad unire in Lei l’anima santissima del Redentore col suo sacratissimo corpo e così avendo ipostaticamente congiunto quell’adorabile umanità con la natura e con la persona del Divin Verbo, egli acquistò ad extra, quella fecondità che non gli compete ad intra, come pure una certa priorità venne ad acquistare sulla umanità sacrosanta di Cristo.

Dal Padre adunque, dal Figliuolo e dallo Spirito Santo doveva essere nei cieli glorificata, quindi non di una, ma di triplice corona doveva essere incoronata1.

 

 

«Maria figura della Chiesa»

 

Tutta la vita della Vergine, i misteri che in lei si compirono, le grazie che l’adornarono, i beni che per Lei si diffusero, furono vivamente, al dire di Ambrogio, un tipo, una figura, una immagine, quasi una profezia della Chiesa Cattolica: Maria figuram in se gerebat Ecclesiae. Non può negarsi infatti che l’esistenza di Maria è direttamente associata a quella di Cristo e partecipa assai più ai destini di Lui che a quelli del genere umano. Or bene, esaminate la natura della Cattolica Chiesa e voi vedrete, come a somiglianza di Maria, formi essa una cosa sola con Cristo, viva dello Spirito di Lui, cerchi la Sua gloria e dell’amore più perfetto lo ami. L’aquila dei Dottori asserì che la carne di Cristo è la carne stessa di Maria: caro Christi, caro Mariae. Non potevasi con maggior verità e con maggior precisione commentar la sentenza evangelica: de qua natus est Jesus. Ebbene, chi conserva, difende, dispensa agli uomini la carne verginale di Maria? non è forse la Chiesa Cattolica? E in tutti i Sacramenti di cui la Chiesa Cattolica è ministro, si riproduce, si estende, chi ben guarda, la maternità divina per la virtù di Cristo. Voi vedrete in tutto la virtù del sangue di Cristo, conoscerete che questo sangue ci fu donato da Maria e che a noi viene applicato pel ministero della Chiesa Cattolica. Qual più bella evidente unione fra la madre e la sposa di Cristo? Tutte le scritture parlano del Redentore, parlano per conseguenza della Vergine, da cui nacque, e della Chiesa, per la quale fino alla consumazione dei secoli vive ancora sulla terra. È così intima questa unione tra Cristo, la Vergine e la Chiesa che non vi è possibile separarle. Se nelle prime e nelle ultime pagine dei libri santi voi trovate scritto del Figlio della donna che salva il mondo, vi leggerete pure il trionfo della Vergine e con lei quello della Chiesa2.

 

 

«Madre della Chiesa»

 

Chi mi sa dire con che vivezza di desiderio, con che espansione di affetto, con che perseveranza di preghiera si sarà essa, Maria, rivolta là nel Cenacolo al divin Paraclito, supplicandolo a voler egli con tutta la pienezza dei suoi doni diffondersi su queste primizie della fede e su tutti i futuri credenti, e ad esser egli per tutti i secoli la loro luce, il loro consigliere, la loro guida, il loro conforto? E nello stesso tempo chi può dubitare che il divino Spirito avrà accolto con bontà, esaudito con compiacimento le suppliche di Maria, di questa sua sposa bella di ogni virtù, ricca di ogni dono, sì cara al suo cospetto, sì potente sul suo cuore? E perciò chi non concluderà con me che Maria ebbe grandissima parte nei mirabili effetti che nella sua venuta lo Spirito Santo produsse fra gli uomini e che di essi per conseguenza noi andiamo con verità anche alla Vergine debitori?

Tanto più che il suo esempio contribuì non poco a destare anche negli Apostoli quelle ottime disposizioni che dovevano servire come di invito alla maggior diffusione dello Spirito.

Ah sì, Maria era agli occhi degli Apostoli cosa sacra, veneranda. Vedevano in lei trasfuso lo spirito del loro divin Maestro, e quasi rispecchiato, personificato lui stesso. I loro sguardi erano rivolti a lei come a regola di tutte le loro azioni, a modello della loro vita, e pendeva, dirò così dal suo labbro, ogni loro volere.

Maria d’altra parte per l’intero spazio di quei giorni che ri­mase con gli Apostoli nel cenacolo, con che frequenza, con che zelo, con che ardore avrà loro parlato degli altissimi pregi di quello Spirito che stavano aspettando e dell’importanza della sua missione e dell’eccellenza dei suoi doni e della necessità di disporsi a riceverlo degnamente! E queste sue parole così rispettabili per la sua autorità, così efficaci pel suo esempio, pensate voi che vive impressioni avranno fatte nel loro animo, e come impegnati li avranno a purificare i loro cuori, a riaccendere le loro brame, a infervorare le loro suppliche, a renderli insomma atti a una più copiosa partecipazione del divino Spirito! (...).

È proprio nel giorno della Pentecoste che Maria cominciò ad esercitare sulla terra quella maternità spirituale a cui fu elevata a piè della Croce.

Infatti in Nazareth lo Spirito Santo la consacrava Madre di Dio, nel cenacolo la consacrava Madre della Chiesa. Madre del Capo, doveva esserlo ancora delle membra3.

 


«Maria è l’umanità rigenerata»

 

Più non la finirei, o Dilettissimi, se tutti volessi enumerarvi i beni grandissimi di cui fu apportatrice alla terra il Dogma dell’Immacolata. Guardate, vi dirò solo, la serenità e tranquillità della Chiesa nella lotta presente! La guerra è intorno a lei, ma non dentro di lei. La zizzania si è separata dal frumento eletto; i falsi cattolici, levatasi la maschera, si sono manifestati per quello che realmente erano e la Chiesa gode ormai quella pace che era stata da tanti anni predetta. La pace infatti più gloriosa per la Chiesa non consiste già nel riposo dalle lotte alle quali la inviava il Divino suo Sposo e dalle quali perciò s’intitola Militante, ma consiste principalmente nel conservarsi depositaria del vero e del giusto contro i mille avversarii che la circondano; consiste nella comunanza delle idee e nel conoscimento del vero fondato nell’intimo accordo con la prima di tutte le Autorità. E questa pace, non ostante le umane vicende, non è essa raggiunta? Sì, la Chiesa gode ora quella pace vera, spirituale, eterna, che gli Angeli annunziarono al mondo nel nascimento di Cristo e che Cristo medesimo lasciò in eredità ai suoi discepoli; quella pace finalmente che è lo stabilimento e la dilatazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini (...).

Io sfido a trovarmi un’altr’epoca in cui il patrocinio di Maria apparisse così manifesto e sensibile come nell’epoca nostra, e la pace interna della Chiesa fosse così grande come apparve, definita l’Immacolata Concezione di Lei. Dalla grotta di Lourdes non ha Ella stessa, la gran Vergine, di propria bocca e nella più incontrastata maniera confermata la più eccelsa dote del Pontifical Ministero, l’Infallibilità, con quelle parole: Io sono la Immacolata Concezione? Non è forse per Lei che tanti poveri illusi aprono ora gli occhi alla verità e i fiori più profumati e più gai, dagli aridi campi del protestantesimo, vengono via via trapiantandosi nelle mistiche aiuole dell’unica vera Chiesa di Gesù Cristo? (...).

Come la Incarnazione del Verbo fu l’effusione del perdono e dell’amore di Dio verso il mondo, che lo aveva del tutto obliato, così Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è l’umanità rigenerata che torna fra le braccia del suo Dio. Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è la schiera incantevole delle più elette virtù, le quali, come già all’apparir del Salvatore, s’avanzano sulla faccia della terra a pigliarne possesso, nell’ora appunto in cui i vizii tutti la inondano. È l’umiltà che viene a rovesciare l’orgoglio, è la carità che sottentra all’egoismo, è la purità che difende la insidiata innocenza. Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è la vit­toria completa dello spirito sulla carne, è la emancipazione dal delitto, dall’avvilimento, dalla schiavitù, la proclamazione della dignità, della nobiltà, della grandezza dell’umana natura. Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è il più dolce conforto ai poveri ed agli afflitti. Essa era affatto innocente, non era perciò soggetta alla pena dovuta alla colpa, eppure sostenne la povertà, le umiliazioni, i dolori più acerbi, fino a divenire la Regina dei Martiri! Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è ai ricchi salutare ricordo a non porre l’affetto nei beni della terra, ma in quelli sibbene del Cielo e ad esercitare coi poverelli di Gesù Cristo le opere della cristiana carità. Essa, benché Madre di un Dio e benché amata da Lui più che tutte insieme le creature, d’altre ricchezze non venne fornita che delle ricchezze del Cielo! Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX è ai giusti di eccitamento a far gran conto della grazia, è ai peccatori di stimolo potente a lasciar il peccato. Maria Immacolata al cospetto del secolo XIX finalmente è l’iride di pace chiamata fra le discordie delle famiglie, fra il tumulto di funesti sconvolgimenti, fra le paure e le minacce di più terribili guai!4.

 


«La pietosa Mediatrice tra Dio e il secolo XIX»

 

Deificando l’umana ragione, il nostro secolo proclama, che l’uomo non ebbe mai bisogno di Redenzione, perché non mai è caduto, e rifiuta di confessare il disordine che interiormente lo degrada e rigetta i dogmi sacrosanti della Religione nostra santissima e i suoi divini Misteri. Quindi Gesù Cristo non è, pel nostro secolo, il pietoso Salvatore che, nel Sangue suo, redime il cielo e la terra, ma tutto al più, è il grande filosofo, a cui si sono attribuiti i caratteri della Divinità: quindi la terra, pel nostro secolo, non è già via alla felicità del Paradiso, ma è il Paradiso della sua felicità: quindi la materia, pel nostro secolo, non è scala a meglio salire al conoscimento di Dio, ma è il termine fisso delle sue speranze. Sua unica occupazione perciò si è di soggiogare la materia, di trasformare la materia, di nulla vedere, di nulla sperare, di nulla ammettere all’infuori della materia. Sicché, mentre col telegrafo e col vapore le distanze del mondo della natura sempre più si avvicinano, quelle del mondo della grazia sempre più si allontanano; mentre la luce elettrica illumina vagamente la tenebra della notte, la luce soavissima della fede tramonta sulla civil società.

Chi dunque, o Dilettissimi, chi sanerà questa piaga orrenda dell’infelice secolo nostro? Chi ricondurrà questo prodigo figlio alla casa del padre suo? La pietosa Mediatrice di pace e di perdono tra la natura e la grazia, tra Dio e il secolo XIX, sarà Colei che è appunto il miracolo più bello della natura, l’opera più perfetta della grazia, Colei nella persona della quale la natura e la grazia, il naturale e il sovrannaturale, la scienza e la fede si uniscono e s’intrecciano in sommo grado nella più stupenda maniera; Colei insomma che sola si può dire Immacolata (...).

La definizione dommatica dell’Immacolata è la condanna più recisa della moderna incredulità, è l’affermazione più solenne dell’ordine sovrannaturale e di tutti quei veri che all’ordine sovrannaturale si riferiscono. No: non si può credere Maria essere stata concepita immune dal peccato originale senza professare il domma della Creazione, della Redenzione, della Santificazione, essendo lo stesso che confessare avere il divin Padre creata l’anima di Maria in uno stato tutto perfetto; averla il divin Verbo riscattata in modo tutto distinto da quello di tutti i figli di Adamo; averla lo Spirito Santo prevenuta coi più eccelsi suoi doni. Non può credersi essere stata Maria concepita immune da ogni colpa originale senza magnificare la divina Bontà, che la separa dalla massa corrotta di tutto l’uman genere; la divina Sapienza che Lei elesse, Eva seconda, a mezzo di riparazione dei danni arrecati all’umana natura dalla prima; la divina Potenza, che vinse nel modo più glorioso Lucifero. Non può credersi Maria resa immune dall’originale peccato senza professare la piena libertà di Dio intorno a tutto ciò che esiste fuori di Lui e l’assoluto suo dominio sulla natura, e senza rendere un ossequio all’infinita sua Santità, come a nemica irreconciliabile di ogni peccato. Non può credersi finalmente Maria resa immune dal fallo primiero, senza professare piena sommissione d’intelletto e di cuore alla Chiesa Cattolica, che tale ce la propone da credere5.

 

 

«Il secolo dell’Immacolata»

 

Il nostro secolo ebbe varii nomi, è vero. Altri lo dissero il secolo dei lumi e del progresso, altri il secolo del telegrafo e del vapore; questi lo chiamarono il secolo delle scienze chimiche e matematiche; quelli il secolo della discussione e della libertà. Noi lo chiameremo il secolo dell’Immacolata! Sì: gli altri nomi potranno essergli un giorno contrastati, potranno cader nell’oblio; questo non mai. È certo, o Dilettissimi, in qual altro secolo, più che nel nostro, fu o potrà essere così universale, così vivo, così appassionato l’affetto verso l’Immacolata Madre di Dio?6.

 

«Madre di consolazione»

 

Amore con amore si paga. E quale amore più tenero e più efficace di quello che ci porta Maria? Maria è nostra Madre. Questa parola, che nel corso di ormai 20 secoli bastò a suscitare tanti palpiti, a tergere tante lacrime, a lenire tanti dolori, deh! che sarebbe ove fosse pienamente compresa? Madre di Gesù perché lo concepì nel suo seno, Maria è madre nostra perché ci concepì nel suo cuore; Madre di Gesù per natura e madre nostra per adozione; madre del capo lo è di tutte le membra; madre del Redentore e madre altresì dei redenti; giacché non generò il Redentore alla vita del tempo, che per produrre gli uomini alla vita dell’eternità. Maria è nostra madre, e talmente nostra madre che per questo è appunto madre di Dio: propter nos homines... incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine. Maria è nostra madre, e perché nessuno mai avesse a dubitarne menomamente, ecco Gesù stesso assicurarcene di sua propria bocca, dall’alto della Croce e vicino a mandare l’ultimo sospiro, vale a dire nel momento più solenne della sua vita mortale: Ecce mater tua.

La si chiama madre della misericordia, ed è lo stesso che dire madre di consolazione. È il suo titolo di regina. Salve regina, mater misericordiae, perché essa non domanda che di versare sulle nostre miserie tutte le ricchezze del suo cuore di madre. La miseria è l’ignoranza e l’errore, fonte dei nostri traviamenti; la miseria è la tentazione, misteriosa agonia delle nostre forze spirituali; la miseria è il peccato, morte della grazia, avvilimento della nostra natura e schiavitù della libertà; la miseria è angoscia dello spirito, è l’afflizione del cuore. La miseria è la privazione delle cose necessarie alla vita, la malattia e l’infermità del corpo; la miseria è la persecuzione dei malvagi, l’ingiusta oppressione dei deboli e degli sventurati. Ebbene, a tutte queste miserie vi è il rimedio nel cuore di Maria. Luce, forza, perdono, incoraggiamento, conforto, assistenza, protezione, salute, tutto noi possiamo domandare e tutto attendere dalla madre nostra nei Cieli: Madre di consolazione, causa della nostra allegrezza7.

 

 

«Viviamo come visse Maria»

 

Maria è giunta a sedere sul trono della divinità, ma sebbene madre di Dio, non vi sarebbe giunta ella stessa senza meriti. Furono i meriti suoi e le virtù che l’esaltarono a tanta gloria, e non altro che i meriti e le virtù potranno condurre noi pure al Cielo. Viviamo come visse Maria, imitiamo Maria secondo la misura della grazia che Dio ci dona, sull’esempio di lei chiediamo a Dio, per intercessione di sì augusta Signora, di essere fervorosi nell’orazione, umili nelle parole, negli affetti, rassegnati ai divini voleri nelle tribolazioni, pieni di amore per Iddio e di carità sincera per tutti i nostri fratelli, rendendo a tutti e sempre bene per male, zelatori della gloria di Dio, del trionfo della Chiesa e del suo Capo infallibile, operosi e pronti secondo i dettami della fede, a suggellare col nostro sangue stesso le grandi verità che Dio nella sua misericordia ci ha insegnate8.

 

 

«La devozione alla Vergine SS. deve essere soda»

 

Considerate che la devozione alla Vergine SS. deve essere soda, cioè non deve essere una di quelle devozioni superficiali e leggiere che finiscono nelle esteriorità di poche pratiche: ma deve condurvi a purificare l’anima dai difetti ed arricchirla di virtù. Un terreno anche incolto si può convertire in un delizioso giardino: ma è necessario toglierne dapprima gli sterpi e le erbe malvagie, e piantarvi le elette e i fiori: a questo scopo deve tendere la devozione perché possa dirsi soda. Vi costerà forse qualche sacrificio, non v’è dubbio, ma alla fine vi riuscirete, perché la Vergine benedetta, vedendovi combattere e faticare per piacere a lei, vi sarà larga del suo aiuto in tutti gli assalti che le passioni o il demonio vi daranno. In questi incontri volgetevi a lei coll’intimo del cuore, protestatele che volete prima morire che offendere il suo benedetto figliuolo, e non temete, la vittoria sarà vostra (...).

La stessa premura di piacere alla Vergine deve animarvi ad arricchire l’anima vostra delle sue virtù; se l’amate non vi sarà difficile, perché l’amore spinge all’imitazione e produce somiglianza. Fissate gli occhi nelle virtù di Maria, osservate come ella si regola e studiatevi di ritrarle in voi stessi (...).

Se vi trovate in Chiesa, pensate a Maria nel tempio; se in casa pensate a Maria in Nazaret; se a mensa, a Maria nelle nozze di Cana: in tutte le azioni particolari, potete, pensando a lei, ricopiare le sue virtù9.

 

 

«Siate devoti del Rosario»

 

Qual meraviglia pertanto se mediante il Rosario, si ottennero in ogni tempo i più segnalati favori e si riportarono le più strepitose vittorie? Qual meraviglia se personaggi illustri per nascita, per dottrina, per grido, per santità; Pontefici, Vescovi, re, principi, capitani, guerrieri, magistrati, giurisconsulti, dottori, maestri nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, fecero del Rosario la loro più cara delizia? Qual meraviglia che la devozione del Rosario sia divenuta la devozione di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le condizioni, di tutte le età, di tutte le lingue; la regina delle devozioni, la devozione universale? Quale meraviglia se da Sommi Pontefici venne essa arricchita di tante indulgenze, di tanti privilegi e favori?(...).

Recitiamolo con fede, con umiltà, con devozione, con perseveranza; recitiamolo ogni giorno; a molti insieme, assediando, per usare una frase di Tertulliano, a schiere serrate il trono di Dio e facendogli dolce violenza, non vedremmo noi pure il prodigio ammirato da S. Agostino: salire le preghiere dell’uomo, discendere la misericordia di Dio?

Siamo dunque devoti del Rosario, o dilettissimi; abbiatelo caro come lo ebbero caro i padri nostri. Voi specialmente, o genitori, aprite con esso ogni sera alle vostre famiglie una scuola di cristiana sapienza: fate che i vostri figli, meditando quei misteri, ripetendo quelle vocali preghiere si sentano ricordare l’amore di Dio, di Gesù Cristo, di Maria; imparino che a nostra salute Iddio è l’amore che si dona, G.C. l’amore che si immola, Maria l’amore che aiuta. Deh! che in mezzo a tante voci che si sforzano di incurvarli verso la terra vi sia una voce potente che levi in alto i loro cuori e li innamori del Cielo!10.

 

 

«Raccoglietevi ogni sera per la recita del santo Rosario»

 

Innanzi alla cara e venerata immagine della Sacra Famiglia raccoglietevi ogni sera tutti insieme, genitori e figli, per la recita del santo Rosario, com’era pio costume dei vostri antenati. Oh! la preghiera, in cui si confonde il tremolo accento del vecchio, coll’ingenuo balbettio del pargolo; la preghiera, fatta dalla famiglia innanzi a quell’immagine, salirà come gradito profumo sino al trono dell’Altissimo e si convertirà in pioggia d’ogni maniera di grazie. Se infatti Gesù stesso c’insegna, che là dove son due o tre congregati nello stesso spirito di orazione per chiedere in nome suo qualche dono al Padre celeste, Egli si trova in mezzo a loro, come non si troverà in mezzo alla famiglia cristiana, allorché è tutta raccolta a pregare? il cielo e la terra passeranno, ma non passerà la promessa del Salvatore; ond’è certo che da simile atto di culto deriverà in ogni membro della famiglia lume all’intelligenza, movimento al cuore, forza alla volontà, e in breve tempo, distrutto ogni pernicioso effetto della dimenticanza di Dio e della sua legge, la società domestica fiorirà nell’abbondanza della pace e influirà potentemente sul benessere dello stesso consorzio civile11.

 

 

«Che m’insegni l’amore di Dio»

 

Dunque per quest’anno è finita: non discendete più? Una visita alla nostra arcicarissima Madre per penitenza, e tutta per me, che ne ho gran bisogno! Ditele che mi insegni l’amore di Dio, l’amore della Croce, il santo abbandono alla volontà divina, la morte al mondo, la morte al mio cuore, a tutto. Se mi ottenete questa grazia, oh allora sarei proprio felice12.

 

 

b) I SANTI

 

«I Santi sono prodigi della grazia di Dio»

 

Come le opere della creazione cantano la gloria di Dio autore della natura, così le opere della santificazione esaltano la gloria di Dio autore della grazia e perciò tutto lo splendore, onde la virtù dei Santi rifulge, si riflette sopra di Lui, che in essi ebbe operato cose grandi, meravigliose. Che cosa infatti sono i Santi se non prodigi della grazia di Dio? Ah! che un uomo non ritenga quasi più nulla della corrotta umanità, che per la pratica della cristiana abnegazione di sé stesso sia riuscito a soggiogare la carnale concupiscenza, a spuntare gli stimoli della cupidigia, a domare la febbre dell’orgoglio; che abbia dato un nuovo corso, una nuova direzione, dirò così, alle inclinazioni carnali e terrene per non viver più che delle spirituali e celesti; che abbia rifuso interamente se stesso e, per mezzo della carità più generosa, più pura, più perfetta, non viva che di Dio, per Iddio e con Dio, questo, dice S. Agostino, è un prodigio più grande assai che non sia il richiamare da morte a vita un cadavere; prodigio che non può essere opera dell’uomo, ma solo di Dio, perché Iddio che formò l’uomo, Egli solo può riformarlo e sulle rovine dell’uomo vecchio, che s’identifica con Adamo peccatore, ristabilire l’uomo nuovo, che diviene una cosa sola con Gesù Cristo13.

 

 

«Guardiamo alla fede dei Santi»

 

Grandi nel regno di Dio per le opere quaggiù praticate nella fede e per la fede, i Santi tutti ci predicano sopra ogni cosa le glorie della nostra fede; di quella fede che è il tesoro della vita domestica, che ravviva l’amore dei figli verso i padri e tutto reca a perfezione ed a santità; di quella fede che annoda in vincolo di soavi rapporti tutte le persone e le cose del mondo e ci tien desti pel gran giorno del rendiconto col ricordarci, all’esempio dei Santi, che la vita del cristiano è una milizia sopra la terra; che noi siamo qui soldati combattenti difficili battaglie per guadagnare beatitudine immortale; siamo ora in mezzo al fuoco onde purificarci dalla scoria; siamo pellegrini verso la patria, ma del continuo assediati da possenti e crudeli nemici. Se le fatiche della botta ci affievoliscono; se la fiamma della purificazione ci abbrucia; se il cammino ci sfianca, guardiamo alla corona del trionfo, guardiamo alla fede dei Santi, guardiamo anzi alla fede che professiamo noi pure e cresceranno gli spiriti14.

 

 

«Non sono i miracoli e i doni straordinari che fanno i Santi»

 

Si crede spesso, specialmente nel volgo, che per giungere alla santità bisogna distinguersi per doni straordinari e rendersi singolari per azioni luminose. No, miei figli, no; per essere santi non è necessario né predire il futuro come i profeti, né operare prodigi come i taumaturghi, né portarci a predicare il Vangelo a popoli barbari, come gli apostoli, né versare il proprio sangue come i martiri. Nulla di tutto questo. Quando il ricco dell’Evangelo domanda a G.C. che cosa dovesse fare per andar salvo, il Maestro divino gli rispose senz’altro: Se vuoi arrivare alla vita eterna, osserva i comandamenti: serva mandata. La vita cristiana è tutta qui. Osservare fedelmente la legge di Dio e adempire con esattezza gli obblighi del proprio stato. Vi è un gran numero di persone che sono arrivate alla santità col seguire solo questa via. Non tutti i Santi hanno fatto azioni strepitose, non tutti sono stati portenti di opere e di facondia, non tutti si son fatti ammirare per prodigi di sapere. Ve ne sono stati moltissimi che, ignoti al mondo, non sono mai usciti da uno stato oscuro ed han sempre menato vita comune. Maria stessa non si è fatta segnalare per alcun dono straordinario e non si legge nella Scrittura ch’Ella, durante la sua carriera mortale, facesse mai un miracolo. Non per questo ella cessa di essere considerata come la più santa delle creature. Non sono dunque i miracoli e i doni straordinari che fanno i Santi, e i più gran Santi, bensì la virtù (...).

Moltissimi dei Santi che oggi veneriamo, non uscirono mai dalla cerchia della vita domestica, ma col rimanere in quello stato davano opera del continuo a compierne i doveri; erano del continuo attenti a nobilitarne le occupazioni ordinarle, mediante la rettitudine dell’intenzione, operando sempre per fini soprannaturali15.

 

 

«Quello che hanno fatto essi, perché non lo potremo far noi?»

 

Un numero quasi infinito d’ogni sorta di persone divenne santo prima di noi. Quello che hanno fatto essi, perché non lo potremo far noi? Ma a togliere di mezzo le difficoltà leviamo spesso gli occhi al Cielo e pensiamo che tutte le fatiche, tutti gli stenti che si potessero soffrire, non possono mai essere proporzionati alla grandezza di quella mercede: non sunt condignae passiones huius saeculi ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis; che una fatica di corta durata ci mette al possesso di una eternità per sempre beata, momentaneum et leve tribulationis nostrae, aeternum gloriae pondus operatur in nobis.

Alla vista pertanto dei Santi, dei quali celebriamo oggi i trionfi, consoliamoci che la santità non è poi tanto difficile. Con un Dio che ci conforta, con un Dio che ci dà mano, che ci inspira vigore, possiamo noi trovare difficoltà nel cammino della salvezza nostra eterna? Che se temete ancora, pensate ai Santi, cui oggi festeggiamo. Essi che furono già nostri fratelli quaggiù in terra, che furono a noi congiunti e di fede e di patria e di conoscenza e di sangue; essi che furono in vita animati da una sì viva carità, da uno zelo sì ardente per giovare ai loro prossimi, ora che la loro carità si è perfezionata, si è consumata in Cielo, avranno per noi loro fratelli, meno di interesse per la nostra santificazione, per la nostra salute? Oh! se potessimo vederli, con quanto impegno stanno perorando oggi e sempre al trono di Dio la nostra causa, come comprenderemmo tosto e proveremmo che la santità comune non è poi sì difficile, come generalmente si crede, che è anzi possibile e quindi obbligatoria per tutti e per ciascuno di noi, chiamati come siamo a divenir santi in terra, affine di regnare coi santi in Cielo16.

 

 

«Viviamo cristianamente e saremo santi»

 

Un santo non fu mai che un perfetto cristiano; viviamo adunque cristianamente e saremo santi. Ciò che formò i santi più illustri, ovvero piuttosto i soli santi che riconosce la Chiesa, non furono i doni straordinari, le luminose apparenze, gli strepitosi miracoli, le visioni, le estasi; fu quella fedeltà, quell’esattezza, onde adempirono costantemente i doveri del loro stato e li adempirono in vista di Dio. Ecco il vero, essenziale carattere della santità, ed ecco ciò che noi dobbiamo proporci se vogliamo arrivare ad essere partecipi anche noi della gloria dei Santi17.

 

 

«Grande il potere dei Martiri presso Dio»

 

I Martiri furono sempre oggetto di culto speciale nella Chiesa di Gesù Cristo. Essa, fino dai tempi degli Apostoli, riguardò le ceneri dei Martiri come piene della vita di Dio, come cosa venerabile e sacra, e sulle loro tombe costumò anche celebrare i sacrosanti Misteri. Che v’è infatti di più giusto, di più religioso, di più degno di rispetto che di offrire il Sangue di Gesù Cristo sul corpo e sugli avanzi dei suoi discepoli, che lo hanno sparso per Lui? Non deve egli essere grato a Gesù Cristo il mescolare, per dir così, il suo sacrificio con quello dei suoi Martiri, i quali non sono con Lui che una vittima istessa?

Grande perciò fu sempre il potere dei Martiri presso Dio. Membra e reliquie di quegli uomini meravigliosi, che più vissero della vita di Gesù Cristo che della propria, a Lui incorporati per lo Spirito di santificazione e con Lui un solo corpo e quasi una medesima sussistenza, del loro valido favore proteggono ed aiutano coloro che ad essi fiduciosi ricorrono e al loro potere si affidano (...).

Tutto è concesso alle loro preghiere, tutto è donato ai loro meriti. Regnando essi con Cristo spandono sui popoli le più elette benedizioni, e S. Agostino ci assicura che i miracoli dei tempi Apostolici si rinnovano in faccia a tutte le nazioni, in virtù dei corpi dei Martiri. Essi hanno resa testimonianza a Dio col loro sangue e Dio concede ai fedeli grazie e prodigi per la loro intercessione18.

 

 

«I sacri pegni della Santa Chiesa Piacentina»

 

Vi confesso di essere stato riempito di non minore consolazione e gaudio da Dio, vedendo, nella visita delle Chiese di questa Città e Diocesi, fonti salutari e perenni, dalle quali sgorgano benefici per il popolo cristiano, ed emana un soavissimo profumo: intendo parlare delle sacre reliquie dei Santi, insigni monumenti della fede e della carità, di cui il misericordioso Signore s’è degnato di arricchire questa S. Chiesa Piacentina (...).

Mi limiterò a parlare alla Vostra veneranda e devotissima Congregazione della ricognizione delle spoglie dell’inclito Martire di Cristo Antonino della Legione Tebea, Patrono Principale, e di S. Vittore, primo Vescovo di questa S. Chiesa Piacentina. Incoraggiato dal consiglio dell’E.mo Card. Domenico Bartolini, grande perito in materia, quando ritornando a Roma nell’ottobre 1877 fu mio ospite per qualche tempo, e basandomi su un colloquio sull’argomento con il Sommo Pontefice Leone XIII felicemente regnante, l’ho compiuta i 30 e il 31 maggio 1878 (...).

Voi potete indovinare con quanto gaudio spirituale ed esultanza d’animo io abbia visto quei sacri pegni, più preziosi dell’oro e delle gemme, che benignamente proteggono e custodiscono questa Santa Chiesa Piacentina.

Ponderai allora più attentamente la necessità, già costatata, che abbiamo, che cioè quei Santi, con i quali abbiamo una certa familiarità, mossi dalla nostra particolare venerazione e culto, impetrino per me e per i miei dilettissimi figli quella fortezza nella fede che al nostro tempo è necessaria ai cristiani per vincere: perché desiderando suscitare nel mio gregge quel sentimento di devozione verso i predetti Santi che alimentò la fede e la santità degli avi, e pensando in quale maniera avrei potuto raggiungere questo scopo, opinai che una sola cosa restava da fare per infiammare i miei figli alla devozione verso i benefici Patrono e Padre: divulgare le loro gesta, il sepolcro, le reliquie e il culto con opportuni e dotti studi, che illustrassero accuratamente e intelligentemente i monumenti e i documenti che li riguardano, e presentarli alla loro riflessione; poi riporre le ossa dei Santi Antonino e Vittore in modo che, in determinate solennità o nell’imminenza di qualche calamità, potessero essere esposte pubblicamente agli occhi e alla venerazione dei fedeli19.

 

 

«Ci venne dato di vedere con i nostri occhi le sacre spoglie»

 

Or sono due anni, con grandissima Nostra consolazione, demmo compimento alla Sacra Visita Pastorale nell’insigne Basilica di S. Antonino. Fu in quella occasione che ordinammo si aprisse la grande urna di marmo posta sotto la mensa dell’altar maggiore di detta Chiesa, e ciò per fare una solenne ricognizione delle reliquie dei Santi Antonino e Vittore che vi si dicevano sepolte.

Da secoli quell’urna non era stata aperta, e, sebbene presentasse all’esterno contrassegni manifesti dei tesori che racchiudeva, dubbi non lievi tuttavia si erano sparsi intorno ai medesimi.

Qual giubilo pertanto fu il Nostro allorché ci venne dato di vedere coi Nostri occhi le sacre spoglie dei mentovati due Santi! Quale la nostra commozione allorché arrivammo a baciare l’ampolla, contenente le reliquie di quel sangue benedetto, che fu versato da Antonino in testimonianza della fede!

È senza dubbio un tratto singolare della Provvidenza di Dio, che cotesto preziosissimo vetro siasi conservato incolume fra mezzo alle rovine, cui la Basilica del Santo Patrono, situata per più secoli fuori delle mura della nostra Città, andò più volte soggetta, in causa di barbariche invasioni, d’incendi e di guerre; ma è un tratto ancor più ammirabile della stessa Provvidenza divina, e degno di tutta la nostra riconoscenza, che il glorioso sangue di Antonino, in esso vetro raccolto, siasi conservato, dopo tanti e tanti secoli, in tale stato da offrire anche oggidì prove certissime della sua primiera natura, mentre, in altri casi consimili, la scienza non arrivò a stabilir della cosa che la probabilità solamente.

Oh rallegriamoci, o Dilettissimi, esultiamo! Piacenza va ricca senza dubbio di molti insigni e preziosi monumenti, veri tesori d’arte; ma nessuno di essi e certo più stimabile, agli occhi della fede, di cotesto sangue glorioso; nessuno più insigne delle spoglie di Antonino e Vittore20.

 

 

«Padri e maestri nella fede»

 

Sono le spoglie gloriose di coloro che ci furono padri e maestri nella fede; quelle spoglie che stillarono un dì vivo sangue; quelle spoglie accanto alle quali godettero tanti un giorno di stabilire la loro dimora. Innanzi ad esse, o Dilettissimi, correvano a inginocchiarsi fidenti i nostri antenati; appendevano innanzi ad esse i loro doni e ne riportavano in ogni tempo favori segnalatissimi. Da esse i Gregori, i Savini, i Mauri, i Fulchi, i Gerardi, gli Alberti Prandoni, i Paoli Burali d’Arezzo, i Filippi Suzani, gli Opilii, i Gelasii, i Raimondi, i Contardi, le Franche e tanti altri attingevano conforto nelle loro tribolazioni, lena e coraggio per sempre più avanzarsi nelle vie del Cielo. Erano esse, quelle spoglie sacre, il perno, diremo così, intorno a cui aggiravasi, massime nel medio evo, il senno e la vita, sì privata che pubblica, dei cittadini. Intorno ad esse stringevasi il popolo nei maggiori bisogni della patria e ne sperimentava gli effetti salutari. I rappresentanti delle Comunità, i Collegi, ed i Paratici in corpo venivano ogni anno a deporre innanzi alle medesime le loro oblazioni. Era alla loro presenza che si trattavano le sorti comuni; accanto ad esse che deponevansi i pubblici documenti; all’ombra di esse che si custodivano i trofei della vittoria21.

 

 

«Non dimenticate le tribolazioni patite dai padri nostri»

 

Questa venerata Basilica, questo insigne monumento della pietà degli avi nostri, quasi è perenne testimone della nascita del cristianesimo fra noi. Oh, vi richiami essa la fede degli antichi giorni. Non dimenticate mai quello che ebbe ad operare e soffrire Antonino, per generarci al Vangelo. Non dimenticate le tribolazioni patite dai padri nostri e i pericoli ai quali essi andarono incontro per acquistare e per conservare i diritti e il titolo di figliuoli di Dio (...).

In questa fede, che deve condurvi a salute, state fermi, come fate, pensando che Dio è verace. La vostra però non sia una fede sterile, una fede morta, ma avvivata da carità, che è quanto dire seguita dal nobile conteggio delle altre virtù e operativa di bene. Allor sì che S. Antonino potrà mirarvi con gioia, e voi potrete nutrire fiducia, anzi certezza d’avere in lui un protettore che esaudirà le vostre suppliche. Così sotto l’usbergo del martire, sotto l’egida del potente avvocato camminerete sicuri e tranquilli in mezzo alle insidie, agli assalti, alle fatiche, alle tristezze di questa misera vita, che è dura milizia e valle di pianto, finché spunti anche per noi il desideratissimo giorno del finale trionfo e dell’eterno riposo22.

 

 

«Io vi ho generato a Cristo per mezzo del Vangelo»

 

Vi ho generati a Gesù per mezzo dell’Evangelo: in Christo Jesu per Evangelium vos genui, scriveva l’Apostolo S. Paolo ai fedeli di Corinto. Queste belle parole le rivolge a noi ogni giorno e specialmente in questo sacro alle sue glorie da quella tomba veneranda il santo nostro Vescovo e Padre Savino (...).

Egli è un santo che tutto a noi appartiene, che ha con noi i più stretti rapporti. Sebbene nato a Roma, piacque alla divina Provvidenza di farne un dono a noi, a queste nostre contrade: è fra noi che campeggiò la di lui santità; fu questa nostra città il teatro delle di lui gloriose azioni, delle eroiche di lui virtù (...).

A lui è debitrice la nostra Piacenza del più grande dei benefizii; egli fu che ai nostri maggiori, giacenti ancora in gran parte nelle ombre di morte e nelle tenebre del gentilesimo, recò la luce del Vangelo e interamente distrusse l’idolatria tuttora fra noi dominante; in una parola, fu il padre nostro nella fede e ci ripete oggi, e lo ripeterà sino alla fine dei secoli, da quella tomba sacrosanta: Piacentini, io vi ho generati a Cristo per mezzo dell’Evangelo23

 

 

 

c) I POVERI

 

«Il povero: viva e parlante immagine di Gesù Cristo»

 

Che cosa è il povero agli occhi del mondo? È un proscritto, rifiuto della natura, che sembra sfuggito all’occhio della Provvidenza, un misero che si trascina in mezzo al fango e alla polvere, un vile ingombro, un peso inutile alla società e nulla più. Tale è il concetto che da quattro mila anni si aveva del povero, per cui la povertà era tenuta per una macchia obbrobriosa, per un flagello di Dio, per una maledizione che non potesse cadere che sul capo ai colpevoli. Ma finalmente ecco che l’increata Sapienza, il Maestro di tutti i maestri, viene a darci ben differenti lezioni, e prima coll’esempio che con la voce, prima col fatto che con le parole prende a glorificare la povertà e a glorificarla in se stesso, fin dalla culla. Sì; Gesù Cristo, l’erede del regno e della corona di David, è nato; il Re dei Re, il Signore dei Dominanti, il Messia tante volte profetizzato, promesso e aspettato da tanti secoli, è alla fine comparso, ma dove? ma quale? ma in quale atteggiamento? (…)

Egli è apparso nell’atteggiamento più umile, nella miseria più grande (...). Il Verbo di Dio, a città natale si eleggeva Betlemme, minima fra quelle di Giuda! Egli che poteva prendere in Madre la più nobile e ricca fra le donne Ebree, chiama all’altissimo onore la sposa di un semplice artigiano, nascosta nell’ombra della povertà; a luogo di nascita sceglie un tugurio, aperto all’inclemenza della stagione, tale che non può offrirgli a culla se non un presepio e poca paglia. Gesù insomma, nascendo, antepone liberamente il vostro stato ad ogni altro, o poverelli, ed è appunto con questa preferenza che ha tolta alla povertà ogni nota d’infamia, che l’ha resa anzi agli occhi di tutti venerabile e santa e degna di ogni maggior riverenza.

Che vi può essere infatti quaggiù di più prezioso, di più nobile, di più grande e degno di maggior stima di ciò che ha la stima e gli onori di un Dio? Allorché un Re vuol nobilitare una povera figlia del popolo e renderla rispettabile da tutti che fa egli? La va cercando nell’oscura classe ove ella si nascondeva, la fa sua sposa, l’invita a sedere sopra il suo trono, le colloca in sulla fronte il diadema e lo scettro fra le mani. Così Gesù Cristo ha fatto colla povertà, scegliendola a sua compagna indivisibile dalla culla alla tomba e da quel giorno la povertà cominciò a riscuotere nel cristianesimo gli onori di regina, da quel giorno il povero cominciò ad essere considerato, com’è difatti, la viva e parlante immagine di G.C. sulla terra (...).

Si direbbe, scrive bellamente il Crisostomo, che i poveri sono come tanti raggi rifranti che, messi insieme, compongono quello che fu Gesù, la cui austera e mesta figura fece fremere i Profeti che la contemplarono dall’altezza dei secoli.

Sì, veramente, o Dilettissimi. Il povero è un’immagine vivente di G.C. e ce ne dà sicurezza lo stesso Vangelo: infatti Cristo ha detto: l’opera fatta ai minimi è fatta a me, il che importa comunanza di personalità e di destino. Di qui i teneri e sublimi accenti dei Santi Padri: «Quando tu vedi il povero, così fra gli altri il Crisostomo, fa conto di vedere il corpo e l’altare di G.C., inchinati riverente e offri il tuo sacrificio. La Divinità ha due altari, uno eterno ed invisibile, sul quale noi rechiamo i nostri omaggi adorando. Quando però noi ci accostiamo al povero, allora noi poniamo l’offerta sull’altare visibile della Divinità». «Non fermarti all’esteriore, ripiglia Clemente Alessandrino, ma spingi l’occhio più dentro e vedrai abitare nascosto nel povero il Padre, il Verbo, e lo Spirito Santo». Ed eccovi il povero sublimato al grado d’immagine, di altare e di tempio della Divinità. È il Vangelo che fa palese agli occhi profani della carne questa riabilitazione del povero, iniziata nel grande sacramento della pietà, che è l’arcano discendimento di Colui il quale essendo ricco, si fece per noi mendico: Egenus factus est24.

 

 

«Sono questi i suoi amici più cari»

 

Gesù passava, dicono le Scritture, facendo a tutti del bene (Act. X, 38). Dolce, mansueto, benigno, non cerca no la sua gloria, ma il vantaggio degli uomini. Egli è padre dei poveri, sostegno dei deboli, consolatore degli afflitti. Patisce la stanchezza, la fame, la sete, le calunnie, il disprezzo, gl’insulti; patisce per parte di tutti, e perfino dei suoi, ma non bada. La carità, che gli divampa nel seno, lo anima, la carità lo spinge, la carità tutto gli fa parer soave e leggiero. Non segue che gl’impulsi del proprio cuore. Ogni sua parola è una misericordia, ogni suo passo un conforto, ogni sua azione una provvidenza, ogni suo prodigio una grazia. Dapertutto lo vediamo accerchiato da poveri, da infermi, da pubblicani, da teneri fanciulli. Sono questi i suoi amici più cari, e versa sopra tutti le sue benedizioni e tutti rimanda consolati.

Egli vestì la nostra umanità per sentire più profondamente la compassione e per provare in sé medesimo le afflizioni, le miserie, le pene di quelli che svisceratamente ama. Gli avviene di contemplare qualche disgrazia? il suo cuore si turba, geme e si affanna, e si mostra sollecito di togliere l’angustia, di tergere le lagrime, di raddolcire l’amarezza, di rimuovere ogni motivo di desolazione25.

 

 

«Il povero è la pupilla di Dio»

 

Oh, il povero! Egli è privo dei tanti beni della terra, ma ricco spesse volte dei beni del cielo. Molte volte se volete sarà fastidioso, malcontento, ingrato, ma sulla fronte di lui risplende pur sempre il carattere della divina figliuolanza e sulla porta del di lui tugurio è scritta a caratteri d’oro quella consolante sentenza: quod fecistis uni ex his minimis mihi fecistis. Il povero è la pupilla di Dio, e quanto facciamo al povero lo facciamo a Dio stesso26.

 

 

«La Chiesa fondata sopra dodici uomini poveri»

 

Quali saranno adunque i ministri di Dio scelti a stabilirla nel mondo? Forse i personaggi più cospicui per fama, per ricchezze, per autorità, per nobiltà, per sapere? Così certamente avrebbe agito la umana prudenza, ma non opera così la sapienza divina: Ignobilia et contemptibilia elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret. Nella creazione della sua Chiesa Dio tenne la stessa via che nella creazione del mondo.

Questa macchina immensa che si chiama universo, quei milioni di astri che si aggirano sul nostro capo, questo globo terracqueo che noi abitiamo, tutto fu tratto dal nulla, tutto si regge sul nulla, tutto ha per suo unico appoggio e sostegno, che cosa? il vuoto ed il nulla! Appendit terram super nihilum. Orbene, o dilettissimi, che potrebbe desiderarsi di meglio che persuaderci essere il mondo opera diretta dell’infinita potenza di Dio? E che potrebbe desiderarsi di meglio a persuaderci essere la Chiesa, questa mole gigantesca e meravigliosa, opera della stessa infinita potenza, che il vederla uscita dal nulla e ondeggiante nel nulla? Poiché noi la vediamo fondata sopra dodici uomini, quali erano gli apostoli, senza autorità, senza credito, senza protezioni, appartenenti alla classe più spregiata di tutto l’Oriente, poveri, deboli, timidi, rozzi ed ignoranti così da confinare, per la loro inettitudine, col nulla27.

 

 

«Il mondo crede ancora alla carità»

 

La grand’anima dell’immortale Pio IX, il quale, se mi è lecito il dirlo, aveva l’istinto di conoscere e di apprezzare le opere della Provvidenza, rivolgeva un giorno ad alcuni vostri confratelli quelle memorande parole che non saranno dimenticate mai: «O figli miei, o figli miei, io vi consacro cavalieri di G.C. Il mondo non crede più alla predicazione, al sacerdozio, ma crede ancora alla carità: predicate la verità colla carità: andate alla conquista del mondo coll’amore del povero” (...).

G.C. sta coi fondatori delle vostre conferenze, essi stavano nella carità, stavano in Dio e Dio in loro: qui manet in charitate, in Deo manet et Deus in eo, e l’opera loro benedetta dal Cielo si dilatò accrescendo i cavalieri di G.C. destinati alla conquista del mondo (...).

La carità, questa cittadina del Cielo scesa tra noi per ravvicinare i cuori, temperare gli affanni, rialzare gli animi abbattuti, fare beate le famiglie delle gioie più pure, serbare pace in mezzo al civile consorzio, il più bel dono che Dio poteva fare alle sue creature, è destinata a gloriosi trionfi, mediante le vostre conferenze. Predicando la verità colla carità voi dissiperete molti pregiudizi, anche là dove non è accolta la parola del prete e farete comprendere al povero senza fede che se ha in voi un fratello sulla terra è perché ha un padre comune in Cielo: farete conoscere anche ai più dissennati e perduti la divinità di Cristo e della sua religione28.

 

 

«La carità si è diffusa nel nostro secolo»

 

Non valgo ad esprimervi, o Signori, la consolazione che io provo ogniqualvolta mi è dato di trovarmi in mezzo a voi; in mezzo a voi che formate piccolo drappello, ma elettissimo, perché sacro all’esercizio della più nobile delle virtù, la carità. Io vi conosco, e me ne compiaccio innanzi a Dio. Meglio vi conosce Dio stesso, che vi accompagna colle sue benedizioni e vi prepara premio condegno. Permettete ora al vostro Padre e Pastore, che vi ama come tenerissimi figli, come fratelli, dirò di più, come antichi e carissimi amici, di rivolgervi una parola d’incoraggiamento, affinché vogliate, nonostante gli ostacoli che incontrate per via, continuare imperterriti l’opera vostra sublime e gloriosa. Per me ho grande, illimitata fiducia nell’esercizio della carità e quando ripenso ai gravi mali che affliggono la società e la Chiesa, e una nube di tristezza mi commuove sino alle lagrime, mi conforto a speranza: e spero, spero assai che abbia presto a ritornare il sereno, che il cielo abbia a sorridere presto ai nostri voti, perché non è dimenticato l’esercizio della carità, perché, sotto vari aspetti, la carità si è diffusa nel nostro secolo e tutto di sé lo pervade, lo domina, lo signoreggia. Eh sì! sono grandi e sono molti i peccati del secolo XIX! Chi può numerarli? Ma chi può altresì numerare le opere di carità di cui il secolo XIX è fecondo? È a questa considerazione, o Signori, che mi corre spontanea sul labbro la consolante parola di Cristo alla Maddalena: le sono perdonati molti peccati perché  molto ha amato: dimissa sunt ei peccata multa, quoniam dilexit multum29.

 

 

«La carità sola è veramente figlia del Cielo»

 

È bella la filantropia: è il soccorso stabilito a favore del povero in base ai principii umanitarii dell’eguaglianza; è bella la beneficenza: è il soccorso stabilito e prestato all’infelice pel riflesso del bisogno e del vantaggio pubblico, per togliere dalla società l’aspetto affligente della miseria e l’occasione di inevitabili disordini. Ma la carità è più bella; la carità sola è veramente figlia del Cielo. Essa ha i principii della filantropia, essa ha il fine della beneficenza, ma vi aggiunge per istinto più efficace il pensiero di soccorrere nell’uomo l’immagine stessa di Dio, di soccorrerlo per volontà e per amore di Lui. La filantropia nasce nella testa del filosofo, e di rado dall’altezza della teoria, che è una idea, sa discendere alla pratica, opera di volontà; la beneficenza discende all’opera, ma, sebbene nobilissima e generosa, veste sempre alcun che di misurato, né si esercita di solito, se non in vista e in proporzione del male da togliersi: la carità sola è eroica; essa ha una iniziativa inesauribile, non cerca ricompense, affronta e rimuove difficoltà, trova quasi in esse una ragione di allettativa, si compiace del sacrificio, non vien meno giammai30.

 

 

«Il dolore è lo scettro delle anime grandi»

 

II dolore è lo scettro delle anime grandi; è la chiave dell’eterna città; è la via regia che mette alla patria. Fate adunque cuore, o dilettissimi. Se Dio vi tiene nelle pene e voi le soffrite con cristiana rassegnazione, voi siete sulla vera strada di salute e arriverete un giorno a regnare coi santi nel Cielo.

La povertà, è vero, è una croce pesante, ma per essa si va al Cielo: Beati i poveri, ci dice oggi con parola infallibile il Maestro divino: Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum.

Il vivere sempre in malattie, in pene, in affanni strappa ben spesso lacrime; ma gioite perché beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur. Il soffrire persecuzioni ingiuste ci affligge tutti, ma beati quelli che soffrono per la giustizia, perché di loro è il premio eterno: beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam eorum est regnum Coelorum. Le ingiurie, i motteggi, le derisioni, le calunnie ci trafiggono il cuore; compatisco l’umana debolezza, ma mi lagno della poca fede, mentre G.C. ci dice oggi: Beati sarete quando gli uomini vi malediranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni male di voi, allora rallegratevi ed esultate: beati estis cum maledixerint vobis homines et persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversus vos, mentientes, propter me: gaudete et exultate in illa die. Oh! quanto a torto, o carissimi, muoviamo lamento delle nostre croci, delle nostre afflizioni, delle nostre disgrazie! Guardiamo a Gesù Cristo, che visse sempre nella povertà, nel dolore e nel disprezzo e morì sul legno della croce; guardiamo sovente alla Regina dei martiri, guardiamo ai Santi e così ci saranno amabili le tribolazioni; le sopporteremo almeno con rassegnazione31.

 

 

«Sono venuto povero e povero parto»

 

Sano di mente e di corpo intendo fare, come faccio, col presente scritto, il mio Testamento.

Ringrazio la SS. Trinità di avermi concessa la grazia del Sacerdozio e dell’Episcopato e prostrato innanzi alla sua infinita grandezza chieggo piangendo perdono di tutte le offese fatte colle mie infedeltà all’augusto carattere impresso nell’anima mia.

Sono venuto povero a Piacenza e povero parto pel mondo di là. Quel poco che a me veramente appartiene basterà a saldare i conti e le spese dei miei funerali che voglio modestissimi, salve le disposizioni della S. Chiesa Cattolica Apostolica Romana nella quale sono stato battezzato e nella quale intendo morire. Proibisco qualunque elogio funebre32.

 

 

«Sarebbe strano che un Vescovo morisse sulla paglia?»

 

Sarebbe forse strano che un Vescovo morisse sulla paglia, quando Nostro Signore è nato sulla paglia ed è morto sulla Croce?33.

 

 

«Procacciai il pane a gran numero di sventurati»

 

Nell’inverno passato questa mia città e diocesi furono colpite da vera carestia, ma messomi all’impegno di sollevare tanti poverelli, coll’aiuto di Dio potei avere più di 250 mila lire versatemi in gran parte da pubblici istituti e dai privati e mi fu dato così il mezzo di procacciare il pane a gran numero di sventurati e un vero trionfo alla Religione. Il fatto venne, come al solito, ingrandito dai giornali; i deputati, 6 di numero, che appartengono alla Diocesi, con due senatori, essi pure diocesani, portarono la cosa al re Umberto, che mi fece pervenire ringraziamenti, proteste di venerazione ecc. Lasciai cadere il tutto in dimenticanza, né credevo che altri si desse pensiero dei fatti miei. Ma aperto l’istituto per le sordomute e fatto qualche altra opera di carità, si rinnovellarono con mio dispiacere, giacché amo tanto di essere lasciato tranquillo, le solite esagerazioni e di questi giorni venne a farmi visita un personaggio di corte. Costui mi espresse i sentimenti sovrani e il desiderio che sì aveva di darmi un pubblico attestato di riconoscenza. Il gentiluomo era preparato ad ogni mia obiezione, mi disse che il relativo Decreto sarebbe appoggiato alle sole opere di beneficenza, che altri Vescovi avevano ricevute medaglie pel colera, che era un moto proprio del re, che avrei potuto giovarmi a bene della Chiesa, che trattavasi di una onorificenza suprema, ma non politica (parmi accennasse all’Ordine della SS. Annunziata) ecc.

Risposi gentilmente, ma recisamente che le condizioni fatte alla S. Chiesa in Italia, che lo stato della S. Sede Apostolica e del S. Padre erano tali che non permettevano ad un Vescovo di accettare qualsiasi onorificenza, sia pure quella dell’Annunziata, senza offendere il proprio carattere e dignità episcopale. Pregai quel Sig. Marchese a riportare le ragioni del mio rifiuto ed i sensi della mia gratitudine per l’attenzione usatami, e lo congedai con decorosa urbanità, dicendogli che forse avrei scritto direttamente a chi lo avea mandato. Ecco il mio dubbio, E.mo Principe, debbo scrivere? Se lo debbo sarebbe mia intenzione di scrivere una lettera in cui, dopo i ringraziamenti e i motivi del rifiuto, esporrei le molteplici e sanguinose ingiurie fatte, anche oggidì, alla Chiesa, alla S. Sede, al S. Padre esortando Sua Maestà con rispetto, ma francamente a metter fine, in quanto possibile, a questi mali, assicurando che tale è il premio che si aspetta da lui tutto l’Episcopato del Regno ecc. Vorrei nei debiti modi far pervenire all’orecchio del re delle verità severe; ma non so risolvermi sul da farsi, né voglio aprir l’animo mio a chicchessia, trattandosi di cosa delicatissima.

Se non debbo scrivere l’Eminenza V. R.ma apponga ad un suo biglietto di visita la parola «negative», se lo debbo «affirmative». Le ragioni me le dica quando avrò l’onore e la consolazione di ossequiarla in Roma34.

 

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[1] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, pp. 5-6.

[2] Ibid., pp. 25-26.

[3] Ibid., pp. 6-7.

[4] Ibid., pp. 16-17.

[5] Ibid., pp. 21-22.

[6] Omelia di Natale, 1894 (AGS 3016/1)

[7] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1883, Piacenza 1883, pp. 13-14.

[8] Omelia di Natale, 1894 (AGS 3016/1)

[9] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, pp. 27-29.

[10] Ibid., pp. 33-34.

[11] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1883, Piacenza 1882, pp. 10-11.

[12] Ibid., pp. 11-12.

[13] Omelia di Pasqua, 1901 (AGS 3016/4).

[14] Lett. Past. (..) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, pp. 12-13.

[15] Ibid., pp. 22-23. 26-27.

[16] La devozione al SS. Sacramento, Piacenza 1902, pp. 5-6.

[17] Ibid., pp.7-8.

[18] 3° discorso del 30 Sinodo, 30.8.1899. Synodus Dioecesana Piacentina Tertia..., Piacenza 1900, p. 259 (trad. dal latino).

[19] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, p. 15.

[20] La devozione al SS. Sacramento, Piacenza 1902, pp. 26-28.

[21] Ibid., p.29.

[22] Il prete cattolico, Piacenza 1892, pp. 11-12.

[23] discorso del 3° Sinodo, 28.8.1899. Synodus Dioecesana Placentina Tertia..., Piacenza 1900, pp. 228-232 (trad. dal latino).

[24] Ibid., pp. 223-225.

[25] La devozione al SS. Sacramento, Piacenza 1902, pp. 22-23. Il «santo dottore» è S. Francesco di Sales.

[26] Ibid., pp. 20-21.

[27] Ibid., p. 9.

[28] Ibid., p. 25. L’Autore esorta i sacerdoti a rendersi sempre disponibi­li alle confessioni perché aumenti la frequenza dei fedeli alla comunione.

[29] Ibid., p. 24.

[30] Ibid., pp. 11-12.

[31] Ibid., pp. 12-13.

[32] Per l’inaugurazione del Tempio del Carmine in Piacenza, 17.2.1984 (AGS 3018/2).

[33] La devozione a1 SS. Sacramento, Piacenza 1902, p. 15.

[34] 1° discorso del 3° Sinodo, 28.8.1899. Synodus Dioecesana Placentina Tertia..., Piacenza 1900, pp. 229-231 (trad. dal latino).

[35] 2° discorso del 3° Sinodo, 29.8.1899 (ibid., pp. 242-243) (trad. dal latino).

[36] La devozione al SS. Sacramento, Piacenza 1902, pp. 34-36.

[37] Ibid., p. 14.

[38] Discorso al Congresso Eucaristico di Torino, 1894 (AGS 3018/2).

[39] 2° discorso del 3° Sinodo, 29.8.1899. Synodus Dioecesana Placentina Tertia..., Piacenza 1900, pp. 241-242 (trad. dal latino).

[40] Ibid., p. 245.

[41] La devozione a1 SS. Sacramento, Piacenza 1902, p. 37.

[42] Lett. Past. del 5.5. 1905, Piacenza 1905, pp. 4-5.

[43] Discorso sul SS. Crocifisso, 1880 (AGS 3017/3).

[44] Discorso per l’VIII Centenario della I Crociata 1896 (AGS 3018/26).

[45] Discorso del 13.4.1865 (AGS 3017/3).

[46] La penitenza cristiana, Piacenza 1895, p. 9.

[47] Ibid., pp. 8-9.

[48] Lett. Past.(…) per la Santa Quaresima del 1883, Piacenza 1883, pp. 14-15.

[49] Ibid., p. 16.

[50] La penitenza cristiana, Piacenza 1895, p. 13.

[51] Lett. a un cardinale, s.d. (AGS 3020/5).

[52] Parole dette ai Missionari che partivano da S. Calocero in Milano il 10 Giugno 1884 (AGS 3018/2).

[53] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1884, Piacenza 1884, pp. 6-7.

[54] Cattolici di nome e cattolici di fatto, Piacenza 1887, pp. 6-7.

[55] Omelia di Epifania, 1898 (AGS 3016/3).

[56] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1881, Piacenza 1881, pp.23-24

[57] Ibid., pp. 26-27.

[58] Omelia di Epifania, 1905 (AGS 3016/3).

[59] Omelia di Ognissanti, 1876 (AGS 3016/8).

[60] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1884, Piacenza 1884, pp. 12-13.

[61] Omelia di Epifania, 1905 (AGS 30 16/3).

[62] Lett. alla duchessa C. Fogliani Pallavicino, 29.1.1903 (AGS 3025/14).

[63] Nota della meditazione, 30.1.1893 (AGS 3027/1).

[64] Id., 2.2.1893.

[65] Test. IV ad 26 del Processo diocesano informativo.

[66] “Propositi”, 24.8.1894 (AGS 3027/1). Si tratta di proponimenti che lo Scalabrini scriveva alla fine del ritiro mensile o degli Esercizi spirituali annuali.

[67] Id., 24.8.1893.

[68] Id., 23.2.1901.

[69] Id., 19.8.1894.

[70] Lett. a Mons. N. Bruni, 1901 (AGS 3021/17).

[71] Lett. al Prefetto di Piacenza, s.d. (AGS 3025/6).

[72] La preghiera, Piacenza 1905 p. 24.

[73] Ibid., pp. 7-8.

[74] Santificazione della festa, Piacenza 1903, pp. 11-12.

[75] La preghiera, Piacenza 1905, pp. 23-24.

[76] Ibid., pp. 14-15.

[77] Ibid., pp. 15-16.

[78] Ibid., pp. 17-18.

[79] Ibid., p. 26.

[80] Ibid., pp. 31-32.

[81] Ibid., pp. 32-33.

[82] Ibid., pp. 5-7.

[83] Ibid., pp. 18-19.

[84] Ibid., p. 20.

[85] Discorso per il Giubileo sacerdotale di Leone XIII, 1887 (AGS 3017/6).

[86] Intransigenti e transigenti, Bologna 1885, pp. 22-23. L’opuscolo, ispirato e riveduto da Leone XIII, rivela il fondamento della cosiddetta “transigenza” dello Scalabrini: sapersi adattare al mutarsi dei tempi, saper “leggere i segni dei tempi”, riconoscendo nei fatti storici irreversibili, come l’unificazione dell’Italia, la “storia della salvezza” (cfr. Biografia, pp. 57 1-620).

[87] Discorso per il Giubileo sacerdotale di Leone XIII, 1887 (AGS 30 17/6).

[88] Ibid.

[89] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1877, Piacenza 1877, pp. 10-11.

[90] Ibid., pp. 15-17.

[91] Discorso per l’VIII Centenario della I Crociata, 21.4.1895 (AGS 3018/26).

[92] Discorso pel Centenario di Cristoforo Colombo, 1.12.1892 (AGS 3018/21).

[93] Discorso per l’VIII Centenario della I Crociata, 21.4.1895 (AGS 3018/26). La Crociata fu proclamata da Urbano il a Piacenza nel 1095.

[94] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1879, Piacenza 1879, pp. 30-35.

[95] Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1881, Piacenza 1881, pp. 15-16.

[96] Omelia di Epifania, 1905 (AGS 3016/3).

[97] Lett. a Leone XIII, giugno 1896 (ASV-SS, Rub. 43/1896, Prot. N. 31372).

[98] Circolare per il Congresso Scientifico Internazionale dei Cattolici in Friburgo di Svizzera - 1897, 1.6.1897.

[99] Lett. al Card. Giuseppe Pecci, 1881 (AGS 3020/3).

[100] Lett. a G. Bonomelli (Carteggio S. B., pp. 383-384). Il Bonomelli aveva espresso «timori» per l’indirizzo della critica biblica indicato specialmente dai primi scritti del Loisy.

1 Omelia dell’Assunzione, 1881 (AGS 3017/ 1).

2 Id., 1882.

3 Omelia di Pentecoste, 1900 (AGS 30 16/6).

4 A ricordo del primo faustissimo Giubileo della definizione dommatica dell’Immacolato Concepimento di Maria Santissima, Piacenza 1879, pp. 25-28.

5 Ibid., pp. 7-11.

6 Ibid., p. 20.

7 Discorso per l’incoronazione della Madonna della Consolazione di Bedonia, 7.7.1889 (AGS 3017/2).

8 Omelia dell’Assunzione, 1887 (AGS 3017/17).

9 «Chiusa di Maggio 1870» (AGS 30 17/2).

10 «Il S. Rosario», 7.10.1894 (AGS 3017/2).

11 La famiglia cristiana, Piacenza 1894, p. 22.

12 Lett. al rettore del Seminario e del Santuario di Bedonia, 13.9.1892 (Archivio del Seminario di Bedonia).

13 Omelia di Ognissanti, 1883 (AGS 3016/8).

14 Id., 1876.

15 Id., 1898.

16 Id., 1878.

17 Id., 1882.

18 Pel solenne riconoscimento delle reliquie dei SS. Antonino e Vittore, Piacenza 1880, pp. 9-10.

19 Seconda relazione «ad limina», 11.12.1879 (Archivio Vescovile di Piacenza) (trad. dal latino).

20 Pel solenne riconoscimento delle reliquie dei SS. Antonino e Vittore, Piacenza 1880, pp. 5-7.

21 Ibid., pp. 22-23. I santi qui ricordati sono piacentini o vissero a Piacenza.

22 Discorso nella festa di S. Antonino, 1899 (AGS 3017/5).

23 Discorso nella festa di S. Savino (AGS 3017/4).

24 Omelia di Natale, 1879 (AGS 3016/1).

25 Lett. Past. (...) per la Santa Quaresima del 1878, Piacenza 1878, pp. 9-10.

26 Discorso a un’associazione caritativa (3018/18).

27 Omelia di Pentecoste, 1902 (AGS 30 16/6).

28 Per il 90° anniversario delle Conferenze di S. Vincenzo, 3.6.1890 (AGS 3018/9).

29 Discorso a un’associazione caritativa (AGS 30 18/18).

30 Discorso per l’inaugurazione del monumento a Mandelli, 23.6.1889 (AGS 3018/10).

31 Omelia di Ognissanti, 1879 (AGS 30 16/18).

32 Testamento privato inedito (AGS 300 1/2).

33 Processo diocesano informativo, Test. XI ex officio ad 26.

34 Lett. al Card. L. Jacobini, 21.10.1880 (ASV-SS, Rub. 283/1880, fasc. 1, Prot. N. 42777). Nell’inverno 1879-1880 il vescovo, privandosi di tutto, distribuì fino a 3000 minestre al giorno al popolo affamato dalla carestia (cfr. Biografia, pp. 433-439). Rinunciando all’onorificenza del Collare dell’Annunziata, Mons. Scalabrini rinunciava anche a una lauta pensione.